Novellette e racconti/LXXV. Gli Scrittori plagiarj
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LXXV.
Gli Scrittori plagiarj.
Homo homini lupus.
Lupo è l’uomo all’altr’uomo.
Quando uno può tôrre ad un altro, senza che questi se n’avvegga, pare che il mondo non si faccia molta coscienza di ciò. Io non voglio al presente già entrare in disputazioni di danari e di roba, chè sarebbe materia troppo grave; e io ne sarei stimato un maldicente e una rea lingua fuori di proposito. Ma dico solamente che noi, parte per natura, e parte per lasciar fare a natura più di quello che non avrebbe a fare, siamo inchinati a valerci di quello che non è nostro. Per al presente io non voglio altro esempio, fuorchè quello degli scrittori, i quali si può dire che si cavino la pelle l’un l’altro, e non cessino mai di rubacchiare questo da quello; e ognuno fa sfoggio dell’altrui, come di trovati suoi proprj. Noi potremmo dire che gli Antichi sono come certi poderi in comune, i quali, passando di secolo in secolo, hanno dato pastura ad uomini, a cavalli, a buoi ed altri animali; e ognuno ha accresciuto il proprio corpo con la sostanza di quelli. Ho veduti infiniti libri che erano quasi tutti uno; e chi n’avesse tratto fuori i pensieri qua d’Omero, colà di Virgilio, costà di Cicerone, colà di Plutarco, e vattene là, sarebbero rimasi carta bianca. Ho udito anche diverse prediche proferite con galante garbo e con un’azione che parea incantesimo, nelle quali l’oratore non avea altro di suo, fuorchè la voce, perch’io le avea già lette altre volte; e talora m’avvenne anche per caso le lessi dopo in altro linguaggio, donde l’avea tolte il dicitore che m’avea fatto maravigliare. Per un secolo intero il Petrarca fu fatto a brani da quanti in Italia scrissero sonetti; e non basta in Italia, chè in Francia vi fu chi scrisse alla petrarchesca in francese, e si fece onore oltremonti con le carni e con l’ossa dell’Amante di Laura. In breve, l’opere di quasi tutti gli autori sono come un mantello pezzato; e i colori vengono presi qua e colà; acciocchè poi non se ne dica male, abbiamo trovato fuori il mirabile nome d’erudizione che copre i rubacchiamenti. Onde come la furia d’Alessandro il Grande, che toglieva i paesi altrui, si chiamava valenteria, ed egli n’era perciò detto valoroso; così chi toglie l’altrui nelle scritture, e abbottina gli scrittori, è detto erudito, essendo stata sempre nostra usanza il vestire le nostre maccatelle con l’onestà de’ nomi, e bastandoci in cambio della sostanza la copritura. Ma di quanto venne tolto agli scrittori non mi ricorda d’aver udito nè letto cosa che somigli a quella che darà materia alla Novella che segue.
Non sono ancora molti anni passati, che in una città d’Italia, d’ogni cosa, che all’umano vivere appartenga, abbondante, ma sopra tutto amica delle scienze, e di studj e d’arti fornita, furono due uomini di lettere, i quali per la nobiltà delle cognizioni, e per l’eleganza e purità dello stile, erano stimati due de’ migliori e de’ più scienziati che vivessero in quella. Non aveano però tuttaddue consacrato l’ingegno alla medesima qualità di dottrina, imperciocchè l’uno sopra ogni altra cosa amava affettuosamente i solitarj boschetti delle sante Muse; e l’altro, degli antichi fatti studioso e delle passate faccende, avea posto tutto il suo cuore nelle storie. Ma essendo costume in quella città, che ogni uomo di lettere debba ad uno stabilito tempo scrivere e proferire quale un anno, e quale un altro non so quali lezioni sopra la notomia, avvenne che a questo uffizio furono tratti i nomi del poeta e dello storico i quali sdegnando forse di scusarsi, e stimando che i grand’ingegni possano ogni cosa con la diligenza e con la fatica, accettarono l’invito, e di là a pochi giorni furono insieme a consiglio. Veduto dunque che lungo tempo dovea passare prima che l’uno e l’altro avessero a fare i loro