Novelle (Bandello)/Terza parte/Novella XXII

Terza parte
Novella XXII

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Ambrogiuolo va per giacersi con la Rosina


ed è preso, ed altresí giace con lei quell’istessa notte.


Avendo noi lasciato il tenzionare di quelle cose de le quali per mio giudicio poco fondamento di ragione si può trovare, io attenderò la promessa e vi dirò quanto, pochi dí sono, in questa nostra cittá avvenne, la quale tutto il dí ne dá simili parti che a l’improviso nascono. E perché la cosa è troppo fresca, e nomando le persone col proprio nome loro potrei di leggero esser cagione di qualche scandalo, – e sapete bene ch’io non vorrei mai dispiacere a persona, se possibile fosse, ma far servigio a tutti, – dirò quei nomi che a bocca mi verranno. Bastivi che io narri la cosa come fu; e sí, se volete i nomi propri, andate a veder i libri dei parrocchiani che quelli nel battesimo nominarono. Vi dico adunque che in Milano è uno assai bel giovine che ha molto del buon compagno, il cui mestieri è d’esser berrettaio. Egli è innamorato, giá lungo tempo fa, d’una giovane, la quale è molto appariscente, con duo occhi in capo che domandano mille miglia da lontano gli uomini a basciargli e morsicargli. È poi questo loro innamoramento andato tanto innanzi, che spesso si trovano insieme e si dánno il meglior tempo del mondo. Il giovine, che si chiama Ambrogiuolo, manda sovente a la Rosina, – ché cosí la donna si noma, – de le «busecche» che si fanno presso a San Giacomo, perché sono piú grasse de l’altre, del cervellato fino e de l’offellette, e come può si trova con lei a far collezione e bere de la vernacciuola. Il marito de la Rosina è anch’egli berrettaio e tien un poco de lo scemo, anzi che no, ed abita nel borgo di Porta Comense sotto a San Sempliciano, e in quella medesima bottega fa berrette ove anco Ambrogiuolo lavora. E veggendo che Ambrogiuolo domesticamente va in casa sua e spesso ci reca qualche cosetta da mangiare, ne fa meravigliosa festa, né di lui si prende cura alcuna, di maniera che i dui amanti fanno, ogn’ora che vogliono, ciò che loro piú aggrada. Ora avvenne una sera che volendo andare Ambrogiuolo con la sua Rosina a starsi seco quella notte, perciò che il marito era ito a Binasco per certi suoi affari, che egli caminando si sentí movere il corpo. Il perché, essendo vicino agli avelli di marmo che sono nel cimitero di San Simpliciano, s’appoggiò per scaricarsi il ventre a uno di quegli avelli che aveva il coperchio mezzo rotto e quivi fece il suo bisogno. Era quivi dentro entrato d’un quarto d’ora innanzi un buon compagno, il quale, essendosi incontrato in monsignorino Estor Visconte, che quella sera era restato fuori nel borgo con piú di cento dei suoi, si pensò aver dato del capo ne la guardia del capitano di giustizia. Egli, sentendo colui che scaricava il peso del ventre, per fargli paura, disse con una orrenda e spaventosa vose: – Oibò, quanta puzza è chilò! – il dire de le parole e il perseverare e indiavolar dentro la sepoltura fu tutto a un tempo. Ambrogiuolo, sentendo queste voci cosí a l’improviso, saltò in piedi e, tirate su le calze, pensando che i morti avessero parlato, cominciò a fuggire quanto le gambe il potevano portare; e colui che ne l’arca s’era appiattato saltò fuori ed urlando e braveggiando gli andava dietro. Ma il buon Ambrogiuolo non andò guari che incapò ne la compagnia del signor Estor, che a mezzo il borgo attendeva il padrone che era ito a giacersi per due ore con una bella giovane. Egli, pensando essere in mezzo de la guardia del capitano di giustizia, diceva tremando: – Signore, io non ho arme e vommene fuggendo, ché il diavolo è salito fuori d’una sepoltura e mi voleva inghiottire. – Quelli, de lá téma di costui avvedutisi, cominciarono, bravando, minacciarlo che lo volevano menar in prigione se non diceva loro ciò che andava a quell’ora facendo. Il povero uomo gli disse il tutto e nomò la giovane che andava a trovare. Era in quella brigata uno che conosceva la Rosina, il quale piú minutamente volle sapere come stava la pratica e il segno che faceva quando la notte voleva entrar in casa. Il cattivello, temendo di peggio, non gli celò cosa alcuna. Alora quello che conosceva la Rosina, chiamato da parte un suo compagno, lo pregò che per due ore tenesse Ambrogiuolo con buona guardia, perciò che egli voleva andar a provare la sua ventura. Il compagno gli promise d’intertenerlo, e legatolo con una corda d’archibugio, lo tenne sempre appresso di sé. L’altro, avendo inteso il modo che l’amante teneva per entrar in casa de la Rosina, non diede indugio a la cosa, ma dritto a la stanza di lei se n’andò, e, dando gli imparati contrasegni, sentí che l’uscio fu aperto, ed entrò dentro. Ella era a letto né ancora aveva ammorzata la lucerna, aspettando il suo amante. Ma come ella vide in luogo del suo Ambrogiuolo quest’altro, la cattivella restò tutta stordita. Nondimeno colui che era entrato le seppe sí ben dire e fare, che d’accordio entrarono nel letto e con gran diligenza batterono la lana, a ciò che il marito ritornando avesse da fare de le berrette. Il giovine, dapoi che cinque fiate ebbe bene scardazzata la lana, si partí e, giunto a la compagnia, fece rilassare Ambrogiuolo, il quale andò di lungo a ritrovare la sua Rosina; la quale, sentendo il segno, gli aperse e molto lo garrí che tanto l’avesse fatta aspettare. Ma egli, scusandosi, le narrò com’era stato prigione de la guardia e scappato, e che prima era stato a gran periglio per un morto che l’aveva assalito, e su questo diceva le piú belle pappolate del mondo. Ed entrando con la Rosina in letto, la lana, che era molto bene lavata, di nuovo inacquò piú volte e la scardazzò molto largamente.


