Orazioni di Sallustio e di Tito Livio volgarizzate

Brunetto Latini

XIII secolo Orazioni di Sallustio e di Tito Livio volgarizzate Intestazione 7 gennaio 2018 75% Da definire

Proemio di Ser Brunetto Latini nella Oratione di Julio Cesare contro a' congiurati di Catellina

Nel tempo che Catellina fece la grandissima congiurazione in Roma per occupare la repubblica, Marco Tullio Cicerone era allora consolo, il quale con sua sagace prudenzia ritrovò la congiurazione, e prese molti de' congiurati uomini in Roma oltre agli altri potenti egrandi, e messi quelli in prigione, e pubblicata la congiurazione, fece congregare il Senato per giudicare quello che fusse da fare de' congiurati presi. Onde allora Decio Sillano, disegnato consolo per l'anno seguente, disse la prima sua sentenzia in cotale maniera, che i prigioni fussono giudicati a morte, e simile tutti gli altri congiurati che prendere si potessono: e finito il suo parlare, parea che quasi ciascuno s'accordassi alla sua sentenzia, e Julio Cesare, che volea i prigioni difendere, parlò coperta e ammaestratamente in questa forma.


Orazione di Giulio Cesare contro a' congiurati di Catellina.

Tutti coloro, Padri Coscritti, che vogliono dirittamente consigliare, debbono essere rimossi o da ira, odio, amicizia e pietà, perchè queste quattro cose possono all'uomo fare lasciare la via del diritto giudicio. Senno non vale alcuna cosa, quando l'uomo vuole del tutto adempiere la sua volontà. Io potrei nominare assai prencipi, che presi da ira lasciarono la diritta via, ovvero per pietà sanza ragione. Ma io voglio innanzi parlare di ciò che i savi uomini e antichi di questa città hanno fatto alcuna volta, quando lasciarono la volontà o delli loro cuori, e facevano quello che il buono ordine insegnava, e che tornava al bene comune della città. La città di Rodi fu contro a noi nelle battaglie, che noi avemmo contro a Perseo re di Macedonia. Quando fu vinta, il Senato ed i consoli giudicarono che la città di Rodi non fusse disfatta nè distrutta, per paura che altri non dicessono ch'ella fusse distrutta più per cagione di torre le loro *ricchezze, che per cagione della loro colpa. Quelli di Cartagine ne feciono molte ingiurie nella guerra, che noi avemmo contro a quelli d'Africa, e ruppono più volte triegua e pace, e i nostri maggiori di questa nostra città non guardarono alle loro colpe, chè bene gli potevano distruggere, anzi gli tennono con dolcezza e umanità. Questo esemplo dobbiamo noi prendere, Padri Coscritti, che la malvagità e il fallo di coloro, che sono presi, non soprappigli la nostra dignità e la nostra dolcezza: più dobbiamo noi guardare al nostro buono nome che al nostro buono cruccio. Coloro, che hanno dinanzi a medetto e data la loro sentenzia, hanno assai chiaramente dimostrato ciò che può di male avvenire per la congiurazione, sì come crudeltà di battaglia, prendere le pulzellea forza, torre dalle loro braccia a' padri e alle madri i loro figliuoli, e fare forza e disonore alle madri, rubare i templi e le case de'cittadini, fare omicidj, arsioni, e riempiere la città di uomini morti, e di sangue, e di pianto. Ora di questo non voglio più dire, chè più può muovere la crudeltà di cotale fatto, che il ricordamento di cotali opere. E' non è alcuno uomo che non si doglia del suo danno, e so bene di quelli, che 'l prendono per più grave, che non è loro mestieri. Ma e' si confà tale cosa a uno uomo, che non si confà a uno altro. Se io sono un basso uomo, ed io erri in alcuna cosa per mio cruccio, pochi lo sapranno. Ma tutti gli uomini sanno quando uno grande uomo erra in giustizia, o in altra cosa, chè il fallo del piccolo uomo gli torna ad irà, e 'l fallo del grande gli torna ad argoglio:o e perciò debbiàno noi guardare al nostro buono nome. Io dico bene che 'l fallo de' congiurati è maggiore che tutte le pene, che si potessono loro dare, al mio parere; ma quando l'uomo tormenta alcuno uomo, el tormento è assai maggiore della colpa. Assai sono, che biasimano 'l tormento, e del fallo non dicono niente, e credo bene che Decio Sillano ha detto la sua sentenzia per lo bene del Comune, e