Otto mesi nel Gran Ciacco/Parte seconda/I
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I
LA FRONTIERA - L'ARRIVO
In altre parti si può andare centinaia di miglia e attraversare una dozzina di nazioni, e dappertutto troveremo una società che nelle tradizioni, nei costumi, negli strumenti della vita civile si rassomiglia alle limitrofe, e forma con queste una confederazione di fatto, più stretta di tante altre vincolate da costituzioni scritte. Ma qui, a pochi passi di distanza, da un lato il Pelle-Rossa ignudo con l’arco e la freccia, dall’altro il soldato dall’uniforme variopinta e col fucile a retrocarica; da un lato la legge naturale del taglione e dell’assecondamento delle tendenze innate, dall’altro codici scritti, all’altezza e al di sopra di quelli delle nazioni più avanzate, compilati da giurisperiti come Velez-Sarsfield e Tejedor, nomi universali nella Repubblica delle Scienze! Da una parte lo spontaneo pauroso scongiuro del male e delle ombre, dall’altra l’artificiosa incomprensibile Teogonia cristiana; da una parte i nomadi, che aspettano dalla natura inviolata i frutti spontanei della sua fecondità, e che si compiacciono nella povertà uguale per tutti e nella selvaggia indipendenza che ne viene per conseguenza; dall’altra parte, l’agricoltore, il pastore, l’artefice, il negoziante, il magistrato; il miserabile e l’opulento; il servo e il padrone!....
Arrivammo al Forte Gorriti verso le dieci della mattina. Già sappiamo che è un forte, ma qui aggiungerò, che il loro nome proviene quasi sempre da quello di qualche cittadino benemerito della patria. Domandammo del capitano, amico del mio compagno di viaggio il signor Roldan, e apprendemmo che erasi da breve tempo trasferito a un paese detto colonia Rivadavia a venti chilometri di qui, per assistere alle elezioni per la legislatura provinciale, che minacciavano riuscire burrascose.
Roldan aveva un fratello a Rivadavia: non ponemmo adunque tempo in mezzo, e, benchè in sella da più di cinque ore continue, mutati i cavalli e in compagnia dell’alfiere e di due uomini, demmo briglia sciolta agli animali e in due ore e mezzo di galoppo attraverso a rigogliose boscaglie di algarrobi, di vinali, di chebracci e di giuccian, tramezzati qua e là da pascoli a volte recinti con siepe secca, entravamo nella colonia.
Nessuno ci aspettava. Inoltre era l’ora del desinare ed era domenica: le poche e disabitate strade erano dunque deserte, nè il pestio di cinque cavalli, qua, dove non si fa un passo che a cavallo, e dopo una giornata elettorale, chiamava l’attenzione. Arriviamo alla cantonata dove è il negozio del fratello di Roldan; le porte son chiuse; si bussa: niente. Continuiamo fino alla piazza: essa pure deserta; ci dirigiamo a un chiomato giuccian, che ostentava i suoi mille limoni sbocciati e rivestiti di candido e abbondante cotone.
Giungiamo alla casa: Roldan smonta, bussa... e i due fratelli si stringono al petto l’uno dell’altro! L’emozione li fa muti, e non trovano altro sfogo alla piena dell’affetto che in uno e poi in un altro amplesso, e poi in altri ancora; esclamando alfine a vicenda: «Fratel mio, dunque ti rivedo!»
Gli altri della casa e il capitano, anelavano il proprio turno, e fu una serie di abbracci e di forti strette di mano e di domande interrotte e di risposte anticipate; e una gara di carezze, di premure, di dimostrazioni d’affetto.
Non rimase ciglio asciutto, fuorchè in me forse, che tuttora in sella, aspettando l’invito a smontare, colle gambe ciondoloni, il corpo curvo, il capo chino, le spalle in capo, le mani sulla sella, contemplavo la scena con occhio vitreo e il pensiero riconcentrato, sprofondato, scaraventato nel presente, nel passato, nel lontano. Fu una scena di cinque minuti, ma pel mio spirito fu indefinita nel tempo e nello spazio e negli oggetti. Non so che accadesse in me, ma giammai mi son sentito così solo come in quell’istante in mezzo di tanta gente che veniva aggruppandosi, e di tante feste. Quel trovarmi e sentirmi estraneo a tutta quella brava gente mi mortificò. Quel vedermi tanto nulla nella gioia di tanta gente mi afflisse !...
E allora, quasi fosse una rivincita del mio cuore, mi passò a un tratto dinanzi e la casa paterna e l’anziana madre e i cari fratelli e i dolci amici e i buoni abitanti del mio villaggio nativo. E a un tratto mi pareva che anch’io, salita lesto lesto l’ascesa, avevo picchiato alla porta di casa mia e mi aveva risposto un grido tra di giubilo e di spasimo pel piacere; e che mi trovavo stretto da tutte le parti e chiamato col nome di quando ero ragazzo e apostrofato con mille interiezioni. E tutto questo nell’andito della casa, mentre alla porta s’aggruppava tutto il vicinato e si comunicavano la notizia e m’accennavano a dito e mi commentavano. E poi mi pareva che già principiassero le visite e che li in un salotto in mezzo d’un gran circolo di persone, era un domandare curioso, incessante, un rispondere a tutti in blocco, una interruzione continua per nuove visite, che rinnuovavano le liete accoglienze, le stesse domande, le solite esclamazioni, le medesime botte e risposte.... E a un tratto una densa nube agghiacciò la letizia del mio cuore: era il sovvenire del Camposanto lì prossimo dove giacciono tanti di casa mia!....
«El Señor Ingeniero Nacional,» in quell’istante mi annunzia così il signor Natalio Roldan al suo fratello e a tutti i suoi parenti.
Ci stringemmo la mano e smontai.