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atto secondo 349


Lelia. Oimè!

Flamminio. Che hai? Par che tu venga meno. Che ti senti?

Lelia. Oimè!

Flamminio. Che ti duole?

Lelia. Oimè! Il cuore.

Flamminio. Da quanto in qua? Appoggiati un poco. Duolti forse il corpo?

Lelia. Signor no.

Flamminio. E forse lo stomaco ch’è indebilito?

Lelia. Dico ch’è il cuore che mi duole.

Flamminio. Ed a me, forse, molto piú. Tu hai perduto il colore. Vattene a casa: e fatti scaldare qualche panno al petto e far qualche frega dietro alle spalle; che non sará altro. Io sarò or ora lá e, bisognando, farò venire il medico che ti tocchi il polso e vegga che male è il tuo. Dá’ qua, un poco, il braccio. Tu sei gelato. Orsú! Vattene pian piano. A che strani casi è sottoposto l’uomo! Non vorrei che costui mi mancasse per quanto vale tutto ’l mio: ch’io non so se fusse mai al mondo servidor piú accorto, meglio accostumato di questo giovanetto; e, oltre a questo, mostra d’amarmi tanto che, se fusse donna, pensarei che la stesse mal di me. Fabio, va’ a casa, dico; e scaldati un poco i piei. Io sarò or ora lá. Di’ che apparecchino.

Lelia. Or hai pur, misera te, con le tue propie orecchie, dall’istessa bocca di questo ingrato di Flamminio, inteso quanto egli t’ami. Misera, scontenta Lelia! Perché piú perditempo in servir questo crudele? Non ti è giovata la pazienzia, non i preghi, non i favori che gli hai fatti; or non ti giovan gl’inganni. Sventurata me! rifiutata, scacciata, fuggita, odiata! Perché ser v’io a chi mi rifiuta? perché domando chi mi scaccia? perché seguo chi mi fugge? perché amo chi m’ha in odio? Ah Flamminio! Non ti piace se non Isabella. Egli non vuole altro che Isabella. Abbisela, tenghisela; ch’io lo lasciarò o morrò. Delibero di non piú servirli in questo abito né piú capitargli innanzi, poi che tanto m’ha in odio. Andarò a trovar Clemenzia che so che m’aspetta in casa; e con essa disporrò quel che abbi da essere della vita mia.