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atto quinto | 143 |
Curzio. Be’, io non voglio restar di notte fuori di casa senza te; e tanto piú in simili luoghi. E che so io se mi bisognassi cosa alcuna?
Rufino. E che volete che vi bisogni?
Curzio. E che ne so io? Solo Idio sa el secreto dei cuori umani.
Rufino. Fate adunque come vi pare, ch’io, a dirve il vero, ho caro di trovarmi sempre appresso di voi; ch’accadendo, vi possa mostrare l’affezione ch’io vi porto.
Curzio. Io ne sono chiaro pur troppo, Rufino; e, dallo esserti io patrone in poi, tutto el resto è commune fra te e me: e tu lo sai. Ma dimmi, or che me ricordo: porti tu i danari?
Rufino. Signor si: eccoli.
Curzio. Avertisci che non ti caschino.
Rufino. Non dubitate. Ma, da qui a un poco, potrete ben dire che vi sieno caduti.
Curzio. Anzi, farò conto de avergli alogati in buona parte. E dicoti che, se io avessi meglio el modo che non ho, che non mi pensarei mai di spendere el mio danaio bene se non quando io lo dessi a qualche donna: che certamente le sono Tonor del mondo per le quali l’uomo, argumentando, a perfetta cognizione delle bellezze del cielo suol venire. E quale è quel cuore si efferato, si inumano che, drizzando gli occhi in un bel volto, che, ad un’otta, non perda l’ardire e l’orgoglio e riverente non se gli inchini e voluntario pregione non se gli renda? Io, certo, le amo, le adoro, le reverisco, per ciò che sono degne d’essere sopra tutti li altri uomini essaltate e reverite mediante i buoni effetti che da loro ne segueno.
Rufino. Patrone, voi lodate quello che molti biasmano.
Curzio. Questi sono simie, che paiono e non sono uomini; e, per la spurcizia dei vizi ch’egli hanno, inei quai cercano di sotrarre altrui per aver piú compagni acciò piú licito gli sia el peccare, maliziosamente parlano. Ma questo non è maraviglia, che dicono male de Idio, ben lo possino ancor dire di esse. Non ti niego che non ve nne siano delle cattive; ma in tanto numero ch’è!... Ma par che voglia el destino che de quella sola