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166 | l’aridosia |
Livia. Ed io, Lucido, benché l’obligo mio nulla rilieva, pur obligata ti sono quanto esser possa donna a omo.
Lucido. Obligata hai tu a esser a costui che t’ha liberata da si fatto Ruffo; e dipoi non t’ha fatto dispiacere nessuno, ch’io sappia.
Livia. Dove l’obligo è si grande che le parole non bastino a significarlo è meglio tacersi, aspettando l’occasione di mostrarlo coi fatti.
Tiberio. E’ non farebbe a pena Dio che tu non fussi quella nobile figliuola che si stima.
Lucido. Tiberio, gli è bene non perder tempo perché io credo che ei sien presso a venti ore; e il Ruffo verrá piú prima un’ora a chiedere i danari che ei non ci aveva promesso. Credi tu che io cavi venticinque scudi da questo rubino?
Tiberio. Io l’ho sempre sentito stimare trenta.
Lucido. Torneranno a proposito, perché se n’ha a dare dua al prete. Tre che avanzano saranno del povero Lucido.
Tiberio. Gli è ben ragionevole.
Lucido. Io voglio adesso andarlo a vendere, che il Ruffo non è uomo da voler gioie.
Tiberio. E noi che farem, Lucido?
Lucido. Andatevene in casa Marcantonio tanto che la cosa del Ruffo sia assettata. Poi ve ne potrete andare in villa; e costei si potrá star in casa quel tuo amico li vicino; e a tuo padre sará poca fatica dar ad intendere che tu sia stato sempre lá su.
Tiberio. Se e’ ti pare...
Lucido. Si. Togliete le chiave di camera terrena di Erminio e serratevi drente Tiberio. E li che faremo?
Lucido. A cotesto non vo’ io pensare.
Tiberio. Tu di’ bene.
Lucido. Io andrò a fare questa faccenda. Ma spulezziamo, ch’io sento aprire la porta d’Aridosio. Andatevene di qua ed entrate per l’uscio di drieto.