Novelle (Bandello)/Seconda parte/Novella XXXVII
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Novella XXXVII
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Odoardo terzo, re d’Inghilterra, ama la figliuola
d’un suo soggetto e la piglia per moglie.
Avendo sentito i molti e varii ragionamenti che qui fatti si sono, a me pare che di questi regi d’Inghilterra, o siano de la Rosa bianca o siano de la rossa, venendo tutti d’un ceppo, si possa dire che quasi a tutti siano piacciute le donne altrui e tutti piú sete abbiano avuto del sangue umano che non ebbe Crasso mai de l’oro. E quando degli altri non s’avesse cognizione alcuna, questo che al presente si dice esser morto n’ha sparso tanto, che veramente si può dire non esser stato in questa nostra etá, né tra’ cristiani né tra’ barbari, prencipe alcuno o tiranno sí crudele che a par di lui non si reputi pietoso. Che un prencipe per mantenersi nel suo dominio occida chi cerca di cacciarnelo, non è cosa inusitata né nuova, ché a dir il vero il regno non capisce dui. E se lecito mi fosse dire e mischiar le cose sacre in queste profane, io direi che il nostro signor Iddio non volle il superbo Lucifero in cielo poi che il misero ed ambizioso angelo pensò e lui d’agguagliarsi. Or, come dir si suole, a sangue freddo far ammazzar uno e, perché alcuno non voglia a’ miei disordinati appetiti compiacere, anciderlo, che questo stia bene o sia lecito io non lo crederò giá mai. Onde talora meco stesso mi vergogno, quando intendo alcuni sí facili a levar la vita agli uomini non per via di giustizia, ma solamente per sodisfar agli appetiti loro mal sani. Non ha giá fatto cosí Solimano che oggi è imperador de’ turchi del quale ancora non si sa che abbia imitato il padre e gli avi suoi, che tutti son stati inclinati a far ammazzar questi e quelli, e spezialmente quelli del sangue loro Ottomanno; perciò che mai, che si sappia, ha fatto morir niuno per appetito, se non per giustizia o per servar l’ordine de la milizia. E pure è maumettano e son ventisette anni che regna. Mi dirá forse alcuno che ha fatto ammazzare Abraino bassá, suo gran favorito. Io ve ne dirò ciò che a Vinegia da uomini pratichi de la corte del turco se ne dice, i quali affermano che trovandosi Solimano mal servito da Abraino ne le guerre contra i persiani, non avendo essequito alcune commessioni che commesse gli aveva, deliberò levarselo dinanzi dagli occhi. Ma perché al principio che Abraino fu in favore, Solimano gli aveva fatto un amplissimo salvocondutto e de la parola e fede sua non voleva mancare, piú volte si consegliò con i suoi sacerdoti, i quali, – non so giá io in quai leggi abbiano trovata questa decisione, – gli conchiusero che se mentre Abraino dormiva l’avesse fatto svenare, che non rompeva il salvocondutto. E certo è che, dormendo, lo sfortunato Abraino fu morto. Ora a me medesimo incresce andarmi tra tanti morti ravvolgendo, avendone voi altri tanti raccontati ed io altresí dettone alcuno. Perché volendo omai lasciar queste cose malinconiche e piene di sangue e pianti, e quello dire per cui a parlar mosso mi sono, dirò solamente queste parole: che sí come agli Appii fu nativo d’esser nemici de la plebe romana ed agli Scipioni vincer in Affrica fu fatale, cosí mi pare che di questi regi inglesi sia proprio d’estinguer quelli del sangue loro e perseguitar la nobiltá e far macello d’uomini ecclesiastici e rubar i beni de le chiese. Venendo adunque al mio proposito, vi dico che Odoardo re d’Inghilterra, quello che fu sí aspro nemico al regno de la Francia, ebbe anco guerra grandissima con gli scocesi e molto gli travagliò, come ne le croniche inglesi si legge. Egli prese per moglie la figliuola del conte di Hainault, da la quale nacquero alcuni figliuoli e tra gli altri il primogenito che pur si nomò Odoardo, prencipe di Galles, giovine ne le cose militari molto famoso, che non guari lontano da Poittiers vinse il campo francese e prese prigione nel fatto d’arme il re Giovanni e lo mandò in Inghilterra al padre. Trovandosi adunque il re Odoardo aver guerra con gli scocesi, perché Guglielmo Montaguto suo capitano ne la marca di Scozia fortificò Rosemburg e fece alcune belle imprese, gli donò il contado di Salberí e lo maritò onoratamente in una nobilissima giovane. Lo mandò poi in Fiandra in compagnia del conte di Suffort, ove tutti dui furono fatti prigionieri da’ francesi e menati e Parigi nel Lovere. In questo tempo gli scocesi assediarono il castello di Salberí, ove la contessa non si portò mica da giovanetta delicata e timida donna, ma si dimostrò esser una Camilla o una Pentesilea, perché con tanta prudenza, animositá e fortezza governò i suoi soldati e di modo i nemici offese, che furono astretti, intendendo il re venir al soccorso del luogo, levarsi da l’assedio. Il re che giá era partito da Varoich e veniva verso Salberí per combattere gli scocesi e far giornata con loro, udendo che erano andati via, fu per ritornar indietro; ma essendo avvertito de la gran batteria che gli scocesi avevano fatta al castello di Salberí, deliberò andarla a vedere. La contessa che Aelips aveva nome, de l’avvenimento del re avvertita, fatti i convenevoli preparamenti che in tanta brevitá di tempo far si potevano, come intese il re al castello approssimarsi, subito gli andò incontra, avendo prima fatto aprire tutte le porte di quello. Ella era la piú bella e leggiadra giovane di tutta l’isola, e quanto tutte l’altre donne di beltá sormontava, tanto anco era a ciascuna d’onestá e bellissimi costumi superiore. Come il re cosí bella la vide e sí riccamente abbigliata, accrescendo meravigliosamente gli ornamenti del capo e di tutta la persona le native bellezze de la donna, non gli parendo mai aver in vita sua veduta la piú piacevole e bella cosa, incontinente di lei s’innamorò. Ella inchinatasi al suo re e volendogli con riverenza le mani basciare, egli non lo sofferse, anzi umanamente, a ciò che io amorosamente non dica, raccogliendola ne le braccia, quella basciò. Tutti quei baroni e signori che con altri gentiluomini erano col re, veduta sí incomparabil bellezza, restarono fuor di misura attoniti, e non donna mortale ma cosa divina pensarono di vedere. Ma piú di tutti era il re d’estrema meraviglia pieno e non sapeva altrove rivoltar gli occhi, quando la donna che bella e soave parlatrice era, poi che ebbe fatta la riverenza al re, quello sommamente con accomodate parole ringraziò del soccorso che preparato aveva, dicendo che gli scocesi, come sentirono quello da Varoich esser partito, s’erano da l’assedio levati, non avendo avuto core d’aspettarlo. Ed insiememente de le cose alora occorse ragionando, entrarono dentro il castello con trionfo e festa. Mentre che il desinare s’apprestava, il re, che venuto era per veder le batterie fatte dagli scocesi, tanto si sentí da soverchio amor battuto ed aperta la via per gli occhi al core col folgorar dei begli occhi de la donna, che non trovava rimedio veruno da potersi riparare; anzi quanto piú vi pensava tanto piú la rovina si faceva maggiore, e d’ora in ora pareva che dai raggi di quei begli occhi si sentisse battere, né altrove che a questo poteva rivolger l’animo. Egli s’era tutto solo appoggiato ad una finestra, a’ suoi amori pensando e cercando via di poter la benevoglienza de la donna acquistare. In questo ella che vide il re cosí solo e pensoso, riverentemente a lui accostatasi, gli disse: – Sire, perché state voi pensando tanto e in viso cosí malinconico vi mostrate? Egli è tempo che v’allegrate e che stiate in gioia e in festa, poi che senza romper lancia avete cacciati i vostri nemici, i quali si confessano vinti, poi che stati non sono osi d’aspettarvi. Sí che voi devete star di buona voglia ed allegrar con la lieta vista vostra i vostri soldati e tutto il popolo, che dal volto vostro dipende. E come potranno eglino rallegrarsi, veggendo che voi, che il capo loro sète, non gli mostrate buon viso? – Il re, sentendo la soavitá di quella angelica voce ed ascoltando quanto diceva, deliberò di scoprir l’amor suo e render, se possibil era, pieghevole la donna ai suoi desii. Mirabilissime certamente e penetrevolissime sono le fiamme d’amore e molto varie, causando secondo la varietá loro, ove s’appigliano, diversi effetti. Vedi colui acceso d’ardentissimo amore, il quale giorno e notte altro mai non fa che lamentarsi che troppo penace è il fuoco ove egli ardendo miseramente si consuma, e se con gli amici e compagni si duole, ha un fiume di parole in bocca che di continovo correndo mai non s’asciuga. Ma come vede la sua donna e che delibera dirle quanto per lei è in mortal pena involto, trema come un fanciullo innanzi al maestro e diviene di tal modo muto che non può formar parola, e in questa maniera tacendo e ardendo consumerá mesi ed anni. Tuttavia costui, che cosí nel cospetto d’una donna trema e tace, non si moverebbe di passo per uno o dui uomini armati, ed innanzi a gran prencipi e regi non solamente bene, ma con audace e ferma voce le ragioni sue direbbe. Un altro poi in quel punto medesimo che s’innamora e che si sente per tutte le vene sparger il liquido, sottile e velenoso fuoco de l’amore, che in lui non lascia dramma che interamente non arda, tanto animoso diviene che, ogni volta che abbia occasione di parlar a la sua donna, tutte le sue passioni arditamente le scopre, e spesso il primo giorno del suo amore è anco il primo a manifestar le fiamme. E di questa sorte era il re Odoardo, il quale, poi che vide la contessa tacere, cosí con pietosa voce a quella disse, avendo gli occhi di lagrime colmi: – Ahi, cara dama mia, quanto sono i miei pensieri, misero me, lontani da quello che forse v’imaginate! – E questo dicendo, fu costretto a lasciar uscir dagli occhi alcune lagrimette. Poi disse: – Io ho un ardentissimo pensiero che fieramente mi molesta, né è possibile che di cor me lo levi, e mi v’è nato dapoi che io son giunto qui, e non mi so risolvere. – Taceva la donna veggendo cotali maniere nel re, e non ardiva né sapeva che dirsi, quando egli con un pietoso sospiro le disse: – Che dite voi, dama? non sapete voi darmi alcun compenso? – Ella, alquanto assicurata e il tutto pensando se non ciò che era: – Sire, – rispose, – io non saperei che rimedio darvi, non sapendo che male sia cotesto che tanto par che vi prema. Se state di mala voglia perché il re di Scozia abbia danneggiato il paese nostro, il danno non è tale che meriti nel vero che un tanto personaggio se ne affligga, oltra che, la Dio mercé, voi sète in esser di poterne con doppio strazio pagar gli scocesi, come altre volte fatto avete. Sire, egli è tempo di venir a desinare e lasciar questi pensieri. – Il re alora fatto buon animo cosí le disse: – Ahi, dama mia cara, io mi sento di soverchia pena scoppiare il cor nel corpo, e sono sforzato, se vivere voglio, di manifestarvi il segreto de l’animo mio e scoprirvi la cagione del penace mio dolore, parendomi che a voi e a me non convenga che io altrui di questo faccia consapevole. Vi dico adunque che subito che io arrivai a Salberí e vidi l’incredibile e divina vostra bellezza, i saggi ed onesti modi, la grazia ed il valor vostro con l’altre doti che in voi risplendeno come gemma legata in biondo e terso oro, in quel punto medesimo mi sentii esser vostro prigionero, e in modo da questi divini raggi dei begli occhi vostri abbrusciarmi che io piú non sono in mio potere, ma in tutto e per tutto dipendo da voi, di tal maniera che la vita e morte mia sono ne le vostre mani. Ché se io conoscerò che vi piaccia di ricevermi per vostro ed aver di me compassione, io viverò il piú lieto e il piú gioioso uomo del mondo; ma se per mia mala sorte voi di questo mio amore schiva vi mostrarete, non degnando di porger soccorso a l’intensissima doglia che sensibilmente a poco a poco mi va come cera al fuoco consumando, io in breve finirò i giorni miei, ché tanto a me è possibile che io senza la grazia vostra viva, quanto può un uomo viver senza anima. – In questo finí il re il suo ragionamento, attendendo la risposta de la donna; la quale poi che vide che egli si taceva, tutta in sé raccolta, con grave ed onesto viso cosí gli rispose: – Se altri sire, che voi queste ragioni dette m’avesse, io so bene che risposta esser deverebbe la mia. Ma conoscendo che voi sollazzate e di me per modo di beffa vi prendete trastullo, e forse lo fate per tentarmi, vi dirò per ultimar questa pratica, che a me non pare che ragione alcuna voglia che un sí generoso ed alto prencipe come voi sète possa pensare, non che deliberar, di levarmi l’onor mio, che piú che la vita caro esser mi deve. Non sará anco che io creda giá mai che voi teniate sí poco conto di mio padre e di mio marito, che per voi son prigioni in mano del re de la Francia, nostro mortal nemico. Certamente, sire, voi sareste molto poco prezzato se si sapesse questo vostro mal regolato desiderio, ed anco da me nulla mai guadagnareste, perché io non ho pensato, e meno ora ci penso, di far vergogna al mio consorte, perché la fede maritale, che quando egli mi sposò io gli promisi, intendo candida e pura conservare fin che starò in vita. E quando io pensassi di far simil vigliaccheria con chi si sia, a voi, sire, apparterrebbe, per la servitú di mio padre, di mio marito e di tutti i miei, agramente riprendermene e darmene conveniente castigo. Sí che, valoroso signore, che gli altri solete vincere e soggiogare, vincete e soggiogate voi stesso e levatevi queste disordinate e poco onorevoli voglie di core, e attendete a la conservazione ed