Novelle (Bandello)/Terza parte/Novella XVI
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Novella XVI
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Bigolino calabrese fa una beffa al vescovo di Reggio
suo padrone per mezzo di certe cedule false.
Quando io credeva di partirmi da Napoli e tornar qua, fui astretto andarmene a Reggio in Calabria, cittá molto antica e dal cui lito vogliono che la Sicilia per un terremuoto si smembrasse e di terra ferma si facesse isola, come ora è. Cosí hanno scritto gli scrittori de le memorie antiche, e lá da tutti s’afferma. Era quivi ai servigi di monsignore riverendissimo vescovo de la cittá uno chiamato Bigolino calabrese, il piú sollazzevol uomo ed allegro che in quelle contrade si ritrovasse. Egli fingeva con la sua voce ora il ragghiar de l’asino, ora l’annitrire dei cavalli ed ora la voce di questo animale ed ora di quell’altro. Medesimamente erano pochi augelli dei quali egli la voce e il canto non contrafacesse, di maniera che a tutti i reggini egli era carissimo. Passavano poi poche settimane che egli qualche piacevolezza non facesse, in modo che sempre di lui ci era da ragionare. Aveva servito in diversi luoghi varii padroni e ultimamente s’era ridutto col detto vescovo, col quale essendo stato alcuni dí, e conosciuto che, da mangiar e bere in fuori ed esser due fiate l’anno vestito, altro profitto non ne traeva, si deliberò al padrone far una beffa, e il tutto communicò con un altro servidore suo compagno. Ed avendo deliberato quanto fare intendeva, andò un giorno a la stalla e montò suso un cavallo che nuovamente il vescovo aveva fatto cavare de la razza, che era rabbioso e restio. Egli, come spesso soleva, lo menò fuor de la cittá, ove si facevano certi cavamenti per asciugare alcuni campi che erano molto soggetti a l’acqua. Quivi cominciò a cacciar il polledro nel mezzo del fango e terreno molle che i cavatori cavavano, e con gli sproni nei fianchi del cavallo lo faceva indiavolare, di modo che tutti dui, avviluppati ed impaniati nel fango, caddero per terra alquanto lontano dai cavatori. I quali correndo lá, cominciarono a gridare: – Aita, aita! – e trovarono Bigolino tutto infangato, che gettava sangue da la bocca, e piú né meno si moveva come se fosse stato morto. Credettero quelli cavatori che il cavallo avesse tutto pesto il misero Bigolino, e levatolo fuor del fango lo posero sovra una bara e lo portarono al vescovado con general compassione di tutti i reggini, perciò che per le sue piacevolezze era da tutti amato. Egli, mentre lo portavano, lasciava spesso uscire qualche gocciola di sangue da la bocca. Il vescovo, che molto amava Bigolino, udendo il caso, si turbò forte e, fattolo porre in una camera, mandò subito per il medico. Il compagno di Bigolino messosi appresso di lui, attendeva a confortarlo; e restando talvolta soli, gli rinfrescava una sponga che Bigolino piena di sangue teneva in bocca, che fatta a posta aveva per far la beffa. Venuto il medico e visto il sangue e guardato l’infermo in viso, che con certi profumi s’era di modo fatto livido che aveva color di morto, non essendo dei piú esperti del mondo, giudicò che il povero uomo fosse tutto dal cavallo pesto e che non avesse vena a dosso che non fosse rotta, e disse che Bigolino era in periglio di morire. Non istette guari che pareva che il povero Bigolino cominciasse ad aprire gli occhi ed alquanto a rispirare; il perché alora fu fatto chiamare uno sacerdote che lo confessasse. Ma da Bigolino altro non puoté avere se non certi cenni che mostravano che egli fosse dei suoi peccati malcontento. Aveva ordinato il medico castraporci certe unzioni, le quali il compagno di Bigolino diceva aver fatte. Venuta la notte, egli mostrò voler attendere a l’infermo. Era