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152 l’aridosia

ti raccomando. Orsú! Mettiamla giú, col nome di san Cresci. «In manus tuas, domine, commendo spíritum meum».

Cesare. Ell’è tanto gran cosa ch’io non la credo, s’io non la tocco.

Aridosio. Adesso vo’ vedere s’ei si par niente. Niente, afe! Ma, se qualcuno ci venissi a picchiare sopra, gli verrebbe forse voglia di vedere quel che sotto ci fussi. Bisogna ch’io ci dia spesso di volta e non ci lasci fermar persona. Adesso voglio andare dov’io avevo detto e trovar qualche espediente per cavar color di casa. Me n’andrò di qua, ch’io non vo’ passar loro appresso.

Cesare. Quest’è pur gran cosa! E, se io non sogno (che mi par essere desto), questo è quel di che ha a por fine alle mie miserie. Ma che aspetto io? che qualcuno venga qui a impedirmi? Voglio ancor io veder s’io son visto. E da chi? Oh fogna santa, che mi fai felice! Guarda s’io ho trovato altro che un fungo! Voi state pure meglio in mano mia. E forse ch’io li ho a scérre dalle monete? Tutti d’oro sono. Oh fortuna! Questa è troppo gran mutazione perché, dov’io ero disperato d’aver mai a veder Cassandra mia, in un punto me l’hai data in mano. Ma, per fargli maggior dispetto, voglio rimetter nella borsa de’ sassi acciò che la gli paia piena insin ch’ei non la tocca; e racconciare, che non si paia niente. Oh Dio! Perché non ho io un capresto da metterci drento? Ma io non mi vo’ lasciare vincer dall’allegrezza perché ei dicono che gli è cosí prudenzia il saper sopportare una felicitá come una avversitá: benché io sia certo di non aver a aver mai la maggiore; che, se bene d’un altro diecimila n’avessi trovati, non mi varrebbon quanto questi. Ma ecco non so chi. Non voglio che mi veggano qui. Ogni cosa sta ben e non si par niente.