non ha guardato a odio e ad amore, tanto conosco i suoi costumi e 'l suo temperamento;nè la sua sentenzia non mi pare crudele, per ciò che uomo o non potrebbe fare crudeltà a cotal gente: ma tuttavia dico io che la sua sentenzia non mi pare convenevole al nostro Comune. Sillano è forte uomo e nobile e eletto a essere consolo, e ha costoro giudicati a morte per paura di male, che ne potrebbe seguire, chi gli lasciasse. Paura non ci bisogna avere, però che Cicerone, nostro Consolo, è sì savio e sì guernito d'arme e di cavagli, che non bisogna dubitare. Della pena dico così come ella è: se noi gli giudichiamo a morte, morte non è tormento, anzi è fine e riposo di pianto e di cattività: morte consuma tutte le pene terrene: appresso” della morte non è pianto nè gioia. Perchè non disse Sillano s'egli avessi voluto che fussono battuti e tormentati primamente? E se alcuna legge difende che l'uomo non debbia battere l'uomo giudicato a morte, un'altra legge dice che l'uomo non debbia uccidere i cittadini condannati, anzi debbono essere sbanditi sanza tornaregiammai. Padri Coscritti, guardate quello, che voi fate, chè l'uomo fa molte cose per bene, che appresso ne seguitano molti mali.o Quando quelli di Lacedemonia ” ebbono presa la città d'Atena, egli ordinarono trenta uomini, i quali dovessono essere guardatori della città.° Quelli nel cominciamento del loro officio, sanza alcuno vigore di ragione o uccidevano i rei uomini e disleali della città, onde il popolo era molto allegro, e diceva che questo era buono e santo officio, e che bene facevano. Poi crebbe tanto il costume e l'uso, ch'elli uccidevano i buoni e i rei alla loro volontà sì, che tutti gli uomini della città ne furono spaventati, e bene riconobbono che la loro allegrezza era tornata in tristizia e in pianto e in tormento. Lucio Silla fu molto lodato quando egli avocolòed uccise Damasippe e altri che erano istati con lui contra al Comune di Roma; ma quella cosa fu cominciamento “ di grande male, che dopo questo, quando alcuno volea la casa, o la villa, o il vasellamento,*o altre cose del vicino suo, egli procacciava d'accusare colui, le cui cose volea: e per questa cagione erano morti gli uomini e condennati a torto, più per torre il loro avere che per le loro colpe. E per ciò quelli, che furono lieti della morte di Damasippe, ne furon poi dolenti e crucciosi, però che Silla non finì d'uccidere gli uomini in questa maniera, infino a tanto che la sua cavalleria fu tutta piena d' avere o e ricchezze. Non però che io di tali ricchezze abbia paura, o di tali cose in questo tempo, e spezialmente tanto, quanto Marco Tullio Cicerone è consolo: ma in così grande città sono molti e diversi uomini e pieni d'ingegni, e nel tempo d'un altro consolo potrebbe l'uomo mettere innanzi il falso pel vero; e se i consoli per autorità del Senato uccidessono l'uomo incolpato a torto, molto male me potrebbe addivenire. Quelli, che furono dinanzi a noi, ebbono senno e ardimento e rigoglio: ma questo non tolse loro che non prendessono buono esemplo di ragione in ogni cosa, e quando trovarono per gli strani” paesi ne' loro nimici alcuno buono costume, il sapeano bene pigliare ne'loro bisogni: più amavano seguire il bene, che essere invidiosi. Essi frustavano i cittadini a guisa de' Greci, ma quando il male cominciò a crescere, allora fu provveduto per li Senatori che fossono condannati a perpetuale bando. Perchè adunque prenderemo noi altro consiglio che si prendessono i nostri antichi?° Maggiore virtù e più senno fu in loro, che non è in noi, chè elli erano pochi, e conquistarono con poca ricchezza quello, che noi appena potremo ritenere e guardare. Che faremo noi dunque di costoro? Lasceremo noi andare questi prigioni, per accrescere l'oste di Catellina? No: anzi è la mia conclusione e sentenzia, che il loro avere sia messo e pubblicato o alla camera del Comune, e le loro persone sieno messe in prigione in diverse rocche fuori di Roma bene guardate, e che niuno uomo debbia mai pregare nè 'l Senato nè 'l popolo per alcuno di loro: e chi facesse contro a ciò, sia messo in prigione con loro insieme.