agumentazione del regno. – La compagnia che era col re e vedeva questi stretti ragionamenti imaginava che essi parlassero de l’assedio e de la guerra passata. In questo venne il sescalco e disse il desinar esser presto. Il perché il re andò e si pose a mensa, ma niente o molto poco mangiò, stando tutto pensoso e di mala voglia. Ogni volta poi che gli veniva in destro di poter vagheggiar la dama, le gettava l’ingordo ed appassionato occhio a dosso, e cercando rallentar le cocenti e vive fiamme che miseramente lo ardevano, tuttavia le faceva maggiori e, come l’augello preso al visco, piú ne l’amorosa pania s’intricava. I baroni ed altri, che vedevano questo insolito contegno del re, forte se ne meravigliavano; al vero perciò non si seppero apporre giá mai. Stette quel giorno il re a Salberí e considerò le batterie fatte dagli scocesi e con i suoi lungamente ne ragionò, avendo di continovo l’animo a le sagge risposte de la dama, le quali quanto piú vere e piú oneste le stimava, tanto piú s’affliggeva e si disperava di poter conseguir l’intento suo, – ché tutto era fitto in questo, – di prender amorosamente piacer con lei. Egli nel vero è gran cosa che quasi tutti questi lascivi innamorati quando sono di brigata con i lor compagni, se punto hanno del civile e del galante, lodano sempre quelle donne le quali amano, levandole con onorate parole fin al terzo cielo, e mai non si straccano d’essaltarle e commendarle. Per l’ordinario poi avendole date tutte le lodi che loro occorreno, di beltá, leggiadria, gentilezza, modestia, accortezza, prudenza, di belle maniere ed umanitá, la piú sublime e rara vertú che piú magnificamente lodando estolgono e cantando celebrar si sforzano, è quella in ogni donna non mai a pieno lodata pudicizia ed onestá. Questa vertú di tanto valore e di tanta stima è tenuta ne le donne, e tanto quelle fa riguardevoli e degne di vera ammirazione, che se avessero tutte le grazie e lodevoli parti che al sesso feminile si convengono e questa sola manchi loro, perdeno in tutto la riputazione e l’onore e divengono femine del volgo. Ora questi innamorati, ancora che ne le loro innamorate lodino tanto il prezioso tesoro de l’onestá, tuttavia però se in effetto conoscono quelle esser pudiche ne sentono un dispiacer grandissimo, e vorrebbero che con tutti gli altri fossero onestissime, rigide e severe, pur che eglino le trovassero pieghevoli, e ai disonesti appetiti che hanno, arrendevoli; onde non potendo conseguir il libidinoso lor desiderio, quel casto animo e pudica voluntá che prima lodar solevano e tanto commendare, chiamano crudeltá, fierezza e superbia. Cotal era il re Odoardo, il quale veggendo che la donna perseverava nel suo proposito ferma e punto a le di lui preghiere non si piegava, ma assai piú ritrosa si discopriva, quella diceva esser una fiera tigre, una donna intrattabile e crudelissima. E non avendo tempo di far dimora a Salberí per altri affari che occorrevano, sperando ricoverar meglior occasione per dar compimento al fatto suo, il dí seguente per tempissimo levato si partí, e prendendo congedo da la dama pianamente le disse, pregandola, che meglio volesse pensar ai casi suoi e di lui aver pietá. Ella riverentemente gli rispose che pregava Dio che gli levasse quella fantasia di capo e gli desse vettoria contra i suoi nemici. Fu in questo mezzo liberato de la prigione il conte marito de la donna, il quale, o per disagio patito o che che se ne fosse cagione, in breve da gravissima infermitá assalito, senza poter ricever compenso, se ne morí. E non avendo avuto figliuoli né maschi né femine da Aelips sua moglie, né altro erede che gli succedesse, la contea di Salberí ritornò in mano del re. La donna, oltra modo dolente de la morte del marito, dopo alcuni giorni a la casa del padre, che Ricciardo conte di Varuccia era, si ridusse, il quale perché era uno dei consiglieri del re abitava in Londra. Si guerreggiava in quei tempi ne la Bertagna, tra Carlo di Blois che fatto s’era duca di Bertagna, e la contessa di Monteforte giá stata duchessa del paese. Il re di Francia favoriva Carlo di Blois suo cugino, e Odoardo a la contessa prestava ogni aita a lui possibile, avendo prima fatta tregua con gli scocesi. E per occasione di questa guerra egli alora dimorava in Londra, ove sapendo che Aelips s’era ridutta, pensò che ai suoi amori si potrebbe dar alcun ristoro. Era sempre stato il re con questo pensiero al core, né altrove in modo alcuno rivolger lo poteva. La dama alora aveva da venticinque in ventisei anni, e tanto ben compariva in abito vedovile che nulla piú. E come giá s’è detto, ella era fuor di misura bella, e con l’estrema bellezza e leggiadria ed altre sue belle maniere aveva congiunta somma onestá; il che al re fu cagione un tempo d’amarissima vita ed a lei a la fine partorí, come intenderete, eterna gloria. Amando adunque il re piú che mai e tutte quelle cose operando per lo cui mezzo la grazia e l’amor d’una donna si deve poter acquistare, e per tutto ciò a nessuna cosa profittevole del suo desiderio pervenendo, quasi che egli si disperava, e d’amare o non volendo o non potendo disciogliersi, né morir sapeva né lo star in vita punto gli giovava. Erano giá piú di nove mesi che egli infelicissimamente l’amava, e quantunque volte la vedeva, tutto di nuovo disio ardendo e quella sovra ogni creata cosa amando, non come suddita sua ma come unica del mondo imperatrice onorava e riveriva. Tuttavia egli in tanto si temperava e il freno de l’appetito teneva in mano, che quanto piú poteva a tutti gli altri questo suo ferventissimo amore celava e teneva nascoso. Un solo suo fidatissimo cameriero aveva del tutto fatto consapevole, col quale spesse fiate de la donna e de la sua dura rigidezza ragionando, parevagli alquanto le sue amorose passioni alleggerire. Deve in effetto ogni amante esser segreto, perché amore ricerca segretezza e fede, e non solamente esser parco di parole che possino altrui dare cognizione e indizio qual donna egli ami, ma esser anco molto discreto ne l’azioni sue, a ciò che le troppe passate che facesse dinanzi la casa di quella, o gli spessi corteggiamenti con quelle disvolture e smanie spagnuolesche non dimostrino al volgo quello che si deve tener segretissimo. Io non voglio per ora ragionar di quelli che, subito che vedeno una donna che piaccia loro, cominciano con piú cerimonie, che non si fanno in cappella a Roma, a corteggiarla, e cosí acconciamente si diportano che in meno d’una settimana tutta la cittá s’avvede che eglino hanno «l’intendimento» in quella donna. Questi tali, vada la donna a la chiesa, dietro a le pedate di lei correno, e notte e giorno le vestigie di quella non abbandonano giá mai. In chiesa poi rimpetto di lei in cotal guisa si mettono, affisando gli occhi nel di lei volto, che pare che quivi intenti e in tutto trasformati sieno. Il medesimo contegno serbano su le feste, balli e giuochi, e per le strade con alti e focosi sospiri l’accompagnano in sí fatta maniera che la donna mai non può far un passo, che non abbia negli orecchi il suono noioso dei sospiri e negli occhi le mal composte maniere di questi sí galanti innamorati. Né poi di queste publiche comedie contenti, dubitando forse che gli uomini non s’avvedano di ciò che fanno, vogliono ancora con le proprie parole fargli avveduti, perché d’altro parlar non sanno in ogni luogo ove si trovano che de la lor signora. E par loro che debbiano esser tenuti da piú, per far coteste sciocchezze. Ma Dio guardi tutte le donne che hanno del gentile da questi gloriosi sciemonniti, i quali sono dopoi sí saggi che se averanno una buona vista, la predicheranno per le piazze. Pensate poi ciò che farebbero, se alcuna segnalata grazia da le lor donne ricevessero. Io credo che manderebbero le trombe per ogni cantone di contrada per publicar questi lor amoracci. Ora secondo ch’io biasimo questi cosí sfacciati ed ammonisco le donne che da loro si guardino come da la peste, non è ch’io molto piú non lodi coloro che segretamente amano e di tal guisa si governano che sanno far conoscere a le donne loro che le sono servidori, senza far le gride, senza empir l’aria di sospiri che par che abbiano un Mongibello in corpo, e senza far il volgo di cosa veruna accorto. E perché sono alcuni che amando donna di grado non vogliono che questo amore sia a persona del mondo fatto palese, ma che ardendo e tacendo chi ama se ne stia, se per sé non ha via di scoprirsi a la donna amata; io sono di parer contrario e porto ferma openione che sia necessario che chi ama, o basso o alto, debbia aver un fidato compagno e non piú, il quale sia segretario dei suoi pensieri, imperciò che a nessuno mai non fu dubio che spesse fiate chi ferventemente ama, di maniera gli occhi e la mente abbia abbagliati che, in molti casi che occorrer ponno, da per sé non si possa disbrigare e senza altrui aita consegliarsi. Certo è, se costui non ha chi lo consegli, che fará mille enormi errori, e tirato da la ceca passione strabocchevolmente le sue sfrenate voglie manderá ad essecuzione, e forse tal pazzia commetterá che Solomone acconciarla con tanto suo sapere non potrebbe. Ma se averá un amico che per lunga prova abbia esperimentato fedele e prudente, potrá nel costui petto liberamente ogni salma dei suoi pensieri ed ogni segreto del core scaricare e deporre. Onde l’amico, che da passione amorosa non ha velati gli occhi de l’intelletto, saperá senza periglio il tutto consegliare e mille rimedii opportuni secondo il bisogno ritroverá, che chi appassionato e nei lacci d’amore irretito si ritrova usar non sa. Come poi, se nei casi di fortuna avversa in mille fastidii involto l’amante dimora, che sprezzato si vede e che conosce indarno affaticarsi e la sua servitú non esser a la donna che segue cara; come, dico, potrá trovar rimedio ai suoi dolori e da se solo senza aita sollevarsi, se non ha con chi le passioni sue conferire e talora disputare qual via sia piú sicura e che modo de’ tener per fermo? Ché un piacere ed una contentezza che l’amante abbia e non sappia a chi comunicarlo, non dá la metá di gioia che reca quello che con l’amico si partecipa: perché questi contenti ed allegrezze che Amore a’ suoi seguaci dona e stanno in un solo petto rinchiusi, sono forte manchevoli di compíta gioia e deboli e freddi restano; ove quelli che al fido compagno sono manifestati, si fanno di continovo maggiori, e quantunque volte sono rammentati nuova sempre contentezza apportano. E ciò che io parlo de l’uomo, voglio anco credere che a la donna innamorata si convenga, essendo per l’ordinario tutte le donne di temperamento piú debole e delicato degli uomini e naturalmente piú compassionevoli e pietose e meno atte a sopportar le fiamme amorose se eccessive sono, amando elle, – perdonatemi, voi uomini, – piú ferventemente e con piú affezione di noi, e non sapendo tanto simulare e dissimulare come molti fanno, a cui par di trionfare quando questa e quella ingannano. Ma tornando a la nostra istoria, conosceva ciascuno per la inusitata vita che il re menava, che egli d’amor ardeva; ma cui amasse non fu chi pensar potesse, perciò che ei, per non lasciarsi intendere, a tutte le dame molto s’inchinava e tutte riveriva secondo che il grado loro meritava. Ma sovra tutte e molto piú di tutte la bella Aelips era da lui riverita e adorata. Ella, che d’elevato ingegno ed accortissima era, s’avvide di leggero che il re per aver ben cangiato luogo non aveva mutato pensiero, e che in effetto egli era pur quello che in parole a Salberí s’era scoperto. Nondimeno nulla de l’amor di lui curando e dal casto suo proponimento punto non si smovendo, quando gli accadeva fargli onore e riverenza come a re e suo signore, a quello s’inchinava, mostrando perciò non so che nel viso che al re dava ad intendere che per acquistare e goder l’amor di lei egli indarno s’affaticava. Ma che! il re quanto piú ella schifevole si dimostrava tanto piú s’accendeva, e con piú aperte dimostrazioni ed atti amorosi, sforzavasi farle chiaro ciò che appo lei era chiarissimo. Onde la saggia e leggiadra Aelips poi che vide il male del re farsi maggiore e andar di mal in peggio, per non dargli occasione di far cosa che a lei potesse biasimo recare, non avendo pur un minimo pensieruzzo di compiacergli, deliberò levar via tutte le vie che il re ad amarla potessero indurre. Cominciò adunque di rado uscir di casa e raro a la finestra anco si lasciava vedere, e quando andar fuori le bisognava, si vestiva molto bassamente, e tutte quelle strade e luoghi fuggiva ove le pareva poter esso re incontrare. Egli, non dopo molto di questa cosa avvedutosi e di soverchia amorosa doglia sentendosi morire, fu quasi vicino a usar la forza. Ma perché chi è veramente innamorato mai non si dispera, anzi con ogni studio va sempre ricercando, come sagace cane l’orme de la fera, cosí egli quelle de la sua donna, e tanto di lei spia che pur alcun vestigio ne truova; fece egli tanto, e tanto ne investigò che poche volte Aelips di casa usciva che il quando e il luogo ove ella andava ei non sapesse; onde e tre e quattro volte giva ad incontrarla, pascendo almeno gli occhi de la suave e vaga vista di lei. Ella, come s’è detto, vestiva panni grossi, e, lasciati i soliti abbigliamenti, piú de la monaca teneva che di donna secolare. Ma giá la piaga era nel petto del re tanto a dentro profondata, che per allentare che la donna facesse, nulla di profitto al re si recava, perciò che, come veramente il nostro gentilissimo Petrarca dice,
piaga per allentar d’arco non scema.
