Novelle (Bandello)/Terza parte/Novella XXXVIII

Terza parte
Novella XXXVIII

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Il Peretto mantovano, essendo in Modena, è da le donne


per giudeo beffato per la sua poca ed abietta presenza.


Essendo la stagione, per gli estremi caldi che fanno, alquanto agli uomini noiosa, poi che s’è sodisfatto al culto divino, non mi par disdicevole con qualche onesto e piacevol ragionamento passar quest’ora del giorno favoleggiando, sapendo che i piacevoli parlamenti hanno non picciola forza a sollevar la noia de la mente ed anco d’alleggerir i fastidii del corpo. Sapete, padri miei onorandi, che del mille cinquecento venti fu celebrato il capitolo generale de la congregazione nostra, molto solenne e con sodisfazione grandissima di chiunque vi fu, ne la piacevole cittá di Modena, ove quel popolo con infiniti segni dimostrò la grande affezione che a l’ordine nostro porta, sí nel provedere abondantemente il vivere per molti dí a tanti frati, come anco nel frequentare continovamente gli uffici divini, le salubri predicazioni e le acutissime disputazioni che tutto ’l dí dottamente si facevano. E nel vero noi eravamo piú di quattrocento frati e tutti fummo benissimo trattati, e tanto piú fu mirabile la magnificenza dei modenesi quanto che, sapendo le nostre constituzioni non permetter che si mangi carne se non per infermitá, ci providero largamente di pesci ed altri cibi al viver nostro conformi. Studiava in quei dí ne la cittá di Bologna negli studii filosofici messer Giovan Francesco dal Forno, cittadino modenese, giovine di bellissimo ed elevato ingegno, il quale, essendo desideroso di mostrar ne la patria sua che non aveva a Bologna speso danari e il tempo indarno, cercò con istanzia grandissima ottenere dai nostri padri una catedra, per poter disputar certo numero d’alcune sue conchiusioni in logica e filosofia; e prese per mezzo a conseguir questo suo intento il molto valoroso ed illustre signor conte Guido Rangone, sapendo quanto esso signor conte era in riputazione appo i nostri padri, e che non gli averebbero cosa alcuna negata. Ottenne il signor conte Guido ciò che domandò, e al Forno fu assegnato un giorno, nel quale nessuno fuor che egli sosterrebbe conchiusioni né disputarebbe. Il Forno, avuta la grazia del determinato dí, mandò a Bologna un suo uomo con lettere a messer Peretto Pomponaccio, ne le cose di filosofia suo maestro ed in quei dí assai famoso filosofo, supplicandolo che per ogni modo egli degnasse di venir a Modena, sí per onorare il suo filosofico conflitto, come anco per essergli scudo contra quegli argomenti, se qualche uno gliene fosse fatto, che egli forse non sapesse cosí ben disciorre. Il Peretto si scusò, allegando che non poteva venire per alcune sue occupazioni; ma il Forno, che senza il maestro disputar non voleva, montò a cavallo e, giunto a Bologna, tanto seppe dire che condusse il Peretto a Modena. Venuto il giorno de la disputazione, salí in catedra il giovine filosofo e molto galantemente le sue conchiusioni propose. Quei nostri frati che gli argomentarono contra, perché era ne la chiesa nostra, non la volsero intendere troppo per minuto, non argumentando ad altro fine se non per onorarlo. Vi furono degli altri assai di varie religioni e secolari, che contra gli argomentarono a la meglio che seppero, a tutti i quali il Forno accomodatamente rispose, e si diportò di sorte che fu da tutti sommamente commendato, perciò che dottamente le sue conchiusioni sostenne ed ingegnosamente gli intricati nodi degli altrui argomenti disciolse, mostrando in ogni cosa ingegno e memoria. Finita la disputazione, fu il Forno a casa onoratamente condotto, ove a tutti quelli che l’accompagnarono diede una magnifica collazione. Il Peretto, che voleva il dí seguente tornarsene a Bologna, disse al Forno: – Messer Gian Francesco, voi con qualche mio disconcio m’avete condutto a Modena, e sonci venuto volentieri per onorarvi e veder come vi sareste portato nel combattere. Il tutto è andato bene e con vostro grande onore e consolazione dei vostri amici e parenti, del che vosco me n’allegro. Ora che cosa mi mostrarete voi di bello in questa vostra cittá? – Fu risposto e dal Forno e da altri, che erano lá di brigata, che in Modena ordinariamente v’erano di molte belle ed aggraziate donne, il palazzo del signor conte Guido Rangone e fratelli, alcune belle sepolture, bei lavori, una bella torre e quella cosa che ciascuno sa e sí spesso si nomina, chiare e freschissime fontane. Ultimamente disse uno che ci era un assai bel tempio dei monachi di santo Benedetto, edificato a la moderna. – Or andiamo fin lá, – disse il Peretto. E cosí in compagnia di molti, che per onorarlo andavano seco, s’inviò verso San Pietro. Farò qui un poco di digressione a ciò che maggior piacere de la novella possiate prendere. Era il Peretto un omicciuolo, molto picciolo, con un viso che nel vero aveva piú del giudeo che del cristiano, e vestiva anco ad una certa foggia che teneva piú del rabbi che del filosofo, e andava sempre raso e toso; parlava anco in certo modo che pareva un giudeo tedesco che volesse imparar a parlar italiano. Ora tornando ove lasciai, poi che ebbero il tempio assai a bastanza contemplato, usciti di quello, cominciarono a venir per la strada dritta che conduce al convento dei frati carmelitani; e giunti al mezzo di detta contrada, furono veduti da due assai belle e festevoli donne, che per iscontro l’una a l’altra a dui balconi stavano a pigliar fresco e ragionare. Una di loro, veduto venire il Peretto con sí gran compagnia, disse a la compagna, credendo fermamente ciò che diceva: – Compagna, non vedi Abraam giudeo, come ne viene in qua ben accompagnato? Egli deve oggi aver fatto banchetto, o che fa qualche gran festa a la ebrea, che ha tanta gente seco. – Sí certamente, – rispose l’altra, – egli deve nel vero aver fatto nozze. Mira come ne viene con gravitá – S’appressava tuttavia il Peretto e veniva sotto le finestre ove erano le due donne, le quali fermamente credevano lui esser Abraam giudeo, cosí d’aspetto e di vestire il simigliava. Il perché una de le donne, alquanto piú baldanzosa de la compagna, come il Peretto fu dinanzi a loro, festevolmente ridendo gli disse: – In buona fé, Abraam, se tu ci avessi invitate a coteste tue nozze o sia banchetto che fatto hai, che noi in compagnia de le tue giudee ci saremmo volentieri venute. Noi diciamo bene a te, messer Abraam, che vai cosí gonfio e sul tirato con questi nostri modenesi. – A queste parole il Peretto turbatissimo, alzata la testa, le disse: – Che diavolo dite voi? che diavolo è questo? Sono forse io reputato giudeo da voi, donne modenesi? Che venga fuoco del cielo che tutte v’arda! ché in vero sète animali tanto stolti e goffi e in tutto pazzi, che il savio Platone sta in gran dubio se voi donne deve porre tra gli animali razionevoli o tra le bestie. E di noi piú saggi assai sono i turchi, i quali non permetteno che in cosa civile né criminale a testimonio di donna si debbia dar fede, se bene fossero tutte le donne di Turchia insieme. – Le donne, udendo queste pappolate e nel viso al Peretto meglio guatando, s’accorsero ch’erano errate e si ritirarono dentro, non si lasciando piú vedere. Ora tutti quelli che accompagnavano il Peretto non si poterono tanto contenere che non si risolvessero in un grandissimo riso de le donne ingannate e del lor filosofo beffato. Egli, tutto pien di corruccio e di mal talento contra le donne modenesi, ne disse tutti quei mali che seppe e puoté, e giurò che mai piú Modena nol vederebbe. Ora non solamente era facil cosa che in poca distanza il Peretto paresse a chi lo vedeva Abraam, e Abraam il Peretto; ma anco secondo che Abraam era intento a l’ingiusto guadagno del bene del prossimo con la voragine de le sue usure, il Peretto altresí mostrava creder poco la immortalitá de l’anima, che è fondamento di tutta la legge cristiana. E forse che nostro signor Iddio permesse che quelle donne profetassero. Ma, sia come si voglia, io credo che piú siano ubligati a la natura quelli che di generoso e liberal aspetto sono dotati, che non quelli i quali, privati di bella presenza, piú tosto mostri che uomini sembrano.