Proemio di ser Brunetto Latini nella Orazione di Marco Cato, dove mostra l' astuzia, che Cesare usò nel suo parlare coperto e adombrato.

Sopra questa sentenzia potete voi intendere che 'l più vero parladore, come fu Decio Sillano, se ne passò brievemente e con poche parole sanza fare grande proemio, e sanza dire parola coperta, però che la sua materia era onesta cosa, sì come di giudicare a morte i traditori del Comune di Roma. Ma Julio Cesare, che pensava ogni altra cosa, recò la sua diceria a parole coperte e motti d' oratori, però che la sua materia era contraria, perchè sapeva bene che comunemente gli uomini erano mossi contra la sua intenzione, e però li convenia acquistare la loro benivolenza; e d'altra parte la sua materia era dubbiosa e oscura per molte sentenzie, che voleva dire. Ma perchè le genti hanno a sospetto il parlare coperto, egli non volle dal cominciamento scoprirsi d'acquistare la benivolenza degli uditori, anzi toccò la somma della sua intenzione per dare agli uditori volontà d'udire ed intendere le sue parole, là dove disse delle quattro cose che i buoni consigliatori debbono guardare. E non pertanto sanza benivolenza fu il proemio suo, quando ai Padri Coscritti innalzò la materia, e confermolla con buone ragioni e per esempli di vecchie storie. E così ornatamente dalla cosa, che dispiaceva agli uditori, ricordò loro cose che dovessono loro piacere, per rimuovere i cuori loro dalle cose laide, e recarli a onestà e a ragionè. E per questa via passò a dire il fatto sopra quello che volea fondare le sue parole circa il consiglio, che si dovea pigliare sopra i congiurati, e fece sembianti di non volere difendere il loro male, ma che voleva guardare la degnità e l'onore del Senato. Ed allora incominciò la terza parte del suo detto, che si chiama divisamento, e divise le parole e la crudeltà del fatto a partite, e raunò quelle parole, che più l'aiutavano contro a coloro che avevano detto dinanzi, ed allora le mise nel cuore degli uditori, quanto potè. E quando egli ebbe fatto ciò, incominciò la quarta parte del suo conto, cioè confermamento, là dove disse che doveano guardare il loro buono nome, e mostrò di lodare la sentenzia degli altri, ma molto la biasimò, e sopra ciò confermò il suo detto per molte ragioni, che davano fede al suo consiglio, e la tollevano alla sentenzia degli altri. E poi, quando egli ebbe confermate le sue parole per molti buoni argomenti, egli se n'andò incontanente alla quinta partita, cioè a finimento, per indebolire e disfare il confermamento degli altri dicitori, che aveano detto innanzi a lui, quando disse, guardate, Signori, quello che voi fate, e immantenente raccontò molti buoni esempli ed autorità e sentenzie di savi uomini, ch'erano simiglianti alla sua materia; e poi, quando venne verso il fine, confermò il suo detto per lo migliore argomento, e per le più forti ragioni che potè, e venne alla sesta parte, cioè conclusione, e disse la sua sentenzia, e puose fine alle sue parole. E poi che Cesare ebbe così detto, l'uno diceva che bene era, e l'altro diceva che no, infino a tanto che Marco Cato si levò e parlò in questa maniera.

Orazione di Marco Cato contro a' congiurati di Catellina, nella quale orazione mostrò che si debbono punire agramente.


