Opere minori (Ariosto)/Elegie e Capitoli/Elegia XIV
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ELEGIA DECIMAQUARTA.
Gentil città,1 che, con felici auguri,
Dal monte altier2 che forse per disdegno
3Ti mira sì, qua giù ponesti i muri;
Come del meglio di Toscana hai regno,
Così del tutto avessi! chè ’l tuo merto
6Fôra di questo e di più imperio degno.
Qual stile è si facondo e sì diserto,
Che delle laudi tue corresse tutto
9Un così lungo campo e così aperto?
Del tuo Mugnon potrei, quando è più asciutto,
Meglio i sassi contar, che dire a pieno
12Quel che ad amarti e riverir m’ha indutto:
Più tosto che narrar quanto sia ameno,
E fecondo il tuo pian, che si distende
15Tra verdi poggi infin al mar Tirreno:
O come lieto Arno lo riga e fende,
E quinci e quindi quanti freschi e molli
18Rivi tra via sotto sua scôrta prende.
A veder pien di tante ville i colli,
Par che ’l terren ve le germogli, come
21Vermene germogliar suole e rampolli.
Se dentro un mur, sotto un medesmo nome,
Fosser raccolti i tuoi palazzi sparsi,
24Non ti sarían da pareggiar due Rome.3
Una so ben, che mal ti può uguagliarsi,
E mal forse anco avría potuto prima,
27Che gli edifici suoi le fossero arsi
Da quel furor ch’uscì dal freddo clima
Or di Vandali, or d’Eruli, or di Goti,
30All’italica ruggine aspra lima.4
Dove son, se non qui, tanti devoti,
Dentro e di fuor, d’arte e d’ampiezza egregi
33Tempî, e di ricche oblazïon non vôti?
Chi potrà a pien lodar li tetti regî
De’ tuoi primati, i portici e le corti
36De’ magistrati, e pubblici collegi?
Non ha il verno poter ch’in te mai porti
Di sua immondizia: sì ben questi monti
39T’han lastricata sino agli angiporti.
Piazze, mercati, vie marmoree e ponti,
Tali belle opre di pittori industri,
42Vive sculture, intagli, getti, impronti;
Il popol grande, e di tant’anni e lustri
Le antiche e chiare stirpi; le ricchezze,
45L’arti, gli studî e li costumi illustri;
Le leggiadre maniere e le bellezze
Di donne e di donzelle, a cortesi atti,
48Senza alcun danno d’onestade, avvezze;
E tanti altri ornamenti che ritratti
Porto nel côr, meglio è tacer, che al suono
51Di tant’umile avena se ne tratti.
Ma che larghe ti sian d’ogni suo dono
Fortuna a gara con natura, ahi lasso!
54A me che val se in te misero sono?
Se sempre ho il viso mesto e il ciglio basso,
Se di lagrime ho gli occhi umidi spesso,
57Se mai senza sospir non muto il passo?
Da penitenza e da dolore oppresso,
Di vedermi lontan dalla mia luce,
60Tróvomi sì, ch’odio talor me stesso.
L’ira, il furor, la rabbia mi conduce
A bestemmiar chi fu cagion ch’io venni,
63E chi a venir mi fu compagno e duce:
E me che senza me, di me sostenni
Lasciar, oimè! la miglior parte, il côre;
66E più all’altrui che al mio desir m’attenni.
Che di ricchezza, di beltà, d’onore
Sopra ogni altra città d’Etruria sali,
69Che fa questo, Fiorenza, al mio dolore?
I tuoi Medici, ancor che siano tali,
Che t’abbian salda ogni tua antica piaga,5
72Non han però rimedio alli miei mali.
Oltre quei monti, a ripa l’onda6 vaga
Del re de’ fiumi, in bianca e pura stola,
75Cantando ferma il sol la bella maga,
Che con sua vista può sanarmi sola.
Note
- ↑ Il Baruffaldi crede composta questa poesia nell’occasione che il poeta venne spedito dal suo duca a Lorenzo di Giuliano de’ Medici, per condolersi della perdita che questi avea fatta di Maddalena d’Auvergne, sua consorte. Giunto Lodovico a Firenze, trovò che ancora Lorenzo era morto. Vedasi la Lettera IV, tra le raccolte da noi nel Volume secondo.
- ↑ Il monte di Fiesole, già distrutta, secondo la tradizione, o abbandonata da quelli che poi si dissero Fiorentini.
- ↑ Benchè di concetto non poco iperbolico, e dal poeta modificato in appresso, questi due bei terzetti furono già ripetuti da tutti, e sono ancora a’ dì nostri.
- ↑ Verso pieno d’istorica verità.
- ↑ Il poeta, nato e cresciuto in paese retto a monarchia, non è qui da riguardarsi come un mêro adulatore de’ Medici.
- ↑ Per: in ripa all’onda. Costrutto non ovvio alcerto, quando ancora non fosse nuovo.