Poi tanta era la nativa bellezza di Aelips che se bene si fosse vestita il piú ruvido panno e vile del mondo, ella sempre bellissima si vedeva. Veggendo adunque il re che tanto far non poteva che ella volesse de l’amor di lui prender pietá, piú volte dal suo fidato cameriero le fece parlare, promettendole tutto quello che ella sapesse a bocca chiedere, e facendole usar quelle amorevoli parole che in simili ambasciate si costumano dire. Ma ella, che nel casto suo proponimento era saldamente fermata, quelle medesime risposte diede al cameriero che al re, essendo a Salberí, date aveva. Puoté il cameriero tanto dire quanto volle, ed usar quanta mai eloquenza ed arte di parlar avesse Demostene o Cicerone, che niuna buona risposta cavar ne puoté. E poi che il re questa durezza, che pur troppo ruvida gli sembrava, intese, ancor che infinita doglia ne sentisse, non pertanto restò egli che tre e quattro altre fiate non tentasse l’animo de la donna; ma il tutto fu opera gettata via, con ciò sia cosa che ella seco aveva deliberato prima morire che perder la sua onestá. Ora poi che vide il re che cosa ch’egli si facesse niente di profitto gli recava, anzi di giorno in giorno andava di mal in peggio, dubitò forte che il padre di lei fosse di cotanta durezza cagione, ché creder non poteva che in cor d’una donna giovane, tanta e sí fiera rigidezza albergar potesse giá mai, se da alcuna persona d’autoritá non era nodrita e conservata con assidui fomenti. Questa credenza era al re d’infinita malinconia e di supremo dispiacer cagione, perciò che una gran giustizia a chi ama è grave offesa; onde dopo varii pensieri e discorsi che tra sé fece, deliberando riserbar la forza da sezzo, entrò in openione, essendo da la concupiscenza accecato, al padre di lei liberamente parlare e con promesse, lusinghe ed accrescimento de lo stato tanto dir e fare, che per mezzo di quello divenisse de la figliuola possessore. Ecco a che cecitá e a che enorme errore induce l’uomo, che da lui ingombrato si ritruova, questo concupiscibile e mal regolato amore, che gli fa credere esser cosa facil a persuader ad un padre che de la propria figliuola faccia mercanzia e, come se fosse una cavalcatura, quella presti a vettura. Egli ben pare che questi tali in tutto abbiano perduto l’uso de la ragione; ché se ben talvolta si ritrovano dei padri, ed assai piú sovente de le madri, che sí da poco sono e sí ribaldi che le proprie figliuole vendeno a prezzo come beccai la carne al macello, non è perciò che da noi stessi non debbiamo arrossire ogni volta che pensiamo di volergli indurre a far una sí vituperosa sceleratezza, non che sfacciatamente di simil cosa parlar loro. Ben era il re Odoardo compitamente da ceco appetito ingombrato e fuor di sé, essendo d’animo voler del caso suo parlar col conte Ricciardo. Il perché fatta cotal deliberazione e ben bene pensato e ripensato quanto devesse dire, il tutto communicò al suo fidato cameriero, domandandogli anco sovra questo il suo conseglio. Il cameriero che discreto ed avveduto giovine era, parendogli troppo fuor di ragione in simil materia voler usar l’opera del padre a corromper la figliuola, disse esser cosa mal fatta che al conte Ricciardo egli di questo fatto si scoprisse, anzi che da lui si deveva guardare piú che da persona che si fosse. E quivi allegò di molte ragioni che a dir questo il movevano, mostrando d’aver ferma openione che mai il padre a sí fatta sceleraggine non consentirebbe. Ed avvenissene pure ciò che si volesse, affermava il cameriero parergli un troppo disonesto atto che egli al conte sí fatto caso richiedesse, che forse un giorno potrebbe alcuno strabocchevol errore partorire. Ma egli cantava a’ sordi. Il re, entrato in questa fantasia e parendogli esser il suo profitto, la volle per ogni modo metter in essecuzione. Era il conte Ricciardo uomo de la persona molto prode e ne l’arte militare assai famoso, la cui prodezza e valore poco innanzi ne le guerre guerreggiate in Guienna erano stati assai chiari, ed al profitto degli inglesi conferito assai. Egli sin da fanciullo s’era col padre del re nodrito ed in corte in buona stima lungo tempo dimorato e spesso posto ad essequir onorate imprese, de le quali sempre con buona fama riuscito era, onde generalmente in tutta l’isola ciascuno l’amava e riveriva. Deliberatosi adunque il re di parlargli e raccontargli i casi suoi e chiedergli aita, gli mandò dicendo che seco aveva da conferir cose di credenza. Il conte, udita l’ambasciata, subito al re ne venne, il quale tutto solo in un camerino segreto l’attendeva. Quivi giunto e per commissione del re l’uscio fermato e primieramente fattogli la debita riverenza, stava aspettando ciò che il re comandar gli volesse. Egli, che sovra un lettucciuolo da campo se ne stava assiso, volle che il conte parimente sovra il medesimo lettuccio sedesse, e ben che egli per riverenza nol consentisse, a la fine pure per comandamento del re che cosí volle vi s’assise. Stette alquanto il re senza dir motto alcuno, e poi dopo molti sospiri che interrotti mandava fuori, con gli occhi di lagrime pregni, cosí a parlar incominciò: – Io qui, conte mio, ora v’ho fatto venire a cagione d’un mio importantissimo bisogno, che a me non meno importa che la vita propria. Né so se mai in caso alcuno fortunevole che avvenuto mi sia, che pur molti avvenuti mi sono e perigliosi assai, io mi ritrovassi in tanto fastidio e tanto noioso affanno in quanto ora mi ritrovo, che da le mie passioni cosí combattuto e vinto mi sento che, se a quelle alcun compenso non è in breve dato, elle certissimamente a la piú disperata morte che mai uomo facesse mi condurranno. Beato veramente dir si può colui che col freno de la ragione i sensi suoi governa, né da le sfrenate voglie trasportar si lascia. E chi altrimenti fa giudicio, io tengo che non uomo, ma piú tosto animale senza ragione si debbia dire, ché per questo solo siamo noi da le bestie differenti, imperò che elle tutto quello che fanno, tratte dal loro naturale istinto adoperano e mandano ad essecuzione, e seguitano in tutto l’appetito. Ma noi con la misura de la ragione possiamo e debbiamo l’azioni nostre misurare, e quello eleggere che piú dritto e conforme al giusto ci pare. E se talora del destro e vero camino erriamo, la colpa pure è nostra, che invaghiti d’un apparente e falso diletto ci lasciamo al disordinato appetito fuor del buon sentiero e sicura via cavare, andando poi precipitosamente a dar del capo in profondi abissi. Misero me, e tre volte misero, che queste cose tutte veggio e comprendo, e conosco quanto strabocchevolmente fuor di strada l’appetito mio disordinato mi tiri, e non so né posso ritrarmi e sul vero calle ritornare ed a questi folli pensieri volger le spalle! Dico «non posso» e dir deverei «non voglio»: anzi pur vorrei, ma sí innanzi mi sono da le mie passioni, dai miei appetiti e da le mie mal regolate voglie lasciato trasportare, e sí ho allentato il freno ai miei disconvenevoli disiri, che a me piú ritrarlo non vaglio. Son io come uno che, tratto da la vaghezza di seguir una fera in un folto bosco, tanto va innanzi seguitando che poi non sa trovar il camino di ritornar indietro, anzi quanto piú per dentro vi s’aggira, tanto piú vi s’intrica e vi s’imbosca e dal vero camino s’allontana. Ora, comunque la cosa si sia, questo cotanto ve n’ho io, conte mio, detto, non perché non veggia il grave error mio, ma perché conoscendo voi che io piú non sia mio né piú abbia la mia libertá in mano, di me vi caglia avendomi compassione, e pietá di me vi prenda. Ché e dir il vero, sí ne la pania degli sfrenati miei desii avviluppato mi sono, che quantunque io veggia il meglio, al peggiore nondimeno m’appiglio. Io, ahi lasso me! io che i nemici miei per mare e per terra cosí gloriosamente ho vinto; io che il nome inglese per tutta la Francia ho fatto di riverenza, d’onore e di téma degno; da un voluntaroso e disordinato appetito mio mi sento in modo legato e vinto ed al basso messo, che piú in poter mio non è di sciogliermi e rilevarmi. Questa vita mia, che piú tosto morte si può chiamare, è cosí d’ogni angustia e mortal pena colma che l’albergo di tutti i mali son io e solo recettacolo d’ogni miseria. E quale scusazione al fallo mio si può ritrovare che vaglia? Certo se pur la vi si trovasse, ella saria molto frivola, debole e vana. Una sola n’ho, che essendo ancor giovine e vedovo, mi pare che il lasciarmi nei lacci amorosi irretire non mi si disconvenga. E poi che assai sforzato mi sono le redine ed il freno de le mie voglie ripigliar in me e che ogni mio sforzo è riuscito vano, altro rimedio a le mie mordaci pene non so piú che sperimentare se non buttarmi, conte mio caro, ne le vostre braccia. Voi, la vostra mercé, al tempo di mio padre piú e piú volte in mille imprese che non meno di periglio che di gloria avevano, e poco avanti in Scozia per me ed in Francia, abondevolmente il sangue vostro avete offerto e talora anco sparso. Voi, – e chi lo sa meglio di me? – in molti perigliosi casi, d’ottimo conseglio sovvenuto m’avete e mostratomi il dritto camino per condur l’imprese al piú facil e desiato fine, né una volta solo a farmi servigio e profitto vi sète ritroso o stracco mostrato giá mai. E perché da voi dunque non debbo in tanto mio bisogno sperar tutta quella aita che uomo da uomo aspettar possa? chi sará colui che le sue parole mi neghi a favor mio spargere, se giá a mio profitto il sangue ha sparso? Io, o conte, altro soccorso da voi non voglio che di parole, le quali se faranno quel frutto che io, se vorrete voi di buon cor servirmi, aspettar posso e sperare, vosco m’offero il mio reame partire e farvene tutta quella parte che piú vi sará a grado. E se forse ciò ch’io vi chiederò vi parrá troppo duro a mandarlo ad essecuzione, considerate, vi prego, che un servigio tanto è piú gradito quanto con piú difficultá si fa, quanta piú fatica vi si dura e pena vi si mette, e quanto piú di travaglio e di sconcio piglia colui che vuol l’amico suo servire. Pensate medesimamente quello che sia aver un re in abbandono, del quale ad ogni vostra voglia possiate prevalervi e disponer il tutto come piú v’aggradirá. Voi avete quattro figliuoli maschi, né a tutti onoratamente sodisfar potete, onde io v’impegno la fede mia che ai tre ultimi, di stato tale provederò, che mai non porteranno al maggiore invidia. Voi sapete pure com’io so gratificare chi mi serve. Pertanto, se a voi di ciò che da voi desidero parrá quello che a me pare, in breve vederete il frutto che ve ne seguirá; ché se io non sono stato agli altri ingrato, a voi meno sarò, ne le cui mani metto la vita e la morte mia. – In questo parlare il re da gravi singhiozzi subito impedito e da caldissime lagrime sovrapreso, non possendo piú favellare, si tacque. Il conte, udite le parole del suo re che non mezzanamente amava, e le lagrime vedute che d’interna e gravissima passione facevano manifesta fede, né di ciò sapendo la cagione, e il tutto se non quello per cui era domandato imaginandosi, da grandissima pietá commosso, al re sí larga proferta di se stesso, dei figliuoli e d’ogni suo avere fece, che far la maggiore era impossibile. – Comandatemi pure, – diceva egli, – o signor mio, ciò che volete ch’io faccia senza rispetto veruno, ché io vi giuro ed impegno la fede mia, a voi prima che ora per omaggio ubligata, che quanto questa mia lingua potrá, quanto l’ingegno e le forze mie varranno, voi