« Padri Coscritti, quando io ragguardo la congiurazione e i pericoli, e contrappeso in me medesimo la sentenzia di ciascuno che ha parlato, io giudico altrimenti che Cesare non ha detto, nè alcuno degli altri che hanno parlato. Egli hanno detto solamente della pena de'congiuratori, che hanno ordinato guerra o al loro paese, e a' loro parenti, e a' loro templi, e a distruggere le loro case. Ma e' sarebbe più mestieri che noi prendessimo consiglio, come noi ci possiamo guardare da loro, e dal pericolo che ne può intervenire, che di prendere consiglio come sieno giudicati e morti. Se noi non ci proveggiamo sì che il male non ci avvenga, per niente,andremo al consiglio quando sarà intervenuto.Se la città è presa a forza, i vinti non aranno troppo disonore, o però che tutti saranno morti. Or parlerò io a voi, e che bene intendete ragione, e che mettete i vostri cuori e le vostre opere ad avere case, castella, e gonfaloni,” e tavole d'oro, più che al pro del Comune. Se queste cose tanto amate volete guardare e ritenere e mantenere ne' vostri diletti per sollazzo e riposo, isvegliatevi qui, e pensate di difendere il Comune. Se 'l Comune pericola, come scamperete voi? Questo bisogno non è di gabelle, nè di passaggi, o nè d'acquistare la grazia de' compagni," anzi o di guardare la nostra franchezza, e di difendere le nostre persone, che sono in pericolo. Signori, io ho molte volte parlato, e sommidoluto dinanzi a voi dell'avarizia e della lussuria, e delle conventicole de' nostri cittadini, onde io ho la malivoglienza di molti, perchè io non perdono leggermente o il misfatto altrui; e di questo io non sento alcuna colpa in me. Io voglio innanzi biasimare il fallo, che altri fa, che tacerlo, perchè altri me ne sappi grado. Ma io so bene che queste mie parole non curate, perchè le vostre ricchezze vi fanno dimenticare molto del ben fare, e di ciò non mi farebbe niente, ” fusse o il mio Comune in buono istato. Ma ora non voglio io parlare nè del vostro ben vivere, nè di accrescere o innalzare la sapienza de'Romani; anzi ne conviene porre mente se quella, che noi abbiamo, ci può rimanere, o essere nostra, o se sarà de' nostri nimici. Non ci conviene ora parlare nè di bontà, nè di misericordia, ch'egli è lungo tempo che 'l diritto nome di pietà e di misericordia abbiamo perduto: chè fare altrui bene, questo è di nostra bontà, e non fare male, questo è di nostra virtù;o e però va il nostro Comune al disotto. o Or potrete voi essere di buona voglia e mettere il popolo in avventura, or potrete voi essere piatosi di coloro, che gnuna cosa vi credono lasciare, e che vogliono rubare il tesoro del Comune? Doniamo loro adunque il nostro sangue, sì che tutti i buoni uomini sieno morti e distrutti; in ciò che voi rispiarmate i mali fattori, o distruggete voi una grande moltitudine di buona gente. Cesare ha parlato bene e artificiosamente, come voi avete udito, della vita e della morte, quando elli disse che appresso della morte l'anima non avea nè bene nè male: ma quando elli parla così, elli non crede a quello che dicono dello inferno, che i rei sono disceverati da' buoni, e sono messi in luogo orribile e fetido e spaventoso. Appresso giudicoe che 'l loro avere fusse pubblicato al Comune, e che fussono messi in prigione in certe castella fuori di Roma. Ha elli adunque paura che s'ellino si guardassino in Roma, che quelli della congiurazione, o altra gente, li traessino a forza di prigione? Or non ha adunque ria gente, se non in questa città? in tutte le parti si truovano de'rei uomini. Di niente ha paura Cesare, se crede che l'uomo nolli possi così bene guardare in Roma, come di fuora. E s'elli solo non ha paura che non possano scampare di quelle prigioni, là dove dice che sieno messi: e s'elli solo non ha paura del pericolo del Comune, io sono quello che ho paura di me, e di voi, e degli altri. E voglio che voi sappiate che, come si giudicheranno questi prigioni, che voi avete, o così debbono essere giudicati tutti quelli della compagnia di Catellina. E se voi fate di costoro aspra giustizia, tutti quelli dell'oste di Catellina ne saranno spaventati; e se voi la fate debolemente e mollemente, voi gli vedrete venire fieri e crudelmente contro a voi.

