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atto quinto 77


Fessenio. Non per questo ne domando io. Dimmi: sará, ora, chi impedisca ad alcuno lo ire lá drento a detta camera?

Samia. Quasi nissuno. Tutti son corsi, al rumore, all’uscio della camera.

Fessenio. Samia, questa cosa del negromante è pazzia. Se brami salvare la padrona, torna a casa e, con buon modo, leva de l’andito, se alcuno per sorte vi fusse.

Samia. Farò quel che di’; ma guarda che la cosa non se ruini affatto.

Fessenio. Non temer. Va’ via.

Lidio femina. Eimè! Fessenio mio, voglia il cielo che, in uno stante, ritrovato e riperduto mio fratello non abbia e che, ad un tempo, renduta la vita e data la morte non mi sia.

Fessenio. Qui non bisogna lamenti; il caso ricerca che il rimedio sia non men presto che savio. Nissun ci vede. Piglia i panni di Fannio e i tuoi dá’a lui. Su! presto!... Oh! cosi!... Piglia questo. Metti su... Cosí stai ben troppo. Non dubitare: meco ne vieni. Tu, Fannio, aspetta. A te, Santilla, mostrerò quanto a far hai.

Fannio. In che travaglio ha posto la fortuna il caso di questi due, fratello e sorella! Sará oggi il maggior affanno o la maggior letizia che avessin mai, secondo che la cosa se butterá. Ben fece il cielo l’uno e l’altra simili, non pur di apparenzia, ma ancor di fortuna. Sono amendue in loco che forza è che uno abbia quel bene e quel male che ara l’altro. Sin che il fine non vedo, né allegrar né attristar mi posso; né timor certo né certa speranza in cor mi siede. Or piaccia al cielo che la cosa quel fin si riduca che Lidio e Santilla di tanto travaglio e periculo eschino. Io, aspettando quel che avvenir di questo fatto deve, qua da parte mi ritirerò soletto.

SCENA V

Lidio maschio solo.

D’un gran periculo uscito sono; e, a gran pena, io medesimo non so come. Io ero, si può dir, prigione e di Fulvia e di me piangeva l’infelice sorte quando ecco uno, menato da