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atto terzo 173

egli è solo come quando egli è accompagnato mai dice altro che «Tiberio», «Livia», «un rubin falso» e «venticinque ducati».

Ruffo. Guarda che sciocca astuzia è questa di costoro! Col dir ch’io sia pazzo, volermi tór el mio!

Aridosio. Ei parla pure da savio, e non da pazzo.

Lucido. Non v’ho io detto che fa sempre cosi? Buon uomo, adesso non ci è tempo d’ascoltar le tua disgrazie. Vatten, ora. Altra volta, Aridosio t’udirá e ti fará far ragione. Io non te li vo’ dare in sua presenzia.

Ruffo. Tu non mi sei per levar di qui, se tu non mi dai o i mia danari o Livia.

Aridosio. Ei dice pur di rubino e di Livia. Chi è ella?

Lucido. Debbe dire anche che gne n’ha tolta per forza.

Aridosio. E cotesto.

Lucido. I’ ve lo sapevo dire!

Aridosio. Parlaci piú chiaro.

Ruffo. Dico che Tiberio e Lucido, questa mattina, m’hanno per forza cavato una stiava di casa. E voglio me la rendino o mi dieno venticinque ducati, che è ’l suo prezzo. Avetemi inteso, ora?

Lucido. Oh che importuno e presuntuoso pazzo è questo! Quando ei s’appicca addosso a uno è come la mignatta.

Aridosio. Ei ne debbe pur essere qualcosa.

Lucido. Voi volete pur creder a parole di matti? Tien qui, sotto la cappa, ch’ei non vegga.

Aridosio. Ma ei dice ben certe cose che non possono essere vere.

Ruffo. l’li voglio annoverare.

Lucido. Di grazia, che ei non vegga.

Ruffo. Che mi cur’io ch’ei non vegga? Mi basta che sien tutti.

Aridosio. Che bisbigliate voi, costá?

Ruffo. Or ch’i’son pagato, non die’ altro.

Lucido. Gli ho dati certi quarteruoli per chetarlo; che tutto di d’oggi arebbe fatto un verso.

Ruffo. Io andrò al banco; e quelli che non saranno buoni me li scambierete.