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atto quarto 265


Ciacco. Fingeva; che egli è tristo come un bue.

Giacchetto. Fingeva, si: che, tosto che ti fece uscir di camera e che restò meco solo, inchiavata la porta, venne a me e m’incominciò a far le piú ladre carezze del mondo. Io, fingendo la vergognosa, stava su lo avedimento che egli non venisse a’ fatti; e il tenni sui travagli una gran pezza, che io non gli volsi compiacer pur d’un bascio solamente.

Ciacco. Tu facevi troppo la savia.

Giacchetto. Egli, infine, postomisi dinanzi in ginocchioni, mi cominciò a pregare con certe paroline le piú dolci e le piú care del mondo. Io sempre teneva detto: — Lasciatemi andare, lasciatemi andare, avanti che si faccia piú tardi, che, se mia madre se n’accorgesse, trista me! — Ciacco. Ah! ah! Mi par veder lui e te in quella guisa.

Giacchetto. Come m’ebbe bene pregato e ripregato a suo modo, trovandomi sempre piú dura e piú sorda ai suoi prieghi, chiese, per ultima grazia, che io mi coricassi in sul letto, cosí vestita come io era, se non per piacere a lui, per minor mio disagio, almeno; che non poteva patire di vedermi straziare in quel modo tutta la notte senza che io prendessi un poco di riposo.

Ciacco. Cotesto è il buon amore.

Giacchetto. Ti dirò il vero. Io, si per la gola dei danari come per salvar te e me in un medesimo tempo..., Ciacco. Non intendo questo salvamento.

Giacchetto. ...feci un nuovo pensiero.

Ciacco. Che pensiero potè far costui?

Giacchetto. Il qual fatto, gli mostrai ultimamente che io era contenta di gettarmi in letto vestita, fattomi promettere prima dal vecchio che esso non mi toccarebbe.

Ciacco. Gli desti il piú e gli ricusasti il meno.

Giacchetto. Odimi bene.

Ciacco. Tu non lo sollecitavi piú a lasciarti partire?

Giacchetto. Anzi, lo sollecitava io spesso, per dar colore alla cosa. E talora diceva con tal voce trista che parea che io piangessi: — Ove è Ciacco? dunque io sono tradita? —