Proemio di Ser Brunetto Latini, dove fa una comparazione di Sallustio, della condizione o di Marco Cato e Julio Cesare, quanto furono differenti.

Marco Cato e Julio Cesare furono eguali in molte cose, siccome di lignaggio; chè l'uno fu di buone genti” come l'altro, e furono eguali quasi d'una etade: e in bella eloquenzia e in fierezza e ardimento di cuore, in tutte queste cose erano presso che pari. Il nome e la grazia dell'uno era altrettanto come quella dell'altro, ma essi vi deveniano o per diversi costumi.” Julio Cesare era di grande pregio per bontade e per doni, siccome quello che largamente spendeva: Marco Cato era pregiato per nettezza e per integrità di vita. Julio Cesare era di buono aire, o pietoso e misericordioso: Marco Cato era aspro e severo in giudicare diritto e mantenere giustizia. Julio Cesare acquistò pregio per perdonare misfatti: Marco Cato per punire sanza perdonare. Julio Cesare era refugio de'miseri: Marco Cato era distruggitore de'rei uomini. Julio Cesare avea grande animo, ed era leggierio e movente o in fare ogni prodezza: Marco Cato era fiero e fermo in diritte opere. Julio Cesare avea in animo sempre d'affaticare e vegghiare ne' bisogni delli amici, e gli suoi bisogni mettere a non calere: non disdicea mai cosa che fusse da donare. Egli desiderava grandi guerre, grandi oste e nuove battaglie, ove la sua virtù e la sua gloria potesse apparire e si potesse mostrare. Marco Cato si dilettava in misura e in onore e in verità e in lealtade mantenere. Non si sarebbe piegato verso il tortoper niuno avere, o nè per amore nè per odio. Non curava d'aschiarsicolli ricchi per ricchezza, nè contro ad ingannatori per inganno, anzi mettea virtù contro a virtù, vergogna con misura, astinenzia con innocenzia: anzi voleva parere buono uomo che reo, o e però quanto meno disiderava loda e pregio, più n'avea.

Orazione di Catellina a' suoi cavalieri, confortandogli a essere forti nella battaglia, e mostra loro come, chi fugge, in ogni luogo truova nimici.

« Signori cavalieri, io ho provato assai che le parole non danno virtù” all'uomo, nè per parole del signore o non si può fare prode uomo del peritoso, o nè forte, nè ardito del codardo: ma tanto d'ardimento, quanto l'uomo ha per buona natura e buono costume, tanto ne dimostra e n'appare in battaglia. Niuna cosa è che facci l'uomo ardito se non disiderio d' onore e temenzia di pericolo. Codardia di cuore nuoce agli orecchi di molti.° Ma tuttavia io parlerò a voi, e dirovvi il mio consiglio. Voi sapete bene, signori cavalieri, Lentulo ci ha conci per la sua dimoranza sì, ch'egli medesimo n'è morto. ***Voi vedete bene in che pericolo noi siamo: qui sono due osti de' nostri nimici, l'uno viene sopra noi di verso Gallia, e l'altro di verso Roma. Se voi volete dimorare lungamente in queste montagne, noi non possiamo, chè non c'è vivanda nè biada. Colle spade e colle lance vi conviene fare la via. Però vi richieggio io e priego che voi siate pro e arditi, e di presto animo. Quando voi enterrete” nella battaglia, ricordivi che tutte le vostre ricchezze e i vostri onori e la vostra franchezzapende tutta nelle vostre mani ritte. E se voi vincerete, voi siete sicuri; in ogni parte assai ripari troverete in ville e in castella: e se voi fuggirete, in ogni parte troverete nimici. Se le vostre arme non vi difendono, nè fortezze nè amici non vi difenderanno; e sopra questo noi e i nostri nimici non dobbiamo essere pari. o In questa battaglia noi abbiamo migliore ragione che non hanno loro,” chè noi combattiamo per difendere la nostra libertà, e per iscampare la nostra vita: ma essi combattono per difendere il potere d'alquanti ricchi uomini, che tutti gli altri vogliono soggiogare. E però assaliteli virtuosamente, o chè alquanti di voi potrebbono bene vivere isbanditi, e alquanti potrebbono bene stare a Roma poveri e nudi del loro bene, e bramare le altrui ricchezze:o ma per ciò che laida cosa vi pareva, mi volesti o voi seguitare per acquistare libertà. Or conviene adunque che voi siate arditi: niuno cambi battaglia a pace, " se prima non vince; chè chi gitta via le armi, colle quali si debbe difendere, male la sua speranza può avere nel suo fuggire; e nelle battaglie sono i pericoli solamente in coloro che sono paurosi. Ardimento è all'uomo rôcca e muro, e io ho grande speranza nella vittoria. Signori cavalieri, quando io mi ricordo di voi e de'vostri gran fatti, il vostro ardimento, la vostra virtù, e la vostra età mi riconforta molto: il bisogno e 'l pericolo là dove voi siete vi dee molto studiare e accrescere la vostra forza: la strettezza del luogo, dove voi siete, difende o che i vostri nimici non vi possono del tutto rinchiudere. A viso a viso conviene che combattano con voi; e se fortuna avesse invidia di vostra virtude, guardate che voi non perdiate l'anima per niente, anzi la vendicate e vendete. Non vi lasciate prendere nè corrompere o come bestie; combattete come uomini, sì che i vostri nimici possano piangere il loro danno, benchè voi fussi vinti.

