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atto quinto 291

          e largo dono; e a te, maggior pianeta,
          ch’ogni cosa terrena col tuo lume
          governi e reggi (che giá tante volte,
          al dipartir, mi lasciasti si pieno
          di pensier tristi, ed al ritorno, poi,
          lontan da ogni riposo a tragger guai),
          che, rivolgendo altrove il chiaro giorno,
          lasciando dietro a te l’ombrosa notte,
          a tanto mio contento desti luogo.
          Luna, e tu parimente, che porgesti,
          velando il chiaro viso di piú oscure
          e fosche nubi, a tal felicitá
          favor, non sará mai mia lingua stanca
          in pregar chi che sia che lo può fare
          ne le tue contentezze; e che ritornino
          i dolci abbracciamenti de lo amato
          Endimion quanto mai lieti e spessi.
          Benigne stelle, cui chiamai sovente
          in testimonio di mia vita acerba, ma
          sempre in vano, onde crudeli ed empie
          vi dissi, non è alcun mortai mio sforzo
          che mi vaglia a formar degne parole
          in rendervi le grazie ch’io vi debbo.
          Cor lasso, che di lagrime e sospiri
          vivesti un tempo, ond’eri giá ridotto
          quasi a l’estremo, come puoi di tanta
          dolcezza esser capace? Occhi, che primi
          foste a soffrire e mandar dentro al core
          il dolce amaro, che non fate segno
          di cosí gran letizia? ch’or vi involge
          in dolce pianto, come, in questa notte,
          vi ha dato il ciel, discacciando a voi lunge
          ogni tristezza, quanto vi fu prima,
          ogni riposo. E tu, lingua mia frale,
          che giá si spesso, ne l’alte sue lodi,
          cantando, davi a le acerbe mie pene