Novelle (Bandello, 1853, III)/Parte III/Prefazione
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La pena e il fastidio, lettori miei umanissimi, che io ho sofferto in raccogliere le scritte da me novelle, poi che io partii d’Italia e venni ad abitare su la Garonna ne l’Agenese, molti hanno veduto, i quali sanno che due volte ho mandato a posta in Italia per la ricuperazione di quelle. Nè perciò, con quanta diligenza mi sia sforzato usare, ho saputo tanto studiarmi già mai che intieramente le abbia potute ricuperare. Onde essendo data fuori la prima e seconda parte di quelle, non mi pare per convenienti rispetti tardar più a mandar appo le due la terza. E non avendo potuto servar ordine ne l’altre, meno m’è stato lecito servarlo in queste. Il che certamente nulla importa, non essendo le mie novelle soggetto d’istoria continovata, ma una mistura d’accidenti diversi, diversamente e in diversi luoghi e tempi a diverse persone avvenuti e senza ordine veruno recitati. Ora ci saranno forse di quelli che vorrebbero ch’io fosse, non so se mi dica, eloquente, o vie più di quello che io mi sia in aver scritte queste novelle; e diranno ch’io non ho imitato i buoni scrittori toscani. A questi dirò io, come mi sovviene altrove d’aver scritto, che io non sono toscano, nè bene intendo la proprietà di quella lingua, anzi mi confesso lombardo, anticamente disceso da quelli ostrogoti che, militando sotto Teodorico loro re ed avendo le stanze a Dertona, edificarono la mia patria ne la via Emilia tra i liguri cisapennini, non lungi da la foce de la Schirmia, ove quella le prese acque fontanili de l’Apennino e da torrenti accresciute discarca nel re dei fiumi. Essa colonia chiamarono Castelnuovo, che anco oggidì per la civiltà de le nobili famiglie e numerosità del popolo è famosa. Non sarebbe adunque gran meraviglia se io talora usasse alcuna parola triviale, e poco usitata, che spirasse alquanto del gotico. Se la lingua tosca mi fosse stata natia o apparata l’avessi, molto volentieri usata l’averei, perciò che conosco quella esser molto castigata e bella. Nondimeno, per quello che a me ne paia, il coltissimo ed inimitabile messer Francesco Petrarca, che fu toscano, ne le sue rime volgari non si truova aver usate due o tre voci pure toscane, perchè tutti i suoi poemi sono contesti di parole italiane, communi per lo più a tutte le nazioni de l’Italia. Tuttavia se saranno alcuni che vogliano biasimarmi, mi dorrò di non aver saputo a tutti sodisfare. E chi è che possa prestar questo? Ora se al gran poeta Omero non fu perdonato in dir male di lui, vorrò io che a me che nulla sono, sia perdonato? Se ci fu chi Vergilio nomò uomo senza ingegno e di pochissima dottrina, e disse Livio esser un cicalone e di troppe parole ne l’istoria e sovramodo negligente, ed Asinio Pollione, come afferma Quintiliano, diceva che in esso Livio aveva notato non so che di «patavinità», essendo perciò la facondia liviana miracolosa; e se talora pare a Cicerone che Demostene dorma, ed altresì Orazio giudica d’Omero, vorrò io turbarmi che altri, forse con verità, mi riprenda e corregga? certamente che io a loro averò debito, ove ragionevolmente mi ripiglieranno, perchè, se io non potrò emendar le cose mie, almeno apriranno gli occhi a molti, che da cascar in simiglianti errori si guarderanno. Voi mò, candidi miei lettori che le cose mie leggerete, degnatevi pigliar il tutto con quell’animo che io tutte le mie novelle ho scritto, che fu non ad altro fine certamente se non per dilettare ed avvertir ogni sorte di persone che, lasciate le sconce cose, debbiano attender a vivere onestamente: veggendosi per lo più che l’operazioni triste e viziose o tardi o per tempo restano punite, restando ne la memoria con eterna infamia; ove le cose ben fatte ed oneste sempre vivono con gloria e sono lodate e celebrate. State sani.
Chi volesse, valorosa signora mia, de la varietà degli effetti de l’amore render le ragioni, e dimostrare onde avviene che questo, amando, sta lieto, e quell’altro sempre è di mala voglia, questo mai non teme, e quell’altro è di continovo pieno di paura, uno crede il tutto, e l’altro a pena crede ciò che con gli occhi propri vede; sarebbe certo cosa da far sette Iliadi e materia più tosto da filosofi investiganti la cagione de le cose che da me, che ora solamente attendo a scriver i varii accidenti che in diversi luoghi accadeno, così ne la materia de l’amore come in qual altra cosa che si sia. Ed a scriver queste novelle vostra madre fu quella che con molti argomenti m’essortò. Ora questi dì, ragionandosi a la presenza de la vertuosa signora Margarita Pia e Sanseverina di colui che nel borgo di porta Lodovica aveva la notte ammazzato la sua innamorata, Girolamo Bandello mio cugino, uomo ne le lettere greche e latine dottissimo e medico eccellente, che alora era in Milano, narrò un mirabile accidente che tutti empì d’ammirazione grandissima. E certamente egli fu un caso molto mirabile. Onde avendomi, oltre che io era presente quando mio cugino lo narrò, due e tre altre volte il tutto puntalmente detto per farlo narrar ad altri, m’è paruto degno d’esser al numero de l’altre mie novelle accumulato. E perchè questa novella è di quelle di cui molte fiate insieme abbiamo ragionato, parendone pur troppo strano ciò che l’amico nostro fa, l’ho voluta intitolare al vostro nome, a ciò che, essendo letta da chi si sia, possa sicuramente ne le mani di ciascuno stare. Io credo bene che saranno di quelli che diranno che non vogliono credere che la cosa fosse vera. A questi tali io dico che questo non è articolo di fede e che ciascuno può di questo credere ciò che vuole: ben affermo loro che mio cugino m’affermava d’averla per verissima intesa. Ma sia come si voglia. Voi, signora mia, cred’io che crederete la cosa esser stata vera, sapendo esser qui in Milano occorsi dei casi non minori di questo, i quali se fosse