O noi d'Arcadia fortunata gente
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Che dopo l’ondeggiar di dubbia sorte
Sovra i colli romani abbiam soggiorno!
Noi qui miriamo intorno
5Da questa illustre solitaria parte
L’alte famose membra
Della città di Marte.
Mirate là tra le memorie sparte
Che glorioso ardire
10Serbano ancora infra l’orror degli anni
Delle gran moli i danni,
E caldo ancor dentro le sue ruine
Fuma il vigor delle virtù latine!
Indomita e superba ancora è Roma,
15Benchè si veggia col gran busto a terra.
La barbarica guerra
De’ fatali Trioni,
E l’altra che le diede il tempo irato,
Par che si prenda a scherno:
20Son piene di splendor le sue sventure,
E il gran cenere suo si mostra eterno:
E noi rivolti all’onorate sponde
Del Tebro, invitto fiume,
Or miriamo passar le tumid’onde
25Col primo orgoglio ancor d’esser reine
Sovra tutte l’altere onde marine.
Là siedon l’orme dell’augusto ponte,
Ove stridean le rote
Delle spoglie dell’Asia onuste e gravi;
30E là pender soleano insegne e rostri
Di bellicose trionfate navi:
Quegli è il Tarpeo superbo,
Che tanti in seno accolse
Cinti di fama cavalieri egregi,
35Per cui tanto sovente,
Incatenati, i regi
De’ Parti e dell’Egitto
Udiro il tuono del Romano editto.
Mirate là la formidabil ombra
40Dell’eccelsa di Tito immensa mole,
Quant’area ancor di sue ruine ingombra!
Quando apparir le sue mirabil mura
Quasi l’età feroci
Si sgomentano di recarle offesa,
45E guidano dai barbari remoti
L’ira e il ferro de’ Goti
Alla fatale impresa.
Ed or vedete i gloriosi avanzi,
Come, sdegnosi dell’ingiurie antiche,
50Stan minacciando le stagion nemiche.
Quel che v’addito è di Quirino il colle,
Ove sedean pensosi i duci alteri;
E dentro ai lor pensieri
Fabricavano i freni
55Ed i servili affanni
Ai duri Daci, ai tumidi Britanni . . .
Ampj vestigj di colossi augusti,
Di cerchi, di teatri, e curie immense,
E le terme che il tempo ancor non spense,
60Fan dell’alme romane illustre fede.
Parea del Lazio la vetusta gente
In mezzo allo splendor de’ Genj suoi
Un popolo d’eroi:
Ma, reggie d’Asia, vendicaste al fine
65Troppo gli affanni che da Roma aveste:
Con le vostre delizie, oh, quanto feste
Barbaro oltraggio al buon valor Latino!
Forse pur, stata Menfi al Tebro ignota.
Come i principi son del Nilo ascosi,
70Che non avresti, Egizia Donna, i tuoi
Studi superbi e molli
Mandati ai Sette Colli,
Nè fama avrebbe il tuo fatal convito:
Romolo ancor conoscería sua prole,
75Nè l’Aquile Romane avrian smarrito
Il gran cammin del sole.
Ma pur non han le neghittose cure,
Tanto al Tarpeo nemiche,
Spento l’inclito seme
80Delle grand’alme antiche.
Sorgere in ogni etade
Fuor da queste ruine
Qualche spirto real sempre si scorse,
Che la fama del Tebro alto soccorse.
85O come il prisco onore erse, e mantenne
Co’ suoi tanti trofei
L’eccelsa stirpe de’ Farnesi invitti,
Sempre d’ardire armata,
E di battaglie amica!
90E quando resse il freno
Alla Città sublime
Per man de’ sacri figli,
Oltre l’Alpi fugò l’ire e i perigli,
E trasse Italia dalle ingiurie ed onte
95Di fero Marte atroce,
E le ripose il bel sereno in fronte:
Di meraviglia piene allor fu l’ombre
De’ Latini Monarchi
In sul tanto apparir teatri ed archi,
100E templi e reggie ed opre eccelse e grandi,
Onde sostenne il regal sangue altero
La maestà di Roma e dell’Impero.
Quasi Signor di tutte l’altre moli
Alta regge la fronte il gran Farnese,
105Chiaro per arte e per illustri marmi,
E forse ancor per lo splendor de’ carmi
Che meco porto e meco fa soggiorno.
Or movo il guardo al Palatino intorno,
Del nostro Arcade Evandro almo ricetto,
110Ed o quanto nel cor lieto sospiro!
A te verremo, o gloriosa terra,
Con le ghirlande d’onorati versi,
E di letizia e riverenza gravi
Ornerem le famose ombre degli Avi.