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atto quarto 373

Castel del signor di Piombino; e per usque millies ci fece scrivere per mille ducati di taglia che gli avea posto.

Virginio. Figliuol mio! Straziavano, almanco?

Pedante. Non certo; ma il trattavan da gentiluomo.

Gherardo. Io sto con la morte alla bocca.

Pedante. Non avemmo mai risposta di lettere che noi mandassemo.

Gherardo. Tu intendi. Che si che ti cavará di man qualche scudo?

Virginio. Segue.

Pedante. Or, essendoci condotti col campo spagnuolo in Corregia, fu questo capitano ammazzato; e la corte prese la sua robba e noi ha liberati.

Virginio. E dov’è il mio figliuolo?

Pedante. Piú presso che non credete.

Virginio. È forse in Modana?

Pedante. Se mi promettete il beveraggio, quia omnis labor optat praemium, io vel dirò.

Gherardo. Or questa è la cosa, truffatore!

Pedante. Voi avete il torto. Truffatore io? Absit.

Virginio. Prometto ciò che voi volete. Dove è?

Pedante. Nell’ostaria del «Matto».

Gherardo. La cosa è fatta: i mille fiorini son giocati. Ma che mi fa a me? Pur ch’i’ abbi lei, mi basta. Io son ricco (d’avanzo.

Virginio. Andiamo, maestro, ch’io non credo veder quell’ora ch’io ’l vegghi, ch’io l’abbracci, ch’io ’l baci e lo pigli in collo.

Pedante. Padrone, oh quanto mutatur ab ilio! E’ non è piú fanciullo da pigliare in collo. Voi non lo conoscereste. Gli è fatto grande. E so certo che non riconoscerá voi, cosí séte mutato! Praeterea avete questa barba, che prima non la portavate; e, s’io non vi sentivo parlare, non vi arei mai conosciuto. Che è di Lelia?

Virginio. Bene. Gli è fatta grande e grossa.

Gherardo. Come «grossa»? Se gli è cotesto, tientela; ch’io, per me, non la voglio.