Opere minori 1 (Ariosto)/Poesie attribuite/Elegia I

Elegia I

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Rinaldo ardito - Canto V Elegia II - Elegia II
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ELEGIE.




I.1


     Quel fervente desío, quel vero ardore
Che diè principio e mezzo a’ desir miei,
3Darà ancor fine a’ miei stenti e sudore.
     Nè curo i sospir più, nè tanti omei,
Nè le minacce, teme, ire e paura,
6L’abisso, il mondo, il ciel, uomini e dei;
     Che una fondata rôcca, alta e sicura,
Mi guarda il regno mio, detta costanza,
9Che ferro e fôco e martellar non cura.
     I fondamenti ove si posa e stanza,
Son di stabilità viva fermezza;
12La calce e pietre son perseveranza;
     L’inespugnabil mur viva fortezza,
Le sue difese, scudi e bastïoni,
15Son fè ch’ogni timor fugge e disprezza.
     Regge speranza il mastro torrïone
Sotto due guardie; una, fedel, chiamata
18Prudenza; e l’altra, svegliata, ragione.
     Castellano è un amor fermo e provato,
Che scorge il tutto; i sergenti son poi
21Solleciti pensier, ciascun fidato.
     L’artigliería, i sassi e i dardi suoi
È audacia, i parlar pronti e acuti sguardi
24Come dicesse: — Accóstati, se puoi. —

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     Son cocenti desir quel fuoco che ardi:
La polvere rimbomba in tuon di lutto,
27E di sospir pungenti più che dardi.
     Provido antiveder, sagace, instrutto,
Son poi la munizion che d’ora in ora
30Veglia, e non lascia ai nemici trar frutto.
     Gl’inimici, lo assedio ch’è di fuora,
Son gelosía, timore, odio, disdegno,
33Disprezzo, crudeltà, lunga dimora.
     Ma tutte le lor forze e lor disegno
È in tagliar d’acqua e in batter d’adamante,
36Che troppo è il castellan provvido e degno.
     Dunque, con quel pensier fermo e costante
Che incominciai la mia amorosa guerra,
39Con quel seguiterò la impresa innante;
     Chè una rôcca di fè mai non si atterra.




Note

  1. Questo e i due componimenti che seguono furono ristampati dal Barotti a maniera di appendice, traendoli dall’edizione delle opere ariostesche fatta da Stefano Orlandini. Derivano i due primi da un antico libercolo, intitolato Forza d’Amore, ed impresso nel 1537 ad istanza di un Ippolito Ferrarese, a cui l’erudito che sopra dicemmo non si astiene dal dare i titoli di buffone e di impostore; confessando altresì di aver più volte avuto in pensiero di cancellarli tutti e tre dalla sua raccolta. Il Molini che li aveva riprodotti nella sua edizione del 1822, li omise in quella, da noi più spesso consultata, del 1824.