sarete da me fedele e lealmente servito. Né solamente di tai cose sono io ubligato a servirvi, ma bisognando sarò presto la vita mia metter a rischio di mille morti. – E chi sarebbe stato colui che ad un suo prencipe in simil caso risposto altrimenti avesse? e chi averebbe pensato che il re al conte Ricciardo, che conosceva esser cavaliero d’onore, devesse una cotal richiesta fare? Ma sovente nascono de le cose che sono fuor d’ogni credenza umana, come nel vero fu questa. Ora il re avendo sentito il parlar del conte, tinto il viso di mille colori ma tuttavia per amore divenuto audace, con voce perciò alquanto tremante, in questa forma gli disse: – La vostra Aelips, conte mio caro, è la sola cagione che me infinitamente contento e voi con tutta casa vostra può felice fare, perché io assai piú che la vita mia l’amo e de le sue divine bellezze sono in modo acceso che senza lei viver non posso. Pertanto, se desiderate di servirmi, se caro v’è ch’io viva, adoperatevi seco che ella degni d’amarmi ed abbia di me compassione. Né crediate che io senza estremo cordoglio e vergogna infinita a sí leale e perfetto servidore ed amico, come sempre v’ho riputato e piú che mai riputo, cosí fatto servigio richieda; ma scusimi appo voi amore, che può troppo piú che né voi né io possiamo. Egli sí fattamente con le belle maniere de la vostra Aelips m’ha concio e sí fieramente levato fuor di me e in quella l’anima e il cor mio con ogni pensiero collocati, che senza lei non è possibile che io piú viva. Assai sforzato mi sono, ed ogni ingegno adoperatovi e fatto tutto quello che a me è stato concesso, per scacciar questo amore e purgar sí pestifero veleno; ma ogni mia forza è riuscita vana e il mio sapere nulla m’ha giovato. Io che tutto il mondo vincer mi credeva, io che mille esserciti nulla stimava e in ballo mi pareva d’entrare quando ne le battaglie entrava, da una giovane donna, oimè, sono vinto e preso! Io che gloriosamente altrui ho superato, a me non so sovrastare! Non vi rammenta egli quante fiate voi e il duca di Lancastro detto m’avete, e talvolta anco garrito, che io troppo m’affaticava e che il tanto andar a la caccia di cervi, cinghiari ed altre fere mi potrebbe recar gran danno? Credete voi che io quelle fatiche, quei digiuni, quelle vigilie, e lo star al vento e la pioggia ed a l’algente verno a la neve ed al ghiaccio, facessi per mio piacere e che gran diletto sentissi tutto il dí correre come forsennato in su e in giú per valloni, colli e monti, e varcar questa e quell’acqua, senza prender riposo veruno? Io voleva, conte mio, col continovo cavalcare, con l’andar talvolta a piedi, con l’indefesso essercizio e col sofferir tanti disagi e strazii quanti tutto il dí sopportava, menando cosí faticosa e dura vita, domare e macerar questo mio fiero appetito, a fine che se io non spezzava o smagliava le fortissime catene di cosí fervente ed ostinato amore, alquanto pure le rallentasse, e se pace non mi si dava, ritrovassi almeno un poco di tregua. Ma a me pare che il tutto sia buttato via e che nulla mi giovi, anzi che questo mio vivace amore negli affanni cresca e divenga d’ora in ora maggiore. Io tanto ho di bene, io tanto mi riposo e vivo quanto la veggio o di lei parlo o penso. E insomma io sono ridutto a tale, poi che ella né mie ambasciate vuol piú udire né risponder a mie lettere, che forza mi sará o che io ne mora, o con vergogna o danno di tutta casa nostra a le mie cosí penaci, fiere e tormentose passioni truovi rimedio. Vorrei pure che il morire si tardasse piú che si potesse e fosse la sezzaia cosa che a far s’avesse. Non vi sia adunque grave, conte mio, prender de la vita mia quella cura di cui vedete che io ho bisogno. Se ville, terre, castella, ufficii, tesoro, beneficii di chiesa o altro volete che in mio poter sia, eccovi la carta bianca di mia mano sottoscritta ed affermata del mio suggello. Andate e da uno dei miei segretarii fate scriverle su ciò che voi volete, ché il tutto non stará se non bene. – E in questo il foglio de la carta, che innanzi la venuta del conte apparecchiato aveva, gli pose in mano, e tutto da la bocca d’esso conte, con timido e palpitante core la risposta attendendo, pendente se ne stava. Il conte, intesa l’incivile e disonesta domanda del suo signore, tutto in viso arrossito, la carta gettò sovra il letto. Poi d’affanno, di meraviglia, di stupore ed anco d’onesto sdegno pieno, non sapendo a parlare snodar la lingua, a la fine in sé fermatosi, a l’aspettante ed appassionato re in cotal guisa rispose: – Male, o sire, nel termine in cui ora mi truovo, so io che dire, veggendomi a dui strettissimi e perigliosi passi ridutto, che pensando a far qualunque de l’una de le due cose che per l’animo mi vanno, non mi può essere se non di grandissimo periglio cagione. Legato a voi mi sono per vinculo de la mia fede, non esser cosa al mondo, quantunque dura e difficil sia, che io per vostro servigio e per salvezza vostra non faccia; il che mi sono risoluto e intendo di fare, perciò che prima vorrei morire che de la mia parola mancar giá mai. Io a mia figliuola quanto richiesto m’avete tanto discoprirò, con quelle maniere che da voi ho inteso. Ben vi ricordo che pregar ne la posso, ma non sforzarla: basta che per bocca mia ella intenderá tutto l’animo vostro. Ma entrando in un altro ragionamento, vi dico che non poco di voi mi meraviglio e mi doglio. Siami lecito, signor mio, liberamente piú tosto con voi sfogar l’aspro mio cordoglio che con altri aver cagione di querelarmi. Dogliomi senza fine che voi nel sangue mio, che in ogni impresa a vostro servigio, onore e beneficio mai non fu di sé scarso, abbiate pensato tal villania commettere, ove da voi meritevol ed onesto guiderdone si deveva attendere. Ditemi: è questo quel premio che io e i miei figliuoli de la nostra servitú aspettar debbiamo? Almeno se del vostro dar non ci volete, se farci piú grandi non vi piace, non ricercate di pigliarne l’onore ed in sempiterno vituperarci. E che devevamo noi peggio da un capitalissimo nostro nemico aspettare? Voi, sire, voi a mia figliuola l’onore, a me ogni contentezza ed ai miei figliuoli l’ardire di lasciarsi in publico vedere in un tratto rubate, e a tutta casa mia ogni sua gloria levar volete? voi tanto disonesta macchia ne la limpidezza e chiarezza del mio sangue di porre v’apparecchiate? voi cosí grand’errore di commetter vi deliberate, e volete che io de la mia total rovina il ministro sia e come sfacciato ruffiano meni mia figliuola al chiazzo? Pensate, sire, pensate che a voi appartiene, quando altri cercasse vituperarmi, di porvi in mia diffesa ed ogni aita e favore prestarmi. E se voi m’offenderete, ove potrò io per soccorso ricorrere? se la mano che sanar mi deverebbe è quella che m’impiaga, chi fia che compenso mi doni e la medicina su vi ponga? Perciò se di voi mi doglio e se di dolermi e di mandar le pietose voci sino al cielo giusta cagione mi date, giudicatelo voi, mettendo alquanto da parte il concupiscibil appetito e risguardando in viso la ragione, ché altro giudice che ’l vostro invitto e valoroso animo non ricerco. Da l’altro canto poi ho io grandissima meraviglia de’ casi vostri, pensando a le cose da voi dette, e tanto ne l’ho maggiore quanto che un altro forse non averebbe, perché mi par meglio da la vostra fanciullezza insino a questi dí aver i vostri costumi conosciuti che alcun altro, e non essendomi paruto giá mai che voi siate stato a’ piaceri amorosi soggetto, ma di continovo ne l’arme ed altri essercizii occupato, che ora siate d’Amore divenuto prigioniero, tanto nuovo e cosí strano mi pare che io non so quello che me ne dica. E se a me di ciò cadesse il ripigliarvene, io vi direi cose che vi farebbero uscir di voi; ma io lascio che il vostro pensiero ve le ponga innanzi. Sovvengavi, sire, ciò che essendo ancor giovinetto voi feste patir a Rugiero di Montemer, che la reina Isabella vostra madre e sorella di Carlo bello re di Francia governava; che non contento de la crudelissima morte che a lui fu data, essa vostra madre anco feste miseramente in prigione morire, e Dio sa se le sospizioni che di loro s’ebbero furono con fondamento. Perdonatemi, sire, se io tanto innanzi parlo, e considerate meglio i casi vostri. Non pensate voi che voi sète ancor armato ed in grandissime cure e sollecitudini involto, per l’apparecchio grande che fa il re di Francia per mare e per terra per vedere se egli potrá rendervi il contracambio de la sempre memoranda vettoria che de le sue genti, in mare e in Francia combattendo, Iddio v’ha donato? Ed ora che sète di giorno in giorno per passar il mare e prevenendo il nemico vostro assicurar le terre vostre de l’Aquitania, avete al lusinghevole amore dato luogo? voi a le fiamme nocive de l’amore avete aperto il petto e permettete che l’ossa e le midolle a poco a poco vi consumino? Ma dove è, signor mio, l’altezza del vostro sí chiaro, sottile e vertuoso ingegno? ov’è la cortesia, la magnanimitá, con tante altre vostre doti che, aggiunte al valor vostro, ai nemici formidabile e spaventevole, agli amici amabile e ai soggetti riguardevole vi rendevano? Ciò poi che mi diceste ultimamente di voler fare se mia figliuola non vi compiace, non dirò io giá mai che sia un atto di valoroso e vero re, ma ben potrò liberamente affermare esser viltá d’un pusillanimo e libidinoso uomo e atto di pessimo e crudelissimo tiranno. Ahi, sire, togliavi Dio simil pensier di capo, perciò che come voi cominciarete per vano appetito di libidine sforzar le donne dei sudditi vostri, questa isola non sará piú regno, ma si potrá veritevolmente chiamare un fiero bosco di ladroni e assassini; ché dove non è giustizia, che cosa bella o buona si potrá dire che ci sia? Se voi potete con lusinghe, con promesse e con doni persuader a mia figliuola che pieghevole ai vostri appetiti si renda, io di lei mi potrò ben dolere come di giovine poco continente e non ricordevole de l’onestá dei suoi maggiori; ma di voi non saperò altro che dire se non che fatto avete come communemente gli uomini fanno, i quali tante donne cercano d’aver al piacer loro quante ponno, ond’ella resterá con vergogna, che per l’ordinario a simil impudiche donne rimane. Ora che poi mi dichiate che una donna abbia tanto imperio sovra voi quanto mi dite che Aelips v’ha, io creder non lo posso; ma son parole che ogni amante costuma dire per mostrar che ferventemente ama. Ma pensate un poco come questo sia convenevole: egli è pur fuor d’ogni convenevolezza e ragione che chi deve esser suddito sia superiore, ed ubidisca chi deve comandare. Questa, sire, è la costanza, questa è la fortezza, questo è il valor de l’animo e la sicurezza che i popoli d’Inghilterra da voi aspettar ponno, e viver con la mente riposata d’aver un valoroso e magnanimo re? Io dubito assai che la prudenza, la giustizia, la liberalitá, l’umana e sí cortese cortesia, l’antivedere i futuri casi e provedergli, e quella indefessa e continova sollecitudine, con le quali quando eravamo nel paese de la Piccardia l’essercito vostro con tanta concordia governavate, che essendo di varie e diverse genti raunato, mai non vi fu una minima discordia, non siano piú in voi; né vi siano piú quelle astuzie militari, che tanto onore giá vi fecero e tanto profitto quanto si sa vi recarono. E che del tutto il peggio mi pare, è che voi conoscete l’error vostro e di bocca propria lo confessate, e nondimeno emendarlo non volete, anzi al