Pagina:AA.VV. - Commedie del Cinquecento, Vol. II, Laterza, 1912.djvu/211


atto quinto 199


Lucido. Ei vorrebbe che voi fussi quello che movessi a suo padre.

Erminio. Questo mi pare il di de’ parentadi.

Marcantonio. Quest’altro fará che noi potremo servire Cesare, perché a Aridosio basta tornare in sui sua dumila ducati; e mille basterá che gne ne dia Tiberio, che serviranno per la dote di Cesare. E cosí si contenterá l’uno e l’altro.

Erminio. E voi avete ben pensato. Ma, di grazia, mandiam per Cesare; e parliamo adesso di questa cosa a Aridosio acciò che noi possiam fare, a un tratto, tre paia di nozze.

Marcantonio. Lucido, va’. Di’ a Cesare che venga adesso adesso qui e porti e’ dumila ducati.

Erminio. Va’ via, che e’ sará in casa.

Lucido. I’ vo.

Marcantonio. Egli è stata una gran sorte, quella di colui, di ritrovare la figliuola in capo a tanti anni.

Erminio. Gran sorte è stata quella di Tiberio, cavato che e’ s’è le sua voglie, ritrovar uno che gli dia se’ mila ducati. Ma qual è stata maggior sorte della mia? In fine, egli è meglio un’oncia di fortuna che una libbra di sapienzia.

Marcantonio. Tiberio ha paura che suo padre non voglia! Quando egli intenderá de’ seimila ducati, gli parrá un’ora mille anni.

Erminio. Io lo credo, per me: che, benché ei non abbin a tornare in mano a lui, e’ gli vuol pure poi gran bene. Ma bisogna prima ragionargli di Cesare che di nulla.

Marcantonio. Cosí farò.

SCENA VII

Cesare, Lucido, Erminio, Marcantonio.

Cesare. Dove di’ tu ch’ei sono?

Lucido. Ve’ gli li.

Erminio. Ecco qua Cesare.