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atto quarto | 63 |
Fulvia. La prima cosa, che se li renda il coltel della guaina mia, intendi?
Ruffo. Benissimo.
Fulvia. E che in abito, non in sesso da donna torni a me.
Ruffo. Se cosí staman parlavi, non seguiva questo errore:
del quale ho però piacere perché tu cognosca quanta sia la potenzia del mio spirto.
Fulvia. Tra’ mi presto di questa angoscia; che, s’io noi vedo, non posso rallegrarmi.
Ruffo. Non solo il vedrai, ma con mano il toccherai.
Fulvia. E tornerá oggi da me?
Ruffo. Sono ornai venti ore e poco teco star potria.
Fulvia. Non mi curo dello stare, pur ch’io veda che maschio sia.
Ruffo. E come può non bere chi assetato si trova al fonte?
Fulvia. Verrá, dunque, oggi?
Ruffo. Lo spirto tei fará venire subito, se vuole. Statti, dunque, avvertente in su l’uscio.
Fulvia. Non bisogna questo, perché, venendo da donna, in presenzia d’ognuno può mostrarsi; perché non è chi per maschio il conosca.
Ruffo. Basta.
Fulvia. Ruffo mio, vivi lieto, che mai piú povero sarai.
Ruffo. E tu non piú scontenta.
Fulvia. E quanto posso aspettarlo?
Ruffo. Subito che sarò in casa.
Fulvia. Ti manderò drieto Samia perché tu me avvisi quel che te ne dice lo spirito.
Ruffo. Fa’ tu. E ricordati che anche lo amante si presenti spesso.
Fulvia. Oh! oh! Non curare, che ara denari e gioie a iosa.
Ruffo. Resta in pace. Con gran ragione Amor si dipinge cieco perché chi ama mai il ver non vede. Costei è per amor accecata si ch’ella s’avvisa che uno spirito possa fare una persona femina e maschio a posta sua: come se altro fare non bisognasse che tagliare la radice de l’uomo e farvi un fesso,