fallo e peccato che è in voi andate ricercando di por un velo ed una apparenza d’onestá, e ritrovarla non sapete. Io, sire, amorevolmente vi ricordo che grandissima gloria acquistaste vincendo il re Filippo in mare, e tanta e sí numerosa sua armata, che quattrocento vele aveva, rompendo e dissipando, e mettendo l’assedio sugli occhi suoi a Tornai, cittá sí famosa, i cui popoli furono giá di tanta stima e chiamati anticamente Nervii. Né minor gloria vi fu vincendolo a Creci presso di Abenilla, ove dal canto di Francia morí il re di Boemia venuto in soccorso di Filippo, e molti baroni che lungo sarebbe a nome per nome raccontare vi morirono. Assai anco vi s’accrebbe d’onore per la presa di Cales e d’infinite altre imprese che fatte avete. Ma io vi dico, sire, che molto maggiore e piú glorioso trionfo conseguirete vincendo voi medesimo, perciò che questa è la vera vittoria e che piú d’onore apporta. Poco valse al magno Alessandro aver vinto tante provincie e debellati cotanti esserciti, e poi lasciarsi vincere e soggiogare da le proprie sue passioni; il che minore assai di Filippo suo padre lo fece, che a par del figliuolo tanti regni acquistati non aveva. Sí che, signor mio, vincete questo folle appetito e non vogliate con cosí disonesto atto ciò che gloriosamente acquistato avete perdere, e sí brutta macchia porre ne la limpidezza de la gloria vostra. Non crediate giá che io tanto ve ne dica perché non voglia quanto promesso v’ho d’essequire, ché intendo pienamente di farlo; ma de l’onor vostro assai piú geloso essendo divenuto che voi non sète né del vostro né del mio, quello vi avviso e vi ricordo che mi par esser profittevole ed onore di voi. E se a voi stesso di voi non cale, a cui per Dio ne deverá calere? chi prenderá cura dei casi, vostri se voi di quelli e di voi medesimo cura non pigliate? Ma s’ingegno averete come io so che avete, da voi si penserá che un breve, disonesto e fuggitivo piacere con una donna per forza preso, può molto poco di gioia recare, che forse infinito danno apportarebbe. Da voi per me e per i miei figliuoli né robe né stato né altro util voglio se non quanto la mia e loro servitú aver meritevolmente deve. Per questo tenetevi lo scritto vostro e datelo ad altri che, pure che abbiano danari e gradi, non curano come si vengano. Io, per quanto potrò, non voglio mai che né a me né ai miei figliuoli né ai miei discendenti sia gettata in occhio cosa alcuna che possa con ragione farci arrossire e mutar in viso di colore, ché ben sapete come si scherniscono e si mostrano a dito alcuni che da’ regi passati, per disonesti ufficii che fatto hanno, sono divenuti ricchi e grandi, che prima erano di bassa condizione ed ignobilissimi. Sovvengavi, sire, che non è molto che voi ad uno di costoro in faccia propria, essendo con l’essercito contra gli scocesi, rimproveraste che per esser stato ruffiano di vostro padre era di barbiero stato fatto conte, e che lo fareste ancora, se non cangiava vezzi, tornar a la barberia al suo antico mestiero. E con questo, sire, sará il fine del mio lungo parlare, chiedendovi umilmente perdono se cosa ho detta che non vi piaccia, e supplicandovi il tutto a pigliar con quella affezione che io ho parlato. Cosí con vostro congedo me ne vado a casa a mia figliuola, e farò puntalmente quanto ricercato m’avete. – E non aspettando dal re altra risposta, del camerino uscito, si partí, assai e varie cose sovra i ragionamenti fatti pensando. Punsero sí amaramente le ragioni del conte l’appassionato ed infermo animo del re, che quasi fuor di se stesso non sapeva che dirsi; e tanto piú il punsero e trafissero quanto che tanto ceco non era, che egli non vedesse che diceva la veritá e che da affezionato, vero e fedelissimo servidore parlato gli aveva. Onde tra sé cominciò molto minutamente a considerar tutto il ragionamento fatto, e di modo cose assai dette lo premevano, che si trovò troppo mal contento che in simigliante caso fosse stato oso di ricercar per mezzo a conseguir il suo desiderio il padre de la sua innamorata, parendogli tuttavia che la sua richiesta fosse vituperosa e disonesta. Per questo quasi che si deliberò troncar questa pratica amorosa e in tutto da quella sciogliersi. Ma come pensava a la vaga bellezza e a quei bei modi e maniere d’Aelips, in un tratto si cangiava d’openione e tra sé diceva: – Ahi, lasso me! io mi conosco bene esser sciocco e mal avventuroso, se penso poter vivere e non amar costei. Io con tutte le forze mie e quelle del mio regno appresso, sarò bastante a lasciarla e levarmela del core? io presumo cosí di leggero da questo indissolubil nodo disciogliermi e da sí tenace e fervente amore districarmi? cotesto come sará egli possibile giá mai? – chi sará che faccia ch’io non tenga eternamente Aelips per mia signora e mia soprana donna? Certo, che io mi creda, nessuno. Ella nacque per esser colei a cui devessi sempre star soggetto e lei sola e non altra amare. E se io conosco che altro far non potrei ancor ch’io volessi, e che quando io potessi non vorrei, a che piú lambiccarmi il cervello? Io amo Aelips ed amerò sempre, avvengane mò ciò che si voglia. Il conte è suo padre ed ha parlato da padre, ed io non deveva seco scoprirmi. E che poi sará? Io sono il re, né gran cosa mi pare ch’io ami la figliuola d’un mio vassallo, né sono il primo che questo abbia fatto, né anco sarò l’ultimo. – Da l’altra parte con l’intepidirsi alquanto cosí fervente pensiero, entrava avanti alcun raggio di ragione che gli faceva veder il male e scandalo che di questo amore riuscir poteva, ed in parte rintuzzava l’animo sí acuto e disposto d’amare, di modo che variamente tra se stesso combattendo, ed ora pieno di speranza trovandosi e poi talora in tutto di speme privo, e d’uno in altro pensiero travarcando, e non parendogli possibile l’amor de la donna che sí ferventemente amava ammorzar giá mai, deliberò in ultimo attender ciò che il conte con la figliuola operasse. Indi uscito del camerino, quantunque tutto mesto e di pensieri noiosi aggravato e pieno d’una mala contentezza fosse, si sforzò perciò tuttavia con una lieta faccia nasconder la passione che di dentro lo rodeva. Il conte, come fu dal re partito, al suo albergo diritto se n’andò, pensando e ripensando quanto il re gli aveva communicato. Essendo giunto a casa ed in camera entrato, poi che cose assai ebbe tra sé discorse, sapendo la figliuola esser in casa e deliberato parlar con quella a lungo, la si fe’ domandare. Ella di subito, senza far dimora, al padre se ne venne. Volle alora il conte che la figliuola a lui dirimpetto sedesse, ed in questa guisa a ragionar seco cominciò: – Io porto ferma openione, figliuola mia carissima, che non poco de le cose che oggi da me sei per udire, che ora ti dirò, ti meraviglierai, e tanto piú te ne meraviglierai e resterai d’estrema ammirazione piena, quanto che ragionevolmente ti parrá che a me punto non si convenisse far teco simil ufficio. Ma perché sempre si deve di dui mali elegger il minore, io non dubito che tu come saggia, ché sin da la tua fanciullezza tale t’ho conosciuta, farai l’elezione che io medesimamente ho fatta. Io, figliuola, da che mi parve aver del bene e del male alcuna conoscenza essendo ancor garzone, e fin al presente, sempre piú stima ho fatto de l’onore che de la vita, perciò che secondo l’openion mia, quale ella si sia, assai minor male è morir innocente senza macchia che viver disonoratamente e diventar la favola del volgo. Tu sai che cosa è a l’altrui imperio esser soggetto, ove bisogna molte fiate far il contrario di quanto s’ha ne l’animo, e attese le qualitá dei tempi, secondo le voglie dei signori nuovo abito vestirsi. Ora ciò che io ti vo’ dire è che monsignor lo re oggi m’ha fatto chiamare, e quando dinanzi a lui stato sono, assai con caldissime preghiere m’ha pregato ed astretto che io in una cosa, che da me era per domandare e che la vita a lui importava, lo volessi servire, proferendomi tutto quello che io saperei a bocca chiedere che in suo poter fosse. Io, che nasciuto vassallo e servidore a questa corona sono, largamente la mia pura fede gli impegnai che tutto ciò che mi comandasse con ogni mio potere ad effetto manderei. Egli udendo la mia libera promessa, dopo molte parole accompagnate da sospiri e lagrime, a me si scoperse che sí fieramente e di tal modo è di te e de le tue bellezze invaghito, che senza il tuo amore egli a patto nessuno viver non puote. E chi, per Dio, si averebbe imaginato giá mai che di simil faccenda il re parlato m’avesse? – Dopo questo il conte la lunga istoria dei ragionamenti tra il re e lui passati a parola per parola interamente disse, e soggiunse: – Tu vedi, figliuola, a che termine il mio largo e semplice promettere e la sfrenata voglia del re m’hanno ridutto. Al re ho detto che in mio potere è di pregarti, ma che sforzar non ti posso. Onde ti prego, e vaglia il prego mille, che tu voglia al re nostro signor compiacere. Fa stima, figliuola mia, di far un dono a tuo padre de la tua chiara onestá e pudicizia. La cosa in modo si fará che a tutti si terrá celata, oltra che sarai cagione che i tuoi fratelli diverranno i primi baroni di questa isola. Il tutto, figliuola, t’ho voluto dire per non mancar al re de la mia parola. Tu sei saggia, e se penserai a quanto t’ho detto, non dubito punto che farai elezione a te convenevole. – Cosí parlato, il conte si tacque. La giovane, mentre il padre le favellava, s’era di tal guisa in viso di vergogna arrossita e d’onestissimo sdegno in modo accesa, che chi veduta alora l’avesse l’averebbe senza parangone piú vaga e piú bella assai del solito giudicata. I suoi dui begli occhi parevano proprio due fulgentissime stelle, che scintillando i suoi ardenti raggi vibrassero. Le guance rassimigliavano due incarnate rose còlte d’aprile in quell’ora che il sole, sferzando fuor del Gange i suoi corsieri, comincia a poco a poco a rasciugar le rugiadose erbette e tutti i fiori e rose, dal notturno umore chiuse, aprire. E l’eburneo collo, le marmoree spalle ed il petto alabastrino, d’onesto vermiglio colore con natia e non fucata bellezza cosparsi, tale la mostravano quale fingono i poeti che Venere in Ida tra l’altre due dee al troiano pastore apparve, perché piú bella assai de l’usato si dimostrò a ciò che piú leggermente le compagne di bellezza e di leggiadria sormontasse. Or poi che Aelips s’avvide il padre e suoi parlari aver dato fine, che giá s’era messo in silenzio, tutta sdegnosetta, la lingua dolcemente snodando e tra perle orientali e finissimi rubini le parole rompendo, in questa maniera la sua risposta cominciò, e disse: – Quanto di voi, padre, mi meravigli, avendo udito dirvi cosa che mai d’udir da voi non aspettava, se tutte le parti del corpo mio fossero lingue e tutte le lingue d’acciaio e la voce adamantina e indefessa, non credo io che bastassero ad esprimer la minima particella de la mia ammirazione. E invero ho io da meravigliarmi e dolermi insiememente di voi sempre mai, veggendo il poco conto che de l’onor mio tenete, ché quantunque a me possiate come a figliuola e serva vostra comandare, devevate perciò sapere e ridurvi a memoria che mai atto in me non vedeste né parola o motto udiste, che a dirmi cosa meno che onesta vi devesse far baldanzoso. Ma ditemi: non vedete voi che mi pregate e quasi essortando mi suadete a far cosa, la quale se io avessi pure un minimo pensiero di essequire, da voi, se voi mi foste quell’onorato