Il Bandello al magnifico e vertuoso


messer Aloise da Porto salute


Dicesi communemente che il regno ed amore non vuol compagnia, come infinite volte per isperienza s’è veduto. E nondimeno, quando a me stesse a dar la sentenza qual sarebbe men male, io, senza piú pensarvi su, direi che ne la signoria si puó sofferir compagno, ma non in amore. Questo tutto il dí si vede: che ne le cose amorose chi sopporta il rivale è tenuto non uomo ma bestia. Onde ben disse l’ingegnoso poeta: che amor è cosa piena di timore sollecito, che è quel gelato verme di gelosia. E se senza rivale quasi per lo continovo si sta in sospetto, pensi ciascuno come si fa quando la téma è con fondamento. Non si può adunque amare senza temere, come nel suo sonetto disse la dotta e nobile signora Camilla Scarampa, che cosí canto:


Amor e gelosia nacquero insieme,

e l’uno senza l’altro esser non suole;

giudichi pur ciascun, dica chi vuole,

ché di buon cor non ama chi non teme.


Ora, quando l’uomo che ama si vede dalla sua donna abbandonato e non more, questo, vivendo, soffre pene insopportabili, e mentre l’amor dura è peggio che morto. E chi non l’ha provato non cerchi per isperienza di saperlo, ma sia al detto di tanti che provato l’hanno. Ragionandosi adunque di questa materia qui in Milano ne l’amenissimo giardino dei nobili giovini fratelli Dionisio e Tomaso Pallearii questa state, ove erano dismontati molti gentiluomini a rinfrescarsi con soavissimi ed odoriferi melloni e soavi e preziosi vini, messere Antonio Maria Montemerlo, dottor di leggi e negli studii d’umanitá molto dotto, disse che non credeva esser dolore uguale al dolore che soffre uno che disprezzato si veggia da la donna che egli ama. E su questo ci narrò in brevi parole un accidente avvenuto al nostro gentilissimo messer Galeazzo da Valle: il quale avendo io scritto, ed essendo molti dí che di me non v’ho dato nuova dapoi che a Vinegia eravamo insieme, ve l’ho voluto mandare e sotto il vostro nome darlo fuori. Non vi dirò giá che voi debbiate accettarlo e leggerlo volentieri, avendo inteso quanto largamente in Vinegia, avendo letta e riletta una mia canzone, quella a la presenza di molti gentiluomini lodaste. Ed ancor che ella non meritasse tante lodi quante le deste, nondimeno a me è molto caro che le cose mie siano lodate da voi, che tra i rimatori di questa etá sète dei primi, come le rime vostre fanno piena fede. State sano.