sul principio de la notte venuto monsignor lo vescovo a veder Bigolino e gli aveva dette le migliori e piú amorevoli parole del mondo, ché in vero molto gli doleva de la perdita del suo giocolatore. Volendo il vescovo partire, Bigolino fece con le mani un certo cenno che pareva che volesse dire qualche cosa. Il vescovo amorevolmente se gli accostò dicendo: – Bigolino mio, fa buon animo, ché Iddio ti aiuterá. Vuoi tu nulla da me? – Il cattivello accennava che sí. L’amico e compagno di Bigolino teneva anch’egli detto che cosa voleva, ché monsignor era per far ogni cosa. Tanto accennò e tanti atti fece il buffone, che il suo compagno disse: – Monsignore, egli mi par che questo poveretto voglia il suo giuppone. Che vorrá egli fare? Io credo che la morte lo cacci. – Fu recato il giuppone a Bigolino, il quale, come l’ebbe in mano, accennò al vescovo che lo pigliasse e con la mano gli mostrava che in certo luogo guardasse d’esso gippone. Il vescovo lo pigliò, e volendo discucire quella parte che Bigolino gli aveva mostrata, egli fe’ a la meglio che puoté‚ cenno che via se lo portasse. Monsignore, volendo vedere che cosa fosse questa, se n’andò col giuppone a la sua camera e tutto solo, preso un coltello, aprí quella parte del giuppone che l’infermo mostrata gli aveva. Ivi ritrovò uno scritto di banco sí bene contrafatto che proprio pareva fatto nel banco degli Spinelli a Napoli, per lo quale i banchieri d’esso banco si obligavano a render seicento ducati d’oro in oro a chiunque gli porterebbe il detto scritto, mostrando che Bigolino gli avesse su il banco depositati Come il vescovo vide lo scritto, facilmente credette che fosse vero e pensò che Bigolino gli avesse depositati in quel tempo che egli era stato seco a Napoli, convenendo la data de lo scritto con quel tempo; e tanto piú teneva questo per vero che sapeva in quei dí dal viceré e da’ baroni essere state donate di molte cose a Bigolino, e che anco aveva avuti dei ducati per le piacevolezze sue che fatte aveva. Onde tra sé disse: – Veramente non è cosí pazzo Bigolino come è tenuto. Egli s’ha molto bene saputo governare. – Era il vescovo non solo de l’entrata del vescovado ma di molte altre rendite assai ricco, ma avaro troppo: onde si persuase che Bigolino gli avesse data la cedula a ciò che i danari gli restassero, e cosí serbò lo scritto. Quando fu ciascuno ito a dormire, Bigolino con l’aiuto de l’amico cenò a suo bell’agio e poi dormí sin passata mezza notte; nel qual tempo il compagno ebbe modo d’aver un bacile di sangue e tutto lo riversò dinanzi al letto di Bigolino, che giá tutto il volto s’era insanguinato. Il compagno levò il romore come Bigolino moriva. Venne il capellano, che gli cominciò a raccomandar l’anima come si fa a chi muore. Vennero anco degli altri. Bigolino faceva tutti quegli atti che si fanno nel morire, e ne l’ultimo se ne rimase come morto. Veggendo tutti l’abondanza del sangue, che da la bocca credevano che il cattivello avesse gittato, e la pallidezza che in viso dimostrava, tutti il tennero per morto. Il buon suo compagno, fattosi recar de l’acqua, non volendo aita di persona, disse che lo voleva lavare. E restato seco solo in camera, gli lavò il viso e lo involtò in un lenzuolo, essendo sul far del dí. Il vescovo, intendendo Bigolino essere morto, ebbe doglia d’averlo perduto e allegrezza d’aver guadagnati i seicento ducati. Venne il compagno di Bigolino e disse al vescovo: – Io ho, monsignore, lavato il mio povero amico, il quale è tutto disfatto per le percosse del cavallo. E perché è tanto contrafatto che non pare piú Bigolino, ed anco che giá pute per esser tutto guasto di dentro, l’ho involto in un lenzuolo. Egli sará ben fatto che si ordini che i funerali si facciano a buon’ora. – Io voglio, – rispose