padre che esser devete, senza compassione alcuna esser svenata meritarei? Io, o padre, fin che era a Salberí conobbi che il re d’esser di me innamorato dimostrava, ed il medesimo in questa terra ho conosciuto, perciò che con vagheggiamenti tutto il giorno, con ambasciate e lettere piú volte m’ha tentata, non mancando per via di larghissime promesse volermi corrompere. Ma il tutto niente gli ha giovato, perché io, sempre che meco ha parlato o scrittomi o mandatomi messi, ho detto essermi piú cara la mia onestá che la vita. A voi non volli io dir cosa alcuna circa questo affare, e meno a mia madre e miei fratelli, per non darvi occasione d’incrudelir contra il nostro re, sapendo esser, per simili accidenti, seguiti di molti scandali e de le cittá e dei regni distrutti. Ma lodato Iddio, che non era bisogno che io dubitassi di porvi l’arme in mano, poi che a cosí disonesto ufficio vi veggio cotanto pronto e sollecito! Tacqui dunque per men male, ed anco mi ritenni di non manifestar cosa alcuna, sperando pure che, veduta il re la mia incorruttibil e ferma onestá, devesse da cosí mal incominciata impresa levarsi e lasciare che io col mio casto proponimento da mia pari me ne vivessi. Per questo se ai giorni passati m’avete rade volte uscir di casa veduta ed avete visto come vilmente vestita mi sono, ad altro fine non ho fatto questo se non per fuggir quanto m’era possibile d’incontrarmi nel re, e che veggendo poi quanto io abbiettamente vestiva, pensasse che i miei pensieri in altro erano che in cose d’amore. Or perché egli è ostinato ed io mai non sono per far volontariamente cosa che gli piaccia che disonesta sia, a ciò che sforzatamente, – che Dio non lo permetta! – di me non faccia il suo volere, io seguirò il vostro conseglio e di dui mali il minore eleggerò, me stessa prima occidendo che soffrir mai che sí gran macchia e tal vituperio d’onor mio sia veduto e per le strade sia come putta del re mostrata a dito. Mille volte ho sentito dire, e voi pur mò me lo diceste, che vie piú de la vita deve l’onore esser stimato, e certo la vita senza onore è come una vituperosa ed infame morte. Tolga Iddio che io mai divenga bagascia di qualunque uomo al mondo sia, e che cosa in segreto faccia che, in publico poi manifestata, sia cagione di farmi cangiar di colore. Ditemi, padre: che onore sarebbe il vostro se io cosa meno che onesta operassi, quando per la cittá o a corte ve n’andate, che ovunque vi occorresse passare, udiste dal volgo dire: – Ecco il padre de la tale; ecco chi, per aver venduto la figliuola, di grado e ricchezze è cresciuto? – Credereste voi forse che cosí gran misfatto devesse restar occulto? E se gli uomini per téma non ardissero aprir la bocca, chi terrebbe lor le mani che de le cedule non scrivessero e per le strade non spargessero ed attaccassero per tutti i cantoni de la cittá? Quando il re, per quello ch’io n’ho sentito dire, fece tagliar la testa a suo zio il milorto Cain e poco dopo a Rogier da Montemer, e morir la madre in prigione, furono appiccati bollettini per le strade in vituperio d’esso re, ed ancor che egli fieramente se n’adirasse, ed alcuni facesse decapitare i quali sospettava esser quelli che gli scritti avessero fatto, non restavano per tutto questo molti che avevano voglia di dir mal di lui, che de l’altre scritture in diverse vie non seminassero. Pensate mò che di voi e di me si direbbero le piú vituperose cose del mondo. Ma poniamo per caso che la cosa segreta rimanesse: non sapete voi che tutti gli uomini, e massimamente i signori, oggi una e dimane un’altra, secondo che l’appetito loro viene, ne vogliano? E lasciamo star l’offesa di Dio, che è pure la prima che innanzi agli occhi aver si deve, se creature razionali esser vogliamo e non bestie: che so io, poi che il re sará di me sazio o che gli sia passato cotesto suo libidinoso appetito, che molto leggermente passar suole ed agghiacciarsi in tutti gli uomini per l’ordinario come hanno ottenuto l’intento loro, che egli tale non stimi che io sia quale voi fatta m’averete, cioè femina di chiazzo? Assicuratami poi e fattami certa che egli devesse lunga ed ardentissimamente amarmi, non debbo io pensare che questa pratica debbia aver una volta fine, secondo che sotto il lunar globo non ci è cosa che non abbia a finirsi? Sí che aggiratela pure su qual lato volete, ché io non ci veggio nulla di buono. Ben ci comprendo che io restarei il rimanente de la mia vita col viso fregiato d’altro che di perle e gemme, e mai piú non ardirei lasciarmi veder in publico. A quello poi che diceste avergli impegnata la fede vostra, vi dico che quando voi la parola vostra gli ubligaste, molto male fu da voi in simil cosa la podestá del padre sovra i figliuoli considerata, non essendo eglino ubligati in cose che siano contra Dio ad ubidir loro, oltra che cosí disoneste promesse ed incestuose non sono valevoli, e de le cose malamente promesse la pattuita fede si deve rompere. Io confesso che figliuola vi sono ed ubligata, ogni volta che mi comandarete, ad ubidirvi, ma in casi leciti ed onesti. E vi ricordo anco, ben che meglio di me lo sappiate, che voi ed io e tutti gli altri che furono, sono e saranno, abbiamo un padre e signore, per quello che sovente fiate a valenti predicatori ed autorevoli sovra i pergami ne le chiese ho sentito affermare, a cui piú siamo tenuti ad ubidire che ai padri carnali. Oltra di questo vi ricordo che non lece a qualunque persona, sia chi si voglia, far leggi né editti che contradicano a le ordinazioni e leggi divine. Il perché essendo voi in questa cosa cosí vituperosa, che mi essortate a fare, in tutto apertissimamente ribello di Dio, perché volete ch’io vi ubidisca e piú tosto non vi sia ribella e nemica mortale? Fate adunque altri pensieri, e se volete ch’io per padre mio vi tenga ed onori come i buon padri onorar si deveno, non siate per l’avvenir ardito mai piú di simil viltá ricercarmi né farmene un solo motto, perciò che io, a la croce di Dio, in presenza di tutto ’l mondo ve ne farò quell’onore che meritate. Ma non permetta Iddio che piú a questo si venga. O quanto era meglio che voi aveste al re promesso e giurato piú tosto di vostra mano con un coltello svenarmi che lasciarmi trascorrere in cosí abominevol fallo giá mai! Questo stato vi fòra di piú onore ed assai piú agevole a fare, e senza dubio il re ed io ve ne averemmo da piú tenuto e stimato, e il mondo, che la cagione intesa de la mia morte avesse, eternamente con verissime lodi vi averia levato al cielo. Sí che, per ultimar questi parlari che senza mio grandissimo sdegno esser non ponno e la cui rimembranza sempre mi sará di fierissimo cordoglio cagione, questa è l’ultima e ferma mia risoluzione con maturo trascorso fatta, la quale terrete per verissima come il vangelo: che io piú presta sono a lasciarmi uccidere e patir ogni supplizio e qual si possa pensar tormento, che mai consentire a cosa disonesta. E se per forza il re vorrá di me prendersi amorosamente trastullo, io farò bene che le sue e tutte l’altrui forze vane saranno, tenendo sempre ne la memoria che un bel morire tutta la passata vita onora. – Conobbe il padre per la saggia e magnanima risposta de la figliuola il valore e la grandezza de l’animo che in lei erano, e tra sé le diede molte lodi e la benedí, assai da piú tenendola che prima non faceva. E parendogli d’aver parlato piú largamente ed assai piú che non era convenevole ad un padre di parlar a la figliuola altro per alora dirle non volle; ma si levò da sedere e quella lasciò andar a far suoi bisogni. Pensato poi e pur assai tra sé considerato ciò che al re risponder devesse, a corte se n’andò e a lui disse: – Sire, non volendo io mancar di quanto v’ho promesso, vi giuro per quella fede che a Dio e a voi debbo, che io, giunto a casa, domandai Aelips in camera mia e le esposi la volontá vostra, essortandola a disporsi a compiacervi. Ma ella risolutissimamente, dopo molti ragionamenti fatti, m’ha risposto che prima è deliberata morire che mai cosa alcuna disonesta commettere. Né altro n’ho io potuto cavare. Sapete che vi dissi che pregar la poteva, ma non giá sforzarla; onde avendo essequito ciò che da voi imposto mi fu ed io m’ubligai di fare, come veramente ho fatto, con vostra buona grazia me n’anderò a far alcune mie bisogne a le mie castella. – Il re, concedendogli che se n’andasse, restò tutto fuor di sé, varie cose ne la mente ravvolgendo. Partí il conte di corte e il giorno seguente con i figliuoli suoi maschi se n’andò al suo contado, lasciando in Londra con parte de la famiglia la moglie e la figliuola. Egli si pensò senza venir in disgrazia del re, se possibil era, di questa pratica svilupparsi. La figliuola via condurre non volle per non sdegnar piú il re di quello che era, ed anco a ciò che egli conoscesse che quella lasciava a sua discrezione, tenendo perciò per fermo che da lui non se le devesse usar violenza alcuna. Oltra questo, molto si confidava ne l’onestá e grandezza d’animo de la figliuola, la quale egli pensava che sí bene si saperebbe schermire, che con onore di tanto travaglio uscirebbe. Il re da l’altra parte non prima seppe il conte esser di Londra uscito ed aver Aelips lasciata, che tutto il fatto com’era s’imaginò; del che in tanta disperazione di questo suo amor venne, che ne fu per impazzire. Tutte le notti, ai giorni uguali, senza mai prender verun riposo conduceva; niente o poco mangiava, mai non rideva, sempre sospirava, e quanto gli era possibile, a la compagnia se stesso involando e solo in camera chiudendosi, ad altro mai non aveva l’animo che a la fierissima rigidezza de la sua donna, nomando la salda e costante onestá, rigidezza. Cosí fatta vita vivendo, cominciò a dar l’udienze per interprete, che prima tre volte la settimana publicamente a’ suoi sudditi soleva dare. E certo una de le lodevoli parti che abbia ogni vero prencipe, è esser facile ad udir le querele e supplicazioni dei suoi e intender ciò che si fa nel suo dominio. Né si deve fidare cosí assolutamente nei suoi ministri, perciò che spesse fiate commettono molti errori e di grandissime ingiustizie, che se il signor fosse curioso di intender di che maniera lo stato suo si governa e che azioni son quelle dei rettori, essi governarebbero molto meglio e si guarderiano di commetter cosa che potesse esser ripresa. Il re adunque cascò in questo errore di non dar udienza quasi a persona. L’armeggiare, giostrare, bagordare ed andar a caccia, cose che gli erano sí grate, piú non gli piacevano, e massimamente la caccia nel cui essercizio tanto soleva diportarsi; né d’altri giuochi piú prendeva diletto. Egli aveva sopra il Tamigi, fiume di Londra, un suo bellissimo giardino con un agiato e lieto palazzo che per andarvi a diporto aveva fabricato. E perché andando da la corte al detto luogo, o vi s’andasse per terra o per acqua si navigasse, conveniva passar per scontro a la casa del conte Ricciardo, il re ogni dí, ora per il fiume ed ora per la contrada, dinanzi a quella casa, ove sapeva dimorare Aelips, faceva il suo camino, bramando di veder quella che sempre ne la mente assisa aveva. Avveniva perciò di rado che ella si vedesse, la quale se era a le finestre verso la strada o suso una loggetta che dava la vista sovra il Tamigi, come s’accorgeva che il re venisse, subito a dentro si nascondeva; di che il re infinitamente s’attristava. E pur gli giovava aver le mura vedute ove la sua crudel e fiera donna stava. Ma