Novelle (Sercambi)/Novella CLVI
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⟨CLVI⟩
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . camino alla città isfatta di Luni. L’altore, rivoltosi alla brigata, disse: «A voi, donne maritate a gran signori e maestri, le quali per adempiere il vostro desiderio molto male ne segue, et a voi, omini pogo savi che consentite a fare contra la volontà di Dio e de’ buoni costumi, e’ m’induce ad exemplo una novella la quale in questo modo dirò:
DE PAUCO SENTIMENTO DOMINI
Della città di Luni: fue distrutta per una femina.
C>arissimo proposto, e voi, cari e venerabili religiosi et altri omini, e voi, onestissime donne le quali qui siete, e simile a quelle che non ci sono, io credo che a ciascun di voi dé esser manifesto che la città dove noi doviamo posare colla sera novella fu già di grande fama nomata e di buono porto situata e di tutte le cose che alla vita umana richiede fornita. E per li tristi modi tenuti per alcuni di quella città fu disfatta e fine a’ fondamenti le mura e le case guaste, e li omini e le donne a morte et in servitù menati con tutto loro tesoro. E perché sono certo che molti di voi, o forsi la magior parte, non debia sapere che guasta e disfatta fu, et acciò che ciascuno possa comprendere il perché, in questa nostra novella sotto brevità conterò la cagione che indusse chi quella guastò.
E però dico che, essendo re di Vismarch Alier e Astech fratelli, fu di necessità per alcune cagioni che il preditto Astech re con una sua donna nomata Tamaris reina si movessero con alquanta compagnia e saglisseno in mare, avendo alquante galee. E doppo molte giornate pervenne il ditto Astech re con tutta la sua brigata al porto di Luni, dove piacque loro per lo bello sito prendere alquanti dì sollazzo e diporto alla città di Luni. E riduttisi in uno albergo, del mese di giugno — del quale albergo n’era maestro e signore uno ricco uomo nomato Martino Bonvete — , e fattosi il preditto re assegnare una camera per sé e per Tamaris reina sua moglie, innella quale più volte si dienno insieme piacere — e l’altra brigata simile innel medesmo albergo allogiàrsi, salvo quelli che le galee guardavano — ; et avendo dimorato più giorni in tale maniera, non stante che Tamaris reina fusse di stranio paese e non così bene intendesse la lingua taliana, nientedimeno, avendo sentito < . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . > fra sé medesma esserli tal nome imposto solo perché dovea aver grande quello membro che molto le donne amano. E dispuosesi la ditta reina di doverne esser certa.
E come più presto potéo si fe’ chiamare l’oste: e domandato perché si facea chiamare Martino Buonvete, l’oste, ch’era assai giovano e senza donna, vedendo Tamaris reina bellissima, senza molto stare le disse: «Perché io ho sì bella massarizia che un altro in queste contrade non se ne troverebe». La reina disse: «Per certo io me lo stimai, ma se ciò io non vedesse non serei contenta». Martino, che l’avea già fatto fratello del mulo, senza più stare, delle brachi sei cavò et in mano a Tamaris reina lo misse. La reina, che già era riscaldata solo del parlare, più fieramente si riscaldò quando lo vidde et in mano l’ebbe; e se non che, certe damigelle sopragiungendo a lei, di che ella non potendo altro, lassò. Né più per allora potéo avanti seguire, ma con gran dolore si rimase, avendo l’animo sempre alla massarizia di Martino; e di malanconia quasi né mangiava né bevea dando la cagione all’acqua del mare di aver<la> travagliata.
Astech re, che grandissimo amore li portava, la confortava quanto elli potea, ma niente valea, ché altra malatia la tenea ocupata. E quando <a> Tamaris reina parea tempo di potere quello membro tener in mano, non potendolo ripuonere o almeno vederlo, chiamando Martino si confortava, e dall’altro lato li crescea il dolore che a suo modo non lo potea adoperare.
E vedendo Astech re che la sua donna non prendea alcuno conforto, pensò di quinde volersi partire et in galea montare, dove pensava che ella si concerè’, dicendoli: «Donna, per certo questa aire ti dé aver fatto alquanto noia, e pertanto io vo’ dare ordine che noi di qui ci partiamo». La donna, che non avea quello volea, disse: «Deh, marito mio, io ti prego che di qui per oggi non ci dobiamo partire, che se caso di me alcuno venisse, almeno i pesci non abiano queste mie dilicate carni, ma in uno monimento nuovo morendo vo’ mi sopellischi, come vegio che in questa terra molti gran signori sì sono soppelliti». Lo re disse: «Donna, io sono contento di restare, ma io non penso che la malatia tanto t’abondi che morir debbi; di che se pur esser dovesse (che non vorrei), mi piace il tuo consiglio».
E così stando, la reina fe’ chiamare Martino, dicendo: «Io veggo che ’l disiderio mio e tuo non si potrè’ mai adempiere stando in questo modo; e però, poi che insieme non possiamo far nostra volontà, ti prego che procacci che io abbia quel beverone che paia che io morta sia, et io sosterrò ogni pena solo per qui rimanere. E fà che uno monimento nuovo sia fatto per modo che alquanto isfiatar possa. E partitosi il mio marito et andato alla sua via, me del monimento la notte strettamente trarrai, e di me potrai aver diletto et io di te». Martino, che ciò ode, fu il più contento omo del mondo, e disse: «Tamaris reina, i’ ti prometto che tutto ciò che vuoi che io faccia farò prestamente, et il monimento mio, nel quale persona ancora non è messo e ’l quale è bello sopra li altri, meterò in punto, e come te n’arò cavata vo’ che mia moglie dimori». La reina disse: «Cotesto m’è sommo piacere, pur che tosto sia, che lo ’ndugio mi tormenta».
Martino, subito auto certo beveragio et alla donna reina portatolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
<Ex.º clvi.>