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372 | gl’ingannati |
Virginio. Sareste mai messer Pietro de’ Pagliaricci maestro di mio figliuolo?
Pedante. Si, sono.
Virginio. Oh figliuol mio! Trist’ame! Che nuove mi portate i di lui? ove il lasciaste? ove mori? perché séte stato tanto ad avvisarmi? ammazzoronlo quei traditori, quei iudei, quei cani? Figliuol mio! Era quanto bene io avevo al mondo! O caro maestro mio, presto! Ditemelo: ve ne prego.
Pedante. Non piangete, messer, di grazia.
Virginio. Oh Gherardo, genero mio! Ecco chi m’allevò quel povero figliuolo mentre che visse. Oh maestro! O figliuol mio, dove se’ tu sotterato? Sapetene nulla? che non mei dite? ch’io muoio di voglia di saperlo e di paura di non intender quello ch’io intenderò.
Pedante. O padron mio, non piangete. Perché piangete?
Virginio. Non piangerò io un cosí dolce figliuolo? cosí savio? cosi dotto? cosí bene allevato? che quei traditori me l’ammazzorono.
Pedante. Iddio ve ne guardi, voi e lui. Vostro figliuolo è vivo e sano.
Gherardo. Mal per me, se questo è. Perdut’ho io mille fiorini.
Virginio. Vivo e sano? Che? Se cosí fusse, saria ora con voi.
Gherardo. Virginio, conosci ben costui, che non sia qualche barro?
Pedante. Parcius ista viris, tamen obiicienda memento.
Virginio. Ditemi qualche cosa, maestro.
Pedante. Vostro figliuolo, nel sacco di Roma, fu prigione d’un capitano Orteca.
juC^ Gherardo. State a udire, che ora comincia la favola.
Pedante. E perché gli era a compagnia con due altri, pensando d’ingannarsi, secretamente ci mandò a Siena. Di li a pochi giorni venn’egli dubitando che quei gentiluomini sanesi, che sono molto amici del dritto e del ragionevole e molto affezionati a questa nazione e sopra tutto uomini da bene, non glie lo tollesseno e liberasseno. Lo cavò di Siena e mandò a un