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atto quinto | 153 |
Malfatto. Si! Non me aiutate, quando fo alle pugna io.
Mastro Antonio. A son fatigao troppo. Ove domino e’ sé la bretta?
Malfatto. Tirateve su le brache, mastro.
Prudenzio. Nunquam, mai, edepol, me aria imaginato questo.
Ma vanne dentro, tu; e portarne quello ense.
Malfatto. Dove?
Prudenzio. Per la machera.
Malfatto. Misser si, farete molto bene.
Prudenzio. E portarne el clipeo ancora. Oh Luzio!
Luzio. Che volete?
Prudenzio. Portarne el clipeo e la machera nostra.
Luzio. Misser si!
Mastro Antonio. Lagame andar con Dio.
Prudenzio. Te nne vai, ch? vecchio insano, pedicatore, mentuloso, inrumatore pieno di marisce! A questo modo alli uomini stipendiati dal Gimnasio romano, ch? Non curare, predone, depopulatore e turbatore della quiete nostra!
Malfatto. Se nne è fugito, mastro, che ha avuto paura.
Ma avete relevato voi.
Prudenzio. Questa è la retribuzione che ci rendi, ch? adultero, mèco!
Malfatto. Alla fé, mastro, che avete cantato molto bene, questa sera.
Luzio. Ecco qua: tenete.
Prudenzio. Ah scevo uomo! latrina fetida! Te farò vedere se un par tuo, inquilino, agricola, incola et accola, transfuga della patria sua, uso andare famulando e rusticando per li tuguri alieni resarcendo el ventre fetido e exausto, debbia un par nostro, òrto nella cittá romulea, soppeditare, inmemore delli suffragi ricevuti nella nostra mansione.
Malfatto. Che non pigliate quella spada e correteli dereto?
ch’io ve cci voglio lassar andare.
Luzio. Se nne è andato. Non ce è, no, mastro.
Prudenzio. Non si curi! So bene che non ospitare piú in casa nostra.