perché natura è dei fervidi amanti, quanto piú loro è contesa la vista de la donna amata, quella tanto piú desiderano e bramano vedere, il re che piú desiava mirar Aelips che insignorirsi di Francia, quanto piú si vedeva il vagheggiarla interdetto, tanto piú s’affaticava ed ogni modo tentava che gli aggradisse per vederla. Per questo cominciò senza rispetto non solamente passarle dinanzi a la casa tre e quattro fiate il dí, e piú e meno secondo che Amore il guidava, ma assai sovente fuor d’ogni proposito si metteva a passeggiar dinanzi a la casa, di modo che in breve a ciascuno fu chiaro l’amor del re, e quello, che a tutti celato era, a tutto il popolo scoperse. Indi divolgatosi poi tra’ piccioli e grandi questo innamoramento e da tutti intesa la durezza e crudeltá de la donna, che quasi piú non si lasciava vedere né a logge né a finestre, generalmente ciascuno la donna biasimava, e chi d’una e chi d’un’altra cosa la incolpava, volendo tutti che ella al re in preda si fosse data. A tutti per lo piú piace andar a le feste degli altri e star sui canti e balli, ma nessuno non vorrebbe cotesti bagordi in casa. Tutti vorrebbero che i lor signori stessero allegri e su l’amorosa vita, perciò che pare come il signore è innamorato, che tutti i sudditi suoi stiano in gioia e in festa, ma a nessuno aggradisce che in casa sua con le sue donne si treschi. Cosí averebbero voluto tutti gli inglesi che il re avesse ottenuto l’intento suo e si fosse dato buon tempo; ma a nessuno sarebbe stato caro che il re di moglie, figliuola, sorella od altra sua donna si fosse invaghito. Ora perseverando il re in far vita cosí acerba e travagliata, e meno per l’invitta ed inespugnabile pudicizia di Aelips sperando di giorno in giorno, divenne sí malinconico che piú a selvaggia e boscareccia fera assembrava che ad uomo. Pertanto non solo la cittá di Londra ma tutta l’isola, che giá di quest’amore era fatta consapevole, la costanza e casto proponimento de la donna aborriva e biasimava, essendo il volgo sempre piú pronto a vituperare il bene che il male. Vi furono poi alcuni di corte che con messi ed ambasciate in favore del re la donna tentarono, parte lusingando e parte minacciando. Altri a la madre di lei a profitto del re caldamente parlarono, mostrandole il bene che ne seguirebbe se Aelips a far la voglia del re si disponeva, e per lo contrario quanto e qual danno soprastava se ella in tanta durezza si manteneva. Cosí chi ad un modo e chi ad un altro, s’ingegnava d’indur la madre a pregar la figliuola che il voler del re facesse, e la figliuola che, deposta tanta durezza, pieghevole si rendesse e non cosí schiva e cotanto a tal amore. Aelips, per cosa che detta o mostrata le fosse, dal suo proponimento giá mai non si smosse né piegò. E dubitando ella che forse il re un giorno non le facesse violenza, un acuto e tagliente coltello ebbe modo d’avere, il quale sotto i panni a cintola si mise, con animo, veggendosi far forza, prima che esser violata, ancider se stessa. La madre, che che se ne fosse cagione, stava cosí tra due, perciò che aperte l’orecchie a le larghe promesse ed offerte che da parte del re l’erano fatte, l’ambizione la combatteva, mostrandole se la figliuola diveniva del re amica, che ella sarebbe la prima donna e baronessa de l’isola. Il perché entrando piú volte con la figliuola in ragionamento e certe sue favole dicendo, si sforzava indurla che a tanti preghi del re s’arrendesse. Ma sempre ritrovò quella d’un medesimo tenore, piú salda assai che un immobile e durissimo scoglio quando da le gonfiate e minacciose onde marine è combattuto. A la fine intendendo il re tutte le prove esser indarno fatte e che, se altra via non pigliava, egli era piú lontano da mercato che mai, non sapeva ove dar del capo, non gli parendo usar la forza, ancor che di rapirla violentemente molte fiate voglia ne gli venisse. Era questo suo amor sí chiaro ed appo tutti divolgato che per la corte a Londra d’altro non si parlava, di maniera che egli era venuto a tale che con qualunque persona ragionava, altro non faceva che cicalare de la durezza de la sua donna, pregando ciascuno che di conseglio ed aita gli sovvenisse. Io son sforzato far un poco di digressione e dir due parole che ora mi sovvengono. Se quei cortegiani che col re parlavano fossero stati veri uomini di corte, sarebbonsi sforzati di consegliar il lor re che da sí folle e vano amore si fosse ritirato, e con sí utile conseglio insiememente l’averebbero aitato. Furono giá i cortegiani leali e costumati uomini e pieni di cortesia e d’ogni vertú dotati. Ma quelli che cortegiani oggidí si chiamano, – io parlo dei tristi e non dei buoni, – nessun’altra cosa hanno di corte se non che in corte vivono, e pur che di vestimenti si mostrino piú degli altri in ordine e politi, par loro esser i primi uomini del mondo. Ché dove i veri e buoni cortegiani giá si dilettavano de l’essercizio de l’arme, di quello de le lettere e de le altre vertú, e tutto il tempo spender in cortesie ed in por pace tra’ nemici e metter concordia tra i discordanti, facendo unire i disuniti; questi tutto il contrario fanno, e pur che facciano il «milite glorioso» con chi puote meno di loro, gli par esser grandi Tamberlani. Se i buoni cortegiani con l’essercizio si facevano agili, destri e prodi cavalieri, questi di cui io parlo, non d’essere, ma apparere con bella spada a lato si curano, tenendo piú conto che si dica che vagliano assai, che valere. Esser letterati stimano quasi vergogna e dicono che lo studiare ed impallidire sui libri è cosa da dottori, preti e frati. Nondimeno sono cosí sfacciati e temerarii che se si ritrovano ove tra elevati ingegni si contrasti d’alcuna curiosa materia, cosí de le dottrine umane come de le divine, eglino, che pur vorrebbero apparer dotti, presontuosamente sono i primi con il lor sputar tondo a voler decidere il tutto, di modo che spesse volte dicono le maggior pappolate e le piú inette ciancie che mai si sentissero, e vogliono che solamente a l’autoritá del nome loro si creda, come se fossero Aristoteli e Platoni. Quello poi che non cape loro ne l’ignorante cervello, come impossibil cosa, sentir non vogliono. Cortesi sono di parole, ma gli effetti ritroverai tutti contrarii al dire, perciò che largamente ti prometteranno favorir le cose tue appo il signore e nulla ne faranno, perché il tuo avversario averá lor donato molto piú di quello che tu dato gli averai. Né per questo sará chi teco piatisca talora, piú di te favorito, perché secondo che tu ingannato sei, cosí l’altro beffato si truova. Basta a questi magri cortegiani che il volgo creda ch’eglino siano in grandissimo credito appo il prencipe e che da questi e quelli cavino danari. Ti prometteranno parlar al signore dei casi tuoi, e in tua presenza d’altri affari a l’orecchia gli parleranno, dandoti a credere che di te hanno favellato e tuttavia mille favole ti venderanno. Di questo numero fu Vetronio Turino appo d’Alessandro Severo imperador romano, il cui vizio, poi che fu scoperto e per astuzia d’esso Alessandro trovato piú che vero, ebbe questo castigo che meritava, perciò che fu data la sentenza che Turino fosse legato ad un gran palo nel mezzo de la piazza e a torno al palo fosse di sarmenti e virgulti verdi acceso il fuoco, che rendesse oscurissimo e lento fumo che a poco a poco il misero Turino suffocasse. E mentre in tal tormento lo sfortunato stette, altro non fece mai un sergente di corte che gridare: – Col fumo Turino si fa morire, perché il fumo ha venduto. – Onde in questo modo il vano e fumoso Turino di fumo morí. Se cosí a’ nostri tempi si facesse, sarebbero le corti in piú stima che non sono, ed oltra il vender del fumo, che tanto non s’useria, non sarebbero i cortegiani sí facili a vender menzogne né diverriano simil ai cani, mordendo e lacerando l’un l’altro, perciò che quando hanno l’orecchia del signore, vi so dire che cantano di bello, cicalando mal di questi e di quelli che per avventura sono megliori di loro. Ma l’invidia cosí gli agghiaccia che non ponno sofferire di veder uno che più di loro vaglia, dubitando che questo tale non entri in grazia del prence ed egli cada di grado. Se per sorte poi vedono il signore esser ingannato o in errore di qual si sia cosa, pur che il fatto non tocchi loro, non crediate che cerchino di sgannarlo: tutti vanno dietro a la voglia del padrone, avvengane o bene o male. E di questo n’è cagione la dapocaggine di molti che non hanno ardir di dir il vero; anzi se il signor dice sí, essi l’affermano, se dice no, eglino cantano il medesimo tuono, non avendo riguardo se cade ben o male ciò che dicono. Non voglio poi parlar di quei falconi da cucina, che per altro ne le corti non si riparano se non per seder a le ricche e grasse mense dei signori, non essendo buoni a far cosa alcuna, se non divorar ciò che ai prodi cavalieri e più vertuosi di loro si converrebbe. Almeno fossero per buffoni e parasiti nomati e non s’arrogassero nome di gentiluomo, facendo così poco onore a la civiltà e gentilezza. E quantunque tutti quelli che sotto lo stendardo de la cortegianeria voglion esser posti e poi da veri cortegiani non vivono, debbiano senza fine esser biasimati e la conversazion loro da tutti i buoni fuggita, nondimeno altrettanto biasimo mi pare che mertino i lor signori, che di tal maniera vivono che non vogliono che la verità si dica, anzi tengono coloro per belli e buoni che mai non gli contradicono. Questi tali poi son quelli che il tutto consegliano e dispongono con le lor aperte e false adulazioni, onde è nasciuto quel motto che alcuni usano dire: che «chi non sa adulare non può in corte stare». E nondimeno non è la maggior peste né il più mortifero veleno in una corte de l’adulazione. Non mi piace né anco che un cortegiano, per grande che sia, debba mai presumer di riprender il prence in publico ed a la presenza d’altri garrirlo. Bene affermo che ogni fedel servidore, se vede il suo signor esser in errore, deve con destrezza e riverenza, pigliato il tempo opportuno, ammonirlo e con dolce e bel modo farlo capace del vero. O quanto sarebbero più felici e fortunati i prencipi, se avessero chi loro liberamente mostrasse, di molte cose che fanno, il danno che ne segue, l’openione che ha il popolo di loro, ciò che si romoreggia di quelli ed il pessimo governo di molti ministri, che altro non curano che rubar il fisco e convertir il tutto in uso proprio. Se i prencipi queste cose intendessero, i lor dominii sarebbero eccellentemente governati. Non è già da dubitare che il signor e salvator nostro Giesu Cristo sapesse tutto ciò che di lui i popoli dicevano, perché sapeva minutamente il tutto e niente gliene fu né mai sarà occulto, e tuttavia egli non si sdegnò interrogar i suoi discepoli che cosa dicevano gli uomini di lui. E perché credete voi che egli facesse sí fatta domanda? Non per altro, essendo ogni azion sua nostro documento, il fece egli, se non per dar ammaestramento a chi governa popoli e a tutti gli altri fedeli che debbiano esser solleciti d’intendere che openion s’ha di loro, a ciò che nel bene possano perseverare e dal male distorsi. E nel vero i prencipi poco bisogno d’altro hanno che d’aver persone integre, sincere e vertuose, che loro dicano la verità amorevolmente senza fuco ed ipocrisia. Di questi tali ne deverebbero appo loro sempre tenere e non voler far come molti fanno, che si credono del pruno far un melarancio, per