Novelle (Bandello, 1910)/Parte III/Novella XLII
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IL BANDELLO
al magnifico signor
annibale attellano
salute
Secondo che al signor Lucio Scipione vostro fratello scrissi non è molto, che i bei motti e gli arguti parlari a tempo detti sono di grandissimo ornamento, cosí anco si può dire che un bell’atto usato a luogo e tempo, ben che paia ingiurioso, sará nondimeno, per qualche sua circonstanza che averá, lodato. Il che mi pare che questi di assai bellamente dimostrasse in una novelletta il nostro gentile e vertuoso signor Giacomo Maria Stampa, il quale la narrò in casa de la signora Barbara Gonzaga contessa di Gaiazzo, essendo quivi a desinare alcuni gentiluomini e gentildonne. E perché a tutti generalmente piacque, io la scrissi, e a voi la mando e dono. Ben vi avvertisco che non la mostriate se non agli amici nostri; perciò che se l’arcifanfalo la vedesse, mi metteria in mala grazia di chi voi cosí bene sapete com’io, e farebbe tanto romore ch’io sarei un’altra volta sforzato mettergli a le spalle madama illustrissima e Mario Equicola, che devete ricordarvi come l’anno passato, essendo in Mantova, lo trattarono. Ed io non vorrei che il pazzarone di dolore se ne morisse, anzi desidero che viva per maggior sua pena, non si potendo ad un maligno invidioso dar maggior castigo che lasciarlo vivere, a ciò veggia l’altrui bene andare ogni di prosperando; il che assai peggio lo tormenta che la morte stessa. State sano. 380 PARTE TERZA NOVELLA XLII Un atto ancor che incivile può esser commendato secondo il tempo e il luogo e il proposito a che si fa. Chi fosse l’Imperia cortegiana di Roma e quanto ai suoi giorni sia stata bella e senza fine da grandissimi uomini e ricchi amata, credo che la maggior parte di noi o per udita o per vista abbia conosciuto, ché molti qui sono che in Roma a quei tempi erano. Ma tra gli altri, che quella sommamente amarono, fu il signor Angelo dal Bufalo, uomo de la persona valente, umano, gentile e ricchissimo. Egli molti anni in suo poter la tenne e fu da lei ferventissimamente amato, come la fine di lei dimostrò. E perciò che egli è molto liberale e cortese, tenne quella in una casa onoratissimamente apparata, con molti servidori uomini e donne, che ai servigi di quella continovamente attendevano. Era la casa apparata e in modo del tutto provista che qualunque straniero in quella entrava, veduto l’apparato e ordine de’ servidori, credeva ch’ivi una prencipessa abitasse. Era tra l’altre cose una sala e una camera e un camerino si pomposamente adornate, che altro non v’era che velluti e broccati e per terra finissimi tapeti. Nel camerino ov’ella si riduceva, quando era da qualche gran personaggio visitata, erano i paramenti, che le mura coprivano, tutti di drappi d’oro riccio sovra riccio, con molti belli e vaghi lavori. Eravi poi una cornice tutta messa a oro ed azzurro oltremarino, maestrevolmente fatta, sovra la quale erano bellissimi vasi di varie e preziose materie formati, con pietre alabastrine, di porfido, di serpentino e di mille altre spezie. Vedevansi poi a torno molti coffani e forzieri riccamente intagliati e tali, che tutti erano di grandissimo prezzo. Si vedeva poi nel mezzo un tavolino, il più bello del mondo, coperto di velluto verde. Quivi sempre era o liuto o cetra con libri di musica e altri instrumenti musici. V’erano poi parecchi libretti volgari e latini riccamente adornati. Ella non mezzanamente si dilettava de le rime volgari, essendole stato in ciò essortatore e come maestro il nostro piacevolissimo messer Domenico NOVELLA XI.Il 38l Campana detto Strascino, e tanto già di profitto fatto ci aveva che ella non insoavemente componeva qualche sonetto o madrigale. Ma che vo io puntalmente il tutto raccordando, essendo sicuro che sempre qualche cosa ci resteria a. dire cosi de l’ornamento de la casa, come de la gentilezza di lei? In questo dunque ornatissimo camerino condusse un giorno il signor Angelo l’ambasciatore del re di Spagna, che, tratto da la fama de l’Imperia, era venuto a vederla. Ella gli venne incontro fuor di sala e di quella il condusse in camera e nel camerino. Egli, veduto la donna che era bellissima, di lei e de la pompa e de l'apparato forte si meravigliò. Stette seco l’ambasciatore buona pezza ed, avendo voglia di sputare, si rivoltò ad un suo servidore e gli sputò nel viso, dicendo: — Non ti dispiaccia, perciò che qui non ò più brutta cosa del tuo viso. — Fu questo atto, ancor che incivile, a l'Imperia gratissimo, parendole che la sua bellezza e l'ornato de la stanza meglio non si poteva lodare. Onde ringraziò l’ambasciatore di questa sua lode che le dava, dicendoli perciò che deveva sputare sul tapeto, che a tal fine era disteso in terra. Vera cosa è che alcuni dicono quest’atto esser stato altrove di molti anni innanzi fatto; ma e l’uno e l’altro è vero, e udite come. Quando il re Pietro di Ragona prese l’isola di Sicilia, egli mandò in Affrica al re di Tunisi un ambasciatore che si chiamava Cheraldo di Valenza, il quale, essendo un di menato in una cameretta del re, ove ogni cosa era velluto ed oro e sotto i piedi erano tapeti di seta finissima lavorati a la moresca, per dar piacere al re, che sommamente si dilettava che le cose sue fossero lodate, sputò ne la faccia d’un affricano schiavo del re. E dimandando il saracino giustizia al re, disse Cheraldo: — Signore, veggendo io la polidezza di questa camera, che è tanta che pienamente lodar non si può, ho pensato che voi abbiate menato costui con questo brutto viso qui a posta, a ciò che in quello si sputi, essendo la più brutta cosa che qui sia. — Piacque senza fine il bel detto al re e la cosa in riso si risolse. Tutti dui, che questo spillamento fecero, furono spagnuoli, e per tanto pigliate qual più vi piace. Basti questo: che un atto incivile, secondo che si fa, merta talora commendazione. 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