Novelle (Bandello)/Terza parte/Novella XLV

Terza parte
Novella XLV

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Il duca Galeazzo Sforza fa suo consegliero il Cagnuola,


conosciutolo giusto e saldo nei giudicii.


Galeazzo Sforza, figliuolo di quel glorioso Francesco duca di Milano, che per propria vertú e valore, con l’arme in mano, s’acquistò questo ducato, fu prencipe che ebbe di molte e molte buone parti, e sempre onoratamente e con grandissima riputazione di tutti i prencipi cristiani mantenne il suo dominio. Vero è che fu tanto dedito ed amoroso di donne, che per cagione di quelle fece molti stracolli e cose molto mal pensate. Né solamente amò egli una donna e a quella s’attenne, come talora fanno alcuni prencipi, ma in un medesimo tempo n’amò molte, come la diversitá di tanti figliuoli bastardi e figliuole, che lasciò dopo sé e che sono da diverse madri proceduti, fa piena fede; perciò che, come ciascuno di voi sa, ancor oggidí piú di tre coppie di loro vivono. Egli le femine maritò onoratamente e tutti i figliuoli lasciò molto ricchi. Non si sa però giá mai che egli per forza donna alcuna pigliasse. Nondimeno furono l’amiche sue cagione de la sua immatura morte, perciò che per rispetto loro infinite volte chiuse gli occhi a la giustizia, non si curando offender questi e quelli. Ora tra la mandra de le sue femine che teneva, ve n’era una, la quale egli, avendone avuto di molti figliuoli e figliuole, maritò dopoi in un conte di questa cittá di Milano; la quale faceva lite con un suo parente per levargli buona parte de l’ereditá che possedeva, mossa piú dal favore che sperava dal duca ottenere che per ragione alcuna che ella avesse ne la detta ereditá. Avendo adunque lungamente contra il suo parente litigato, e non potendo secondo l’intento suo venirne a capo, e sempre col mezzo del favore ducale facendo menar la lite in lungo, per straziare e consumar l’avversario, a ciò che di fastidio a la lite cedesse; e veggendo che in modo nessuno egli non si lentava né smarriva, anzi piú di dí in dí si mostrava fresco e gagliardo; ottenne che con una lettera ducale la causa fu levata di mano ai giudici ordinarii e messa in petto di messer Giovan Andrea Cagnuola, dottore, assai giovine alora, ché di poco avanti era fatto dottore, e si teneva generalmente appo tutti che fosse uno dei savi dottori del collegio. Si meravigliò molto il Cagnuola che il duca gli avesse sí fatta lite commessa, né sapeva imaginarsi altro se non perché era parente di tutti dui i litiganti, che fosse per tal rispetto fatto commessario. Egli, ancora che giovine, era di temperatissimi costumi, prudente, dotto e tanto amatore de la giustizia quanto altro che alora vivesse. Fatto adunque commessario ducale ne la detta lite, ebbe tutte le scritture pertinenti a questa causa da l’una parte e da l’altra, le quali con grandissimo studio, cura e diligenza avendo vedute e considerate, conobbe che la donna v’aveva pochissima ragione e che a gran torto molestava il suo parente. Il perché, parlato con lei una e due volte, tentò di rimoverla da la sua openione, dimostrandole la poca ragione che ella aveva ne la lite, e che se era sforzato pronunziar la sentenza, che bisognava che contra lei la pronunziasse. La donna, sentendo il parlare del commessario, entrò in una estrema còlera, con dire che s’era con doni lasciato corrompere dal parente, ma che provvederebbe a’ casi suoi e che mal suo grado ei sarebbe sforzato a dar la sentenza a favor di lei. Onde, parlato col duca e con cinquanta lagrimette fattogli un poco di carezza, l’indusse che, senza pensarvi troppo su, mandò un cameriero a comandare al Cagnuola che, per quanto aveva cara la grazia del duca, desse il dí seguente la sentenzia in favore de la donna. Il Cagnuola, avuto cotesto cosí ingiusto comandamento, punto non si sbigottí, ma se n’andò di lungo in castello, e, trovato il duca, gli disse: – Signor eccellentissimo, uno dei camerieri vostri m’ha fatto il tal comandamento, al quale io non posso né debbo con onor mio in modo alcuno ubidire, né mi può cader in capo che tale sia l’intenzione vostra. – Andate, andate, – rispose il duca, – e fate ciò che noi v’abbiamo comandato, e non se ne parli piú. – A questo il Cagnuola soggiunse: – Ed io, signore, renonzio a la commissione fattami di esser giudice. Voi la commetterete ad altri che faranno il voler vostro. Io per me nol so né lo posso essequire. – Alora il duca, vinto da la còlera, comandò che fosse messo in prigione; il che subito fu fatto. Dopoi, avendogli il duca mandato a parlare, e stando il Cagnuola fermo nel suo proposito, gli mandò il venerabile padre fra Giacomo Sesto de l’ordine predicatore a denonziargli che si confessasse, perciò che gli voleva far mozzar il capo. Si confessò il Cagnuola, e con l’animo suo invitto aspettava la morte. Il duca, non volendo udir persona, ordinò che in castello una sera gli fosse tagliata la testa. Venuto il manigoldo, e apparecchiato il ceppo e la mannara, il Cagnuola al supplicio se n’andava come se fosse ito a nozze. Volle il duca che messer Cecco Simonetta fosse presente a questo fatto; il quale, avendo udita la volontá del suo signore, v’andò. Giunto il Cagnuola ove era il ceppo, s’inginocchiò e con chiara voce disse: – Meglio è morir innocente che viver malfattore. – E con questo mise il petto sovra il ceppo. Alora messer Cecco lo fece levare su e lo condusse al duca, il quale gli disse: – Messer Gian Andrea, voi avete giocato netto, perciò che se voi per téma di morire pronunziavate la sentenzia falsa o pur dicevate di darla, noi vi lasciavamo tagliar il capo. Ora che veggiamo che veramente sète uomo da bene, noi vogliamo che siate del nostro Coniglio segreto. – E cosí lo fece suo consigliero, e per l’openione de la sua vertú l’ebbe sempre mai in grandissima stima. Né solamente dal duca era avuto in prezzo, ma tutto lo stato di Milano sempre lo riverí come giustissimo e santissimo uomo.


Il Bandello a l’eccellente dottor di leggi e poeta


divinissimo messer Niccolò Amanio salute


Avendo scritto una novella che non è molto a Crema, patria vostra, avvenne, per quanto diceva il nostro dottissimo messer Andrea Navagero, che questi dí a Marmiruolo a la presenza di madama di Mantova e de le signore duchesse d’Urbino la narrò, ho pensato non poterla meglio collocare che sotto il vostro cosí famoso nome, essendo voi oggidí quel poeta che in esplicar gli effetti amorosi non avete pari. E tuttavia nel governo de le terre di quei signori Pallavicini sète occupatissimo, rendendo sommaria e breve giustizia a ciascuno. Sovviemmi poi che piú d’una volta abbiamo insieme ragionato de la natura d’alcuni, che cosí volentieri beffano il compagno di qualche cosa, de la quale eglino meritano molto piú d’esser beffati, come vederete esser avvenuto al magnifico podestá di Crema. Vi piacerá adunque questo picciolo dono accettare, che mi rendo certo che vi fará ridere. State sano.