non dire d’un asino un corsiero. Ma io son troppo vagato, perciò che da fanciullo fin ora avendo praticato in molte corti, assai ben so come far il più de le volte si suole. Ora vi dico che quei cortegiani che stavano appo il re Odoardo non erano de la buona scola, ma erano adulatori ed uomini di poco giudizio e pessima natura, perciò che senza pensar troppo a la fine de le cose tutti bandirono la croce contra il conte Ricciardo, moglie, figliuoli, figliuola, e chi più disse di male da più si tenne e pensò molto saggiamente aver parlato. Che forse quando il conte o i suoi figliuoli vi fossero stati presenti, molti di quelli averebbero tenuta la lingua ne la strozza e fra’ denti, e come proverbialmente si dice, messa la coda fra le gambe, e non sarebbero stati osi d’aprir bocca. Ora la conchiusione fu che la maggior parte di loro essortò il re a mandar per forza a pigliar Aelips e menarla al palazzo, e mal grado di lei far di lei ogni sua voluntá, dicendo che non stava bene che una femina devesse schernirsi del suo re e ai desiderii di quello non le convenisse mostrar tanta schivezza. Vi furono ancora di quelli che venduto il pesce avevano, i quali s’offersero d’andar eglino in persona a prenderla, e non volendo ella di grado venire, tirarnela per i capegli. Il re che l’adirarsi da dovero a l’ultimo si serbava, non volendo ancor usar la forza, volle prima tentar l’animo de la madre d’essa Aelips e a lei mandò il suo fidato cameriero che del tutto era ottimamente instrutto. Il quale subito andò a ritrovar la contessa e dopo le convenevoli salutazioni le disse: – Il re nostro sire, signora contessa, molto affettuosamente vi saluta e per me vi fa intendere che egli ha fatto cosa a lui possibile, e forse piú che non se gli conveniva, per acquistar la buona grazia e l’amor di vostra figliuola e far di modo che il tutto segretamente succedesse, per non venir a la bocca del volgo. Ora veggendo che a capo di questo suo desiderio venir non può per cosa che si faccia e fatta abbia, e che non trova compenso che giova se la forza non v’usa, vi manda dicendo che se voi non provederete ai casi vostri, operando che ei abbia l’intento suo, che siate sicura che a mal grado vostro vi fará, publicamente e con poco onore di tutti voi, levar la figliuola con mano armata di casa, e che dove deliberava esser amico al conte e a tutti e fargli del bene, che loro sará nemicissimo. Egli fará conoscere che cosa sa fare quando egli è adirato e s’ha messo una openione in capo, e che si delibera voler alcuna cosa come ora è deliberato, parendoli che non debbia tutto il dí languire e lasciar che altri di lui si rida e gabbi. E con questo, signora contessa, a Dio vi lascio. – Ella, udita cosí insperata e fiera proposta, da tanto spavento fu sovrapresa, che giá le pareva veder la figliuola esserle per i capegli innanzi gli occhi tirata fuori di casa, e straziata a brano a brano andar gridando a piena voce mercé. Onde tutta lagrimosa e tremante pregò caldissimamente il cameriero che in buona grazia del re la volesse raccomandare e supplicarlo a non voler correr cosí in furia a disonorar la casa del conte, che sempre gli era stato fedelissimo servidore. Poi gli disse che ella parlerebbe con la figliuola e che tanto farebbe che la persuaderia a compiacer al re. Con questa buona risposta partí il cameriero, e la contessa piangendo n’andò a la camera di Aelips, che suoi lavori faceva con le sue donzelle. Mandate fuor di camera la contessa tutte le donne, a lato di Aelips si assise, la quale levata s’era ad onorarla e riceverla, molto piena di meraviglia del lagrimar di quella. Fatta adunque la figliuola sedere, e dettole ciò che era venuto il cameriero del re a farle intendere, ultimamente, piangendo, cosí la contessa le disse: – Figliuola mia cara, giá fu tempo che per vederti io tra le piú belle donne di questo reame la piú bella e sovra l’altre onestissima, che io mi teneva per una madre felicissima, facendomi a credere che per le tue rarissime doti a noi devesse onore e utilitá venire. Ma io di gran lunga errata sono, e dubito pur assai che per distruzione ed universal rovina nostra tu sia nasciuta e, – che Dio nol voglia! – tu sia cagione de la morte di tutti noi. Or se tu volessi piegar alquanto la tua rigidezza e lasciarti governare, tutto il dolore e la tristezza nostra si convertirebbe in festa ed in gioia. Non sai tu, figliuola mia, che io piú teneramente sovra gli altri miei figliuoli t’ho sempre amata, e ciò che da me di nascoso avesti quando il conte di Salberí, che Dio abbia in gloria, per moglie ti prese? Perché adunque per amor mio questa tua durezza romper non vuoi e lasciarti a me governare, che madre, e madre amorevole, ti sono? Pensa che il re non solamente è di te innamorato, ma, quasi impazzito per la tua fiera crudeltá, sta molto male ed in periglio grandissimo de la vita si truova. Tutto il mondo sa che la tua ostinazione è cagion del male e de la discontentezza sua, di maniera che noi siamo in odio a chiunque la salute del re desidera, e tutti, eccetta tu, la bramano. Non ti sovviene esser molte fiate avvenuto che andando noi a messa e fuor per altri nostri bisogni, abbiamo da grandi e piccioli udito dire molto mal di noi? – Ecco, – dicevano, – le beccaie del nostro re, ecco le micidiali donne che mai d’un buon viso non gli furono cortesi né d’una piacevole parola. E vogliono fare le sante, e a l’ultimo, chi bene spiasse, si trovarebbe che un palafreniero di stalla od un barcaruolo le gode. Che venga il tuono e la saetta del cielo, che tutte l’arda e consumi! – Queste parole so io bene che tu hai sentito cosí come io, ed il cordoglio ed affanno che ne ho preso e tuttavia ne prendo, Dio per me te lo dica. Pertanto, figliuola mia carissima, con le braccia in croce ti priego che divenuta alquanto pieghevole a le mie preghiere, tu non voglia esser la rovina e distruzion nostra. Tu déi sapere che i prencipi e regi, poi che hanno un lor suddito pregato a cui comandar ponno, e vedeno che i prieghi non vagliano ciò che deveriano valere, metteno mano a la forza e a mal grado di chi non vuole fanno con poco piacere dei soggetti tutto quello che gli aggrada. Il nostro re fará anco egli il medesimo, e giá m’ha minacciato di farlo, di modo che quello che agiatamente e con segretezza far si poteva, sará di tal sorte messo ad essecuzione che tutta l’isola, e la Francia appresso, con eterno nostro vituperio lo saperá, e di cosa che il re si faccia, non ti averá né obligo né grado, anzi con il disonore e le beffe ce ne restaremo. Sí che, figliuola mia, io ti prego che tu non voglia venire a questi passi. Pensa un poco come qui per casa siamo de la famiglia rimase streme, poi che tuo padre e tuoi fratelli quindi partirono, perciò che ognuno teme il furore del re. Non vedi che per tua cagione io quasi vedova restata sono? Tuo padre e tuoi fratelli sono iti fuori di Londra per non vedersi tanto scorno su gli occhi, come presaghi che qualche grande scandalo debbia avvenire. Il che certissimamente con vituperio e danno di tutti noi avverrá, se tu altro non fai di ciò che fin qui hai fatto. Quanto era meglio per noi che il primo dí che in vita ti pose fosse anco stato l’ultimo, o vero che io di parto fossi morta per non vedermi a questa ora in tanti travagli! Deh, perché quando il conte di Salberí, uscito di prigione, morí, non fosti tu quella che in vece sua morisse! Io prego il nostro signor Iddio che di tanti affanni e travagli mi cavi, poi che tu disposta sei di perseverare in tanta durezza, e de la rovina di tutto il sangue tuo punto non ti cale. Non credi tu che io m’avveggia che tu brami la morte mia, figliuola crudele ed ingrata e molto poco cortese ed amorevole verso i tuoi parenti? E certamente io adesso morirei piú che volentieri, conoscendo che minor pena mi saria morire che restar in questi penaci cordogli, i quali di continovo sento che il core con fierissime punture mi trafiggono. – Né piú puoté l’afflitta contessa dire, perciò che un fiero svenimento l’assalí e con tal estrema doglia le serrò il core e sí l’oppresse, che piú morta che viva rassembrando cadette in grembo d’Aelips. Pareva la contessa in tutto passata a l’altra vita, sí era in viso pallida, fredda in ogni parte del corpo e senza movimento alcuno, di modo che le fere e i duri marmi averebbe a pietá commossi non che la figliuola. La quale come la vide da cosí strano e fiero accidente accorata, quella o morta o vicina a la morte giudicó, onde non puoté le lagrime contenere. Cosí amaramente piangendo e le vestimenta alquanto a l’afflitta madre allentando, quella pietosamente chiamava, e stropiccia
Il Bandello al magnifico
messer Francesco Ravaschiero
Come volgarmente si dice tutti i salimi finirsi in gloria, cosí anco si può dire quasi tutti i parlari, che tra persone gentili si fanno, al fine risolversi in ragionar d’amore, come del dolce condimento e soave sollevazion di tutte le malinconie. E chi è colui che in sí noiosi pensieri immerso si trovi, o sia dai soffiamenti di contraria fortuna crollato e conquassato, che sentendo dire dei casi amorosi che diversamente accadeno, non apra l’orecchie e metta mente a ciò che si parla, a fine che impari alcuna cosa per sapersi, occorrendo il bisogno, governare, o noti quello che gli convenisse, trovandosi in sí fatto laberinto, fuggire? Certamente io credo che sia di grandissimo profitto a l’uomo l’udire i ragionamenti altrui, mentre chi ascolta sappia, come si cava il grano fuor del loglio, sciegliere il bene dal male. Devete adunque sapere che essendo questi dí una compagnia, cosí d’uomini come di donne, venuta qui a Montebrano a visitar madama Fregosa mia padrona, venne la nuova de la immatura morte del conte Gian Aloise Fiesco, che il mese passato in mare s’annegò. Egli ancora, per quanto se ne disse, non passava venticinque anni, giovine di grandissimo core, d’ottimo discorso, ed innanzi l’etá di dritto giudizio, aiutato da le buone lettere che aveva e da l’ammaestramento del dotto e vertuoso messer Paolo Pansa. Ora si conchiuse, se in quel punto non moriva, che ei si faceva assoluto signor di Genova. Quivi furono varii i ragionamenti fatti dei casi suoi, secondo che varii erano i pareri e l’affezioni di chi parlava. Nondimeno non ci fu persona, cosí de la nazion nostra italiana come de la francese, che mirabilmente non lo commendasse, essendosi molte sue rare vertú e doti raccontate, e lodata la grandezza de l’animo suo, che in sí giovinil etá avesse da se stesso con tanto ordine disposte le cose atte e necessarie a farlo impadronire de la sua patria, impresa che non fu da tanti suoi avi, uomini savii, bellicosi e potentissimi, attentata giá mai. Era ne la brigata Cataldo d’Arimini, che lungo tempo a Genova e per quelle contrade praticato aveva, e domesticamente il conte conosciuto. Egli poi che ebbe di esso conte detto alcune cose, ne la fine narrò una novelletta ne la patria vostra di Chiavari avvenuta, di modo che tutti i ragionamenti si terminarono in cose d’amore. E perché ne la novella interviene uno dei vostri Ravaschieri, avendola io scritta, ho pensato che meritevolmente a voi si convenga; onde quella ho al nome vostro dedicata, a ciò che veggiate che io sono ricordevole de le carezze e piaceri da voi ricevuti, cosí a Carcassona come ancora a la badia di Caones in Linguadoca, quando d’essa badia eravate governatore. Sentirete adunque ciò che l’ariminese ragionò. State sano.