Orazione di Marco Petreo Legato a' suoi cavalieri, mostrando loro la debolezza degli avversari.

« Signori, ricordivi dell'onore e dello stato di Roma, il quale oggi pende nelle vostre destre braccia; e per Dio ricordatevi con che gente voi avete a combattere, cioè contro a ladroni disarmati, sbanditi, sconfitti e fuggiti di battaglie, servi fuggiti a' loro signori; e la cagione del loro movimento di battaglia è solamente per ruberie e per incendio. Considerate le opere e la vita del loro capitano, e quale è stata sempre la sua condizione e la sua fama. Pensate che tutti li suoi seguaci sono simiglianti di lui: tutta la loro fidanza è in forza e in rapina, disperati da giustizia e da diritto acquisto. Voi combattete per difendere il vostro paese, i vostri figliuoli, le vostre mogli, le vostre case, i vostri alberghi, e per difensione della libertà di tutta Italia; e per cotale cagione è mossa questa contesa. Io mi ricordo che sono stato bene trenta anni e tribuno e proposto e Legato di Roma, ed ho avute di grandi vittorie con molti di quelli che io veggio qui.

Orazione di Fabio Massimo a Lucio Emilio consolo de' Romani.

«Se tu avessi, Lucio Emilio, (la quale cosa io vorrei piuttosto), compagno simigliante a te nel tuo ufficio, ovvero che tu ad esso fussi simigliante, invano sarebbe l'orazione mia. Però che, se la prima parte fusse, voi saresti due buoni consoli, i quali sanza mestiere di consiglio altrui ordineresti i fatti della repubblica colla vostra somma fede: e se fusse la seconda voi non porgeresti gli orecchi alle mie parole, nè li vostri animi a' miei consigli. Ora, dappoi che io veggio che hai tal compagno, la mia orazione dirizzo in verso di te, il quale io conosco che invano sarai buono uomo e buono cittadino. Se dall'una parte zoppicherà la nostra repubblica, i mali consigli daranno uno medesimo fine a' buoni e a' rei. Lucio Paulo, tu se' in errore, se tu pensi d'avere a avere manco guerra con Terenzio Varrone, che con Annibale. Certo, io non ti so bene dire qual ti sarà più contrario, o questo avversario, o quello inimico: per ciò che col tuo nimico tu non arai a combattere se non solamente nella battaglia, ma con costui ti converrà combattere in ogni luogo e per ogni tempo. Contro Annibale e le sue legioni tu potrai combattere co' tuoi cavalieri e co' tuoi pedoni, ma Varrone tuo compagno combatterà teco co' tuoi medesimi cavalieri e co' tuoi pedoni. Tu vedi che questo tuo compagno, innanzi ch'egli addomandasse il consolato, e nello addomandarlo, cominciò ad essere furioso, e ora essendo consolo, egli è divenuto pazzo. Che credi tu che farà nel mezzo degli armati giovani colui, il quale al presente tra' togati muove tanti contasti? Che ti pensi tu che debba fare, quando di presente le parole seguiteranno i fatti? Certamente, Lucio Emilio, se esso combatte subitamente con Annibale, come egli dice, o io non so alcuna cosa d'arte militare, e non conosco la materia di questa guerra, nè questo nostro nimico, o un altro luogo sarà molto più famoso che non fu quello da Trasimeno con nostri danni. E non è ora tempo da gloriarsi, acciò che per me non si passi il modo molto maggiormente in dispregiare altrui, che in volere dire di