Novelle (Bandello)/Terza parte/Novella XXXVI
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Novella XXXVI
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Il gran maestro di Francia argutamente riprende
il re Lodovico undecimo d’un errore che faceva.
Essendo io questi dí a la corte di Francia, udii molte fiate ragionar de le maniere e costumi del re Luigi undecimo, e fra alcune parti non troppo lodevoli, che quei signori francesi, che di lui parlavano, dicevano esser state in lui, affermavano come egli fu generalmente nemico di tutti i reali e nobili di Francia, dei quali molti ne fece morire, e che al servizio suo non aveva se non gente vilissima, e che molti ignobili essaltò, dando loro grossissime entrate e gran degnitá. Ora tra gli altri che da la feccia de la plebe egli sollevò in alto, fu uno chiamato da tutti il Balva, il quale tanto puoté appresso lui, che secondo il suo parere il re del tutto si governava e tutto quello che il Balva ordinava era subito fatto, di modo che il re procurò tanto col papa, che lo fece far cardinale di Santa Chiesa e gli diede piú di sessanta mila scudi di beneficii in Francia, ben che il povero re ne fosse mal rimeritato, perciò che a lungo andare il Balva gli fu traditore. Ma lasciamo questo e vegniamo a la materia de la quale ora tra voi, signori miei, disputavate, cioè in che modo il cortegiano si deve col suo signor governare, quando lo vede far qualche cosa sgarbatamente. Vi dico adunque: dessiderando il re sapere di quanto numero d’uomini ne la cittá di Parigi si poteria prevalere che portassero arme, volle che tutti facessero la mostra armati, chi a piedi, chi a cavallo. E di questa mostra diede la commissione al Balva, che ancora non era cardinale, ma solamente vescovo. Il che sentendo monsignor di Cabannes, gran maestro di Franza, se ne turbò forte, conoscendo che questo non era ufficio di vescovo. Tuttavia non volle contradire al re né dirgli che non istesse bene ciò che egli faceva. Ma accostatosi a lui, riverentemente gli disse: – Sere, io vi supplico umilissimamente che sia di vostro piacere di farmi una grazia, che a me sará di grandissimo contento. – E che cosa volete voi, – rispose il re, – che io vi faccia? – Io vi supplico, – soggiunse il gran maestro, – che voi degnate darmi commessione che io vada al vescovado che è di monsignor Balva, a riformare i suoi canonici e visitarli. – Come può esser questo? – disse il re. – La commissione non sarebbe proprio né a voi convenevole, ché non istá bene che un secolare non sacro emendi le persone ecclesiastiche. – Sí, sará, – rispose il gran maestro, – cosí propria e conveniente a me, come è quella che voi commessa avete al vescovo, che vada a far la mostra ed ordinare le genti d’arme. – Piacque al re l’arguzia e rivocò la commissione. Ché forse, quando monsignor Cabannes avesse detto: – Sire cotesto non istá bene; voi nol devete fare: mandateci un commissario de le mostre, – o simil’altre parole, il re, che era capriccioso, si sarebbe adirato e averebbe voluto che la commissione data al vescovo si fosse essequita.
Il Bandello al magnifico e vertuoso
messer Tomaso Pagliearo
Suole il nostro messer Giovanni Figino fare spesso il viaggio da Ragusi a Milano, essendo giá molti anni che a Ragusi tien casa, ove di continovo ha un fondaco di mercanzie d’Oriente. E nonostante che in Milano sia di nobilissima ed antica famiglia e d’oneste ricchezze possessore, nondimeno egli molto profittevole ed onoratamente l’essercizio di mercante fa, e sempre, quando viene, porta a donar agli amici suoi e parenti mille belle cosette, e a me, che certo non mediocremente ama, o porta o manda ogni anno un mazzo di calami di quelli del Nilo, i quali per iscrivere sono perfettissimi. Ora, essendo questi dí venuto secondo la sua costuma di Levante, e ritrovandosi con molti gentiluomini e gentildonne di brigata in casa de la signora Ippolita Bentivoglia, ella lo domandò che devesse dire qualche cosa di nuovo de le novelle di Ragusi. Onde egli per ubidire rispose che narrerebbe un pietoso caso nuovamente in Ragusi avvenuto, essendo egli lá e conoscendo tutti quelli che ne l’accidente intervennero. Il perché, fatto da la compagnia silenzio, cominciò messer Giovanni a narrare la sua istoria; la quale, finita, empí di meraviglia e pietá tutta la compagnia. Finita che fu, la signora Ippolita mi comandò che io la devessi scrivere ed al numero de le mie novelle aggiungere; il che quell’istesso dí, essendo la novella non molto lunga, feci. Pensando poi a cui io quella devessi donare, voi subito m’occorreste, a cui io tanto sono debitore, sí per l’amore che sempre portato m’avete ed altresí per molti piaceri da voi ricevuti, i quali mi vi rendono eternamente ubligato. Quella adunque degnarete con quell’animo prendere che io al nome vostro l’ho intitolata. Vedranno costoro che cosí leggermente ne l’amorosa pania s’invischiano, quanto perigliose siano queste fiamme d’amore, quando regolatamente non sono governate. E certamente egli è pur un gran fatto cotesto: che tutto il dí veggiamo mille scandali ne le cose amorose, che sono mal governate, accadere, e non ci sappiamo poi ne le nostre concupiscibili passioni regolare. Ma dove io dissi «non ci sappiamo», deveva io dire «non ci vogliamo», perciò che se volessimo, non sarebbe chi ne sforzasse giá mai. Desideriamo adunque che il nostro signor Iddio per sua benignitá ci doni la mente sana in corpo sano. Né piú di questo; ma ascoltiamo ciò che il nostro Figino ci vuol dire di questa sua novella. Feliciti nostro signor Iddio tutti i vostri pensieri.