il vescovo, – che se gli faccia onore e che tutti i preti e frati di questa cittá sieno adesso adesso invitati. – E voltatosi ad uno dei suoi, ordinò il tutto, di maniera che fece la spesa di piú di trenta ducati. Il compagno, a ciò che nessuno andasse troppo a metter le mani a torno a Bigolino, aveva concio nel lenzuolo un pezzo di carogna che fieramente putiva. Venne poco innanzi il desinare tutto il popolo con la chierica per accompagnar Bigolino, dolendo forte a tutti d’averlo perduto. Fu posto il corpo ne la bara e, fatta la processione per mezzo la cittá, si ritornò al vescovado, ove ne la chiesa maggiore si deveva seppellire. L’essequie furono solennissime e il vescovo cantò la messa da morti. Nessuno per la puzza s’accostava troppo al cataletto. Bigolino tra sé scoppiava de le risa, aspettando il fine de la comedia. Finita la messa e cantato l’officio sovra il morto che è di costume, vennero i beccamorti e pigliata la bara la portarono a la sepoltura, ove giá la pietra dal sepolcro era rimossa. Uno dei beccamorti s’accorse che la coperta sovra il viso di Bigolino alquanto si moveva; il perché disse a l’altro: – Sozio, non vedi che costui ancora non è morto? Mira come dal fiato il lenzuolo si muove. – Era Bigolino ormai stracco di tanto ritener il fiato, e piú destramente che poteva respirava. Onde l’altro beccamorto, avvedutosi anco egli come talora il lenzuolo si moveva, si rivoltò al compagno e disse: – Taci, bestia che sei; non dir covelle. La spesa ad ogni modo giá è fatta, e costui ha in modo frastagliate tutte l’ossa che non può vivere. Lassa pur far a me e gettamelo giú. Piglia i piedi, e io il capo. Non senti come pute? Orsú! – Bigolino, sentendo questo, diceva fra sé: – Cacasangue! questi mastini vorrebbero far da dovero, ove io voglio che si scherzi. Ma si troveranno ingannati: – Ed in quello che l’uno diceva a l’altro: – Piglia i piedi, ché io piglierò il capo, – il buon Bigolino, che nel lenzuolo era di maniera involto che scotendosi rimaneva libero, disse ad alta voce: – Me non prenderete giá voi! – E scotendo fortemente il lenzuolo, saltò fuori de la bara, urlando e facendo le piú contrafatte voci e spaventose del mondo; il che mise in volta tutto il popolo, e dei preti e frati ciascuno fuggiva. Le croci andarono tutte per terra. Veggendo Bigolino che ciascuno pagava di calcagni, e che le smarrite donne gridavano misericordia, si ravviluppò il suo lenzuolo a torno, e presa in mano una de le croci cadute, cominciò a far il verso di messer l’asino e trescare dietro a quelli che fuggivano; di maniera che i primi fuggiti di chiesa, e che alquanto d’animo avevano ripreso, s’accorsero che questa era una de le truffe di Bigolino, e il tutto si risolse in ridere. Monsignor lo vescovo non tanto si rallegrò de la vita del suo buffone quanto s’attristò de la spesa che fatta aveva. E venendogli Bigolino innanzi, che era da infiniti attorniato, pur sempre col suo lenzuolo a torno, il vescovo gli disse: – Tu me n’hai pur fatta una! vatti con Dio, ché ti so dire ch’ella è stata bella, pazzo da catena che tu sei. – Monsignor mio reverendissimo, – rispose alora Bigolino, – perdonatemi, ché voi non l’intendete. Io m’ho voluto mandar il lume innanzi, perciò che so che quando morrò da vero, che forse non ci sará chi mi allumi una candela, ché tutti non sanno leggere gli scritti di banco. – Ed entrato in altri suoi motti faceti, disse: – Monsignore, andiamo a desinare, ché io mi casco di fame. – Tutto il dí poi andò per la cittá con il suo lenzuolo a torno, facendo ridere chiunque l’udiva e vedeva, e il vescovo restò sotto de la spesa fatta, sapendo la cedula esser contrafatta.
Il Bandello a la molto vertuosa e gentile eroina
la signora Margarita Pelletta e Tizzona contessa di Deciana.