me vana gloria. Nondimeno il fatto è pur così. Lucio Emilio, uno solo modo è da far guerra ad Annibale, e questo è quello, che per me s'è osservato. E che così sia, non pure al presente lo dimostra il fine, che n'è seguito: l'avvenimento è maestro degli stolti. Solamente una ragione è stata e sarà di fare questa guerra, mentre che le cose staranno in questa forma. Noi abbiamo a fare con Annibale questa guerra in Italia, nelle nostre terre, e ne' nostri luoghi intorno a noi. Noi siamo abbondanti di cittadini e di compagni, da' quali noi siamo e saremo continovamente aiutati d'arme, di uomini, di cavagli ne' bisogni nostri; e testimonio di questa fidanza è, che questo medesimo pel passato egli hanno fatto nelle nostre avversità. Noi continovamente siamo migliori, più savi, più forti: ma Annibale per lo contrario è in terra straniera e nimica, lontano dalla sua casa e dalla sua patria, nè ha pace per terra nè per mare: niuna città lo ritiene, nessune mura lo vogliono ricevere: egli non vede in Italia alcuna cosa sua: egli vive di rapina di giorno in giorno. Appena gli è rimaso la terza parte dell'esercito, che passò con lui il fiume Ibero: molti più de' suoi sono morti di fame, che di guerra, e questi pochi appena hanno che mangiare. Or dubiti tu che, sedendo noi, noi non vinciamo colui, il quale continovamente viene mancando, e che non ha vittovaglia, nè gente, nè moneta? Or non sai tu quanto tempo egli ha combattuto le mura di Gerione povero castello in Puglia, come s'egli avesse avuto a difendere le mura di Cartagine? Io non mi voglio gloriare teco di me medesimo: tu vedi come Publio Servilio e Attilio, consoli dell'anno passato, l'abbino gabbato. Lucio Paulo, questa è solo la via della nostra salute, la quale sono certo io che parrà più contraria e più malagevole a' nostri cittadini, che al nostro nimico; imperò che i tuoi vorranno quello medesimo, che vorranno li tuoi nimici: quello medesimo vorrà Varrone consolo Romano, che vorrà Annibale duca africano. A questi due così fatti duci converrà a te contastare. E certamente tu potrai bene a loro resistere, se tu vorrai stare fermo e costante contro alla fama e romore degli uomini, e se la vana gloria del tuo compagno e la tua falsa infamia non ti muoveranno dalla virtù. La vera gloria non si spegne mai; ma quello arà la vera gloria, che spregia la falsa. Lasciati appellare uomo timido dove tu sarai forte, tardo dove tu sarai considerato e avveduto, uomo da non guerreggiare dove tu sarai sperto e provveduto di guerra. Io voglio innanzi, o Lucio Emilio, che 'l savio inimico ti tema, che io non voglio che gli stolti cittadini ti lodino. Abbi in dispregio colui, che ardirebbe ogni cosa. Allora Annibale arà di te paura, quando non ti vedrà fare alcuna cosa mattamente. Nè però voglio che tu pensi che io t'ammonisca e conforti a non fare alcuna cosa; ma voglio che a quello, che tu fai, tu sia menato da ragione, e non da fortuna. In tua podestà sempre sia ogni cosa tua: fa o che tu sia sempre armato, e attento, acciò che tu non manchi all'attitudine del tempo; e non dare l'attitudine del tempo al nimico. A chi non s'affretta tutte le cose succedono chiare e certe: la fretta è isprovveduta e cieca.