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atto primo | 119 |
la mercé del signore Francesco Orsino de Aragona abate de ’ Farfa gli ha donato possessione e campi: di sorte ch’egli, per quello ch’io ne intendo, l’ha fatto ritornare ai studi da’ quali, per essere poco pregiati appresso dei piú, allontanato se n’era.^ Rufino. Ed io l’ho inteso molto da molti lodare; ma un fiore non fa primavera.
Curzio. Che voi dir quel menar di capo e quel maravigliarsi che tu fai? A che pensi?
Rufino. Penso ch’io v’ho voluto dire una cosa parecchie volte e sempre mi è uscita di mente.
Curzio. Qualche bugia deve essere, però.
Rufino. O bugia o veritá, io vel vo’ dire. Io mi sono giá imbattuto doi volte in una giovane che tutta a madonna Fulvia vostra si rassomeglia.
Curzio. E dove l’hai tu incontrata?
Rufino. Qua giú, che usciva de un certo monestero, e parvenu ch’ella avessi la Rita con esso lei.
Curzio. In che luogo sta quel monestero? come se chiama?
Rufino. Questo si ch’io non so.
Curzio. Sai perché ch’io tei dico? Per ciò ch’io ancora mi sono giá parecchie volte imbattuto in una che tutta alla Rita se assomiglia; e, ogni volta che l’ho incontrata, me ssi è fugita dinanzi. Ma sai che si vuol fare? che, come te ssi rimbatte piú innanzi, tu gli vadi dietro; ch’io me delibero di sapere s’eli’ è dessa o no.
Prudenzio. Impulsant campanicule.
Rufino. Patrone, ecco il vostro rivale.
Curzio. Guarda cera de furfante! Andiamogli incontro.
Prudenzio. Bonum est quod ego, bono è ch’io vada sino alla Eccellenzia della Magnificenzia del reverendo illustrissimo mio unico perpetuo domino colendissimo del Monsignor mio; e partim andarò sino al barbitonsore. Non odi, villico, stabulatio, Malfatto?
Curzio. Stiamo a udire che dice.
Prudenzio. Famulo, non odi? Vien qui, che te voglio parlare.
Malfatto. Che volete?