Il Bandello al molto magnifico signore


il signor Gasparo Maino


Aveva il signor Prospero Colonna, l’ultima volta che in Lombardia venne, ove anco passò a meglior vita, tra molti gentiluomini che in corte teneva, un catelano, giovine di grazioso e liberal aspetto e molto prode de la persona, il quale da tutti era chiamato il signor Valenza. Ora quel dí che il signor Lucio Scipione Attellano, compagno ed amico vostro singolare, fece quel suntuoso e luculliano pasto al detto signor Prospero con altri signori e donne di Milano, essendo ne l’ora del merigge un drappello di belle e piacevoli donne con alcuni cortesi giovini a l’ombra dentro il giardino, e narrandosi di molte cose, il signor Valenza, che era di brigata con loro, narrò un atto molto ardito e segnalato che don Giovanni Emanuel fece in Ispagna a la presenza de la sempre memoranda reina Isabella. E perché voi quel dí non vi trovaste a questo pasto, perché eravate in letto con febre terzana, la novella che il signor Valenza raccontò, essendo da me stata scritta, vi mando e dono, a ciò voi anco di quella giornata e dei suoi piaceri siate, leggendola, participevole. Ché se l’infermitá vi levò di poter partecipare dei cibi, non vi leverá giá ella che voi non gustiate quei piaceri che l’anime gentili cibano. Curate di sanarvi.