pubblici ragionamenti, perchè al poeta, che dovea essere il primo, mancavano da forse otto mesi, e allo storico molti più, deliberarono d’uscire insieme della città, e d’andarsene ad una casettina, che l’uno di loro avea alla campagna; e quivi, lasciata ogni altra occupazione, di tuffarsi, anzi sommergersi interamente in uno studio di cui non aveano fino a quel punto conoscenza veruna. Per la qual cosa l’uno e l’altro, fatto provvedimento di libri a ciò appartenenti, e detto addio a’ congiunti e agli amici, andarono insieme alla loro villetta, e quivi scordatisi ogni altra cosa di fuori, si diedero l’uno in una stanza e l’altro in un’altra a leggere e a meditare con ogni loro forza e potere. Ma poco andò che il poeta, accostumato a certi eccessi di mente, non potendo comportare di legar l’ingegno a considerare ossa, muscoli, nervi e altre parti del corpo umano, di tempo in tempo, dimenticatosi quello per cui quivi era andato, e trasportato a forza dalle vagazioni dell’immaginativa che lo rubava alla notomia, incominciò così da sè a sè a scrivere ora una canzone, ora un sonetto, tanto che non gli dava l’animo d’arrestarsi un terzo d’ora in un dì nello studio da lui cominciato; ed era vicino a disperarsi, vedendo a scorrere il tempo. Della qual cosa tuttavia nulla dicendo al compagno, anzi facendo le viste di starsi sempre più rinchìuso e pensoso, gli facea credere d’esser con l’opera sua molto bene avanti. All’incontro lo storico, lasciato ogni altro pensiero, e datosi del tutto all’opera che far dovea, avea cominciato a dettare le sue lezioni; onde, per ristorarsi talvolta dell’avuta fatica, preso un suo archibuso in ispalla, andava per ispasso a sparare agli uccellini, o con un bastoncello in mano a passeggiare qualche miglio. Così facendo egli ogni giorno, il poeta avvisò che la lontananza di lui gli potesse giovare, ed entrato, mentre ch’egli non v’era, nella stanza di quello, cominciò a copiare quanto egli scritto avea; e così di giorno in giorno facendo, con grandissima segretezza e silenzio, ebbe nelle mani tutta la materia e la disposizione di quella fatta da lui; di che in breve tempo compose le sue lezioni. Intanto venne il tempo che le s’aveano a proferire. Il poeta, che il primo, come detto è, dovea essere a favellare, si trovò nell’assegnato luogo allo stabilito dì, ove gli faceano corona intorno tutti gli uomini scienziati della città, e fra gli altri lo storico. Quivi salito sulla cattedra sua, incominciò tutto arioso a ragionare, e n’avea lode generale da’ circostanti. Il povero storico solo era vicino ad impazzare, udendo che, dalle parole in fuori, quella diceria era sostanza del suo cervello, e non sapea intendere in qual forma avesse il caso portato che due ingegni avessero in quel modo colpito ad un medesimo segno. Con tutto ciò, diceva fra sè, io vedrò nell’altre lezioni se il diavol sarà cotanto mio nemico, che gli abbia posta nell’intelletto tutta la materia mia; e s’io sarò cotanto sventurato, che, dopo cotanti pensieri e così lunga fatica, io rimanga vôto, e non sappia più di che favellare. Nel vegnente giorno, ritornato di nuovo alla lezione del poeta, parea una statua ad udire così puntualmente tutte le cose sue proprie, dette come se fossero uscite di bocca a lui medesimo; e così fu il terzo giorno e il quarto e il diciottesimo, che fu l’ultimo; nel quale egli era così dimagrato e smarrito, che il fatto suo era una compassione. Anzi considerando fra sè che quello ch’era stato maliziosa opera, fosse accidente, nè potendo darsi pace che la nemica fortuna avesse posto in mente ad altrui appunto quello ch’egli avea pensato; intrinsecatosi al tutto in tanta sua calamità, e stimandosi il più sventurato uomo del mondo, incominciò a farneticare e a dar nel pazzo, per modo che non gli abbisognò parlare altro pubblicamente, e dopo molti anni fu della sua pazzia difficilmente guarito.