I vostri bellissimi madrigali che mandati m’avete per mano del signor conte Ercole Roscone, fatti da voi in lode de la meravigliosa ed incredibile bellezza e de l’altre divine doti de la non mai a pieno lodata eroina, la signora Giulia Gonzaga e Colonna, ho io cosí volentieri ricevuti e letti, come cosa che mi fosse potuta venir a le mani in questi giorni. Gli ho, dico, con mio inestimabil piacere letti e riletti piú e piú volte, sí perché sono parti del vostro sublime ingegno, ch’io onoro, riverisco ed insiememente ammiro come cosa rara del secolo nostro, per le rare doti che in voi come fiammeggianti stelle risplendono in ogni azione vostra, e sí anco perché sono belli, candidi, dolci, eleganti e molto tersi e pieni d’una soave facondia nativa e pura, senza veruna affettazione. Mi sono oltra ciò stati non mezzanamente cari, perché parlano di quella eccellente signora che oggidí con l’ali de la chiara fama tanto in alto vola e sí famosa per ogni clima si dimostra, che tutti gli elevati ingegni de la nostra etá, che alquanto abbiano poste e bagnate le labra nel fonte pegaseo, vi s’affaticano a celebrarla, non per accrescerle alcuna loda o agumentar i veri onori di lei, i quali non possono per gli altrui scritti, quantunque dotti ed artificiosissimi, piú crescere di quello che sono, né per biasimo de’ malevoli sminuirsi; ma perché gli scritti loro e poemi dal nome di quella, che sempre è glorioso, ricevano pregio e gloria. Io ho essi madrigali, sí come per vostre lettere m’imponeste, mandati a Fondi, e gli ho dati ad un fidato messo del signor Cesare Fieramosca, che egli mandò questi dí a Capoa al signor Federico suo fratello. Esso signor Cesare in mia presenza comandò al suo uomo che come fosse a Fondi, subito presentasse le vostre lettere e madrigali a la signora Giulia, a la quale anco egli ha scritto di sua mano una lunga lettera in commendazione vostra con quel suo dire militare. Io mi fo a credere e porto ferma openione che quando essa signora Giulia vederá i vostri madrigali, – né può molto tardare che il messo non arrivi a Fondi, – essendo quella gentilissima e giudiciosa eroina che è e da tutto il mondo è tenuta, che li leggerá con infinito piacere, e gli riceverá tanto onorevolmente quanto cosa che gli potesse esser presentata, e forse piú aggradirá ed averá care queste vostre bellissime composizioni che di nessun altro che la celebri. Quegli altri, che di lei tutto il dí scrivono e la cantano e che si sforzano tale dimostrarla qual è, sono uomini il cui debito naturalmente è d’amare, onorare, riverire e celebrar tutte le donne, e massimamente quelle che lo vagliono, come ella è, che può dar materia amplissima a tutti gli scrittori de’ tempi nostri. Ma per dir il vero, sempre le lodi che gli uomini cantano de le donne portano di continovo con loro un poco di sospetto, che per troppo amore che loro si porta, o per acquistare la loro grazia non si passi alquanto il termine de la veritá. Ma se una giudiciosa donna come voi sète, loda un’altra donna, che sospetto si può avere che ella non dica la nuda e aperta veritá? Voi, – siami lecito cosí dire, parlando il vero e ciò che tutto il mondo vede, – nata bella e nobilissimamente e altamente maritata, di buone lettere ornata, che leggiadramente ne la lingua volgare componete e su le vostre rime fate i canti, e quelli, maestrevolmente composti, con isnodata e velocissima mano sonate e col suono accompagnate la soavitá de la vostra voce; voi, dico, che sète tale, lodate la signora Giulia. Questa sará ben vera e sincera lode, ove punto di sospetto non si può da Momo stesso trovare, conoscendosi che solamente la veritá v’ha mossa a cosí di lei cantare. Felice adunque la signora Giulia che sí nobile cantatrice de le sue vertú ha ritrovato! Ora, perché mi scrivete che io alcuna cosa de le mie vi mandi, vi dico che in questi ardentissimi caldi che fuor di misura in questi giorni canicolari qui in Milano regnano, io ho messo da canto tutti i miei piú gravi studii; e se pur leggo o scrivo cosa alcuna, ciò che faccio è studio di poca cura, ove non mi bisogni silogizzando farneticare e straccare la mia debole e di gran cose mal capace fantasia. Onde, sovvenutomi dei molti piacevoli e cari ragionamenti che questo aprile e maggio passati avemmo a le vostre castella di Deciana e nel Monferrato a Ponzano e altri vostri luoghi, ove assai volte si disse de le beffe che le donne agli uomini fanno, mi ricordai de la novella che il nostro dotto messer Giacinto Arpino ci narrò, volendo mostrare che ancora talvolta gli uomini rendono a le donne pane per ischiacciata. E parendomi assai bella e tale che a molti poteva esser di profitto, l’ho in questi caldi scritta e ve la mando e al nome vostro consacro. Quando adunque vi rincrescerá, potrete leggerla e prenderla per alleggiamento dei vostri studi. Oh, veramente felice questa nostra etá! Ché se l’antica ebbe una Saffo, questa nostra si può gloriare averne due, cioè la dotta, copiosa e leggiadra vostra zia, la signora Camilla Scarampa, e voi sua onorata nipote. Ma di piú sará lodata l’etá nostra, perciò che l’antica Saffo non è piú dotta di voi due, e voi due sète piú oneste e caste di lei pur assai. State sana.