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192 | l’aridosia |
Ruffo. E’ danari, e non altro, la possono acconciare.
Messer Alfonso. Dio il volessi! Ma noi posso credere; perché come può mai acconsentire un giovane da bene di voler una per donna colla quale abbi usato come con meretrice?
Ruffo. Oh! Non sa egli che l’è stata sempre in monasterio e che il primo omo che l’abbi vista, non che tócca, è stato lui?
Messer Alfonso. Se cosí è, e potrebbe essere, e’ danari non hanno a guastare, s’io n’arò tanti. Ma veggiamla, acciò ch’i’ mi certifichi se l’è o se la non è.
Ruffo. Io la lassai qui con Tiberio. Busserò, a vedere s’ei ci sono. Tò, tò, tò. Oh di casa! Io sento pur non so chi.
SCENA II
Aridosio, Ruffo, Messer Alfonso.
Aridosio. Chi è lá?
Ruffo. Amici.
Aridosio. E chi viene a sturbarmi i mia lamenti?
Ruffo. Aridosio, buone nuove.
Aridosio. Che l’è trovata?
Ruffo. Trovata; e’ segni tutti si riscontrano.
Aridosio. Oh! ringraziato sia Dio! Io ho paura di non mi venir manco per l’allegrezza.
Ruffo. Vedete voi che ei sará ciò che voi vorrete?
Messer Alfonso. Pensai tu, s’ei m’è grato!
Aridosio. E chi l’aveva?
Ruffo. Oh! Non sapete ch’i’ l’avevo io?
Aridosio. Non, io. Ma che facevi tu delle cose mia?
Ruffo. Innanzi ch’io la dessi a Tiberio era mia e non vostra.
Aridosio. Gli hai dati a Tiberio? O tu te li fa’ rendere e dammeli, o tu li pagherai.
Ruffo. Come me la poss’io far rendere, s’io gne n’ho liberamente venduta?