e largo dono; e a te, maggior pianeta,
ch’ogni cosa terrena col tuo lume
governi e reggi (che giá tante volte,
al dipartir, mi lasciasti si pieno
di pensier tristi, ed al ritorno, poi,
lontan da ogni riposo a tragger guai),
che, rivolgendo altrove il chiaro giorno,
lasciando dietro a te l’ombrosa notte,
a tanto mio contento desti luogo.
Luna, e tu parimente, che porgesti,
velando il chiaro viso di piú oscure
e fosche nubi, a tal felicitá
favor, non sará mai mia lingua stanca
in pregar chi che sia che lo può fare
ne le tue contentezze; e che ritornino
i dolci abbracciamenti de lo amato
Endimion quanto mai lieti e spessi.
Benigne stelle, cui chiamai sovente
in testimonio di mia vita acerba, ma
sempre in vano, onde crudeli ed empie
vi dissi, non è alcun mortai mio sforzo
che mi vaglia a formar degne parole
in rendervi le grazie ch’io vi debbo.
Cor lasso, che di lagrime e sospiri
vivesti un tempo, ond’eri giá ridotto
quasi a l’estremo, come puoi di tanta
dolcezza esser capace? Occhi, che primi
foste a soffrire e mandar dentro al core
il dolce amaro, che non fate segno
di cosí gran letizia? ch’or vi involge
in dolce pianto, come, in questa notte,
vi ha dato il ciel, discacciando a voi lunge
ogni tristezza, quanto vi fu prima,
ogni riposo. E tu, lingua mia frale,
che giá si spesso, ne l’alte sue lodi,
cantando, davi a le acerbe mie pene