Novelle (Bandello)/Seconda parte/Novella XXIX

Seconda parte
Novella XXIX

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Carlo Savonaro fa una beffa a lo zio e fassi


consegliero di Tolosa con i danari del zio.


Seguitando adunque il proposito di che s’è parlato, vi dico che in Tolosa, cittá antichissima e molto piena di popolo, ancora non è guari fu un prete, dottore di ragion canonica, assai ricco di beneficii, che si chiamava messer Antonio Savonaro; il quale era di tanta grandezza di corpo che in tutto quel paese non si trovava uomo cosí grande che egli da le spalle in su non soperchiasse, di modo che da tutti era per la grandezza sua conosciuto e guardato sempre per meraviglia. Egli fu fatto ufficiale de l’arcivescovo, onde, essendo molto ruvido e severo piú che il devere non richiedeva, s’acquistò per tutta la contrada generalmente questo nome, che ciascuno lo nomava «il gran villano da le trenta coste». Il che essendogli pervenuto a l’orecchie, meravigliosamente se ne turbò e di tanta còlera s’accese che in maniera alcuna nol voleva sofferire. Pensò piú e piú fiate che modo devesse tener a levarsi questo nome, e quanto piú si mostrava di questo corucciato, tanto piú per Tolosa se ne canzonava, e i fanciulli ed altri andavano per le strade cantando: «Il gran villano da le trenta coste»; di che il povero uomo ne fu per impazzire. E insomma dopo che assai ne smaniò, fece publicar una scommunica per tutta la diocesi tolosana, che fosse scommunicato e maledetto da Dio e dai santi qualunque ardisse piú nominar monsignor l’ufficiale «il gran villano da le trenta coste». Adirata per questa scommunica, la gente, piú tosto che smarrita né emendata, altro non faceva dí e notte che cantare: «Il gran villano da le ventinove coste e mezza». Ora questo fu la secure che tagliò il collo al Savonaro. E’ voleva disperarsi veggendo che non si poteva levare cosí brutto nome da le orecchie: onde pensando a ripensando che via devesse tenere a torsi questa seccaggine, non potendo andar in luogo alcuno che non si sentisse rinfacciar la disonesta canzone, pensò, se si poteva far consigliero del parlamento, che piú nessuno ardirebbe dirgli cotal nome. Fatto questo pensiero, chiamò a sé un suo nipote detto Carlo, ch’era fatto dottor di leggi non molto innanzi, e gli disse: – Nipote, tu senti tutto il dí le vituperose parole che di me si dicono, le quali ormai io non posso piú sofferire. Io mi trovo quattro milia lire di tornesi in contanti con le quali, andando a la corte, io comperrò un luogo di senatore a mi leverò questo brutto nome da dosso. – Il nipote veggendo lo zio entrato in questo farnetico, che d’etá passava settanta anni ed era poco piú per vivere, gli rispose: – Monsignore, voi sète vecchio e devete pensare piú a la morte che al vivere. Attendete a l’ufficio che voi avete, e non andate a morire e buttar via i danari. – Come il vecchio si sentí dir queste parole, entrò ne la maggior còlera del mondo, e diede del «tristo» e del «ghiotto» per il capo al suo nipote; e non volendo altrimenti esser consegliato, si mise in camino per andar a Parigi, ove alora era la corte. Carlo, sapendo questo, gli tenne dietro, mezza giornata sempre da lui lontano, di modo che per l’ordinario ove il vecchio cenava Carlo il dí seguente desinava. Giunto a Parigi, andò il vecchio ad alloggiar al «Castello di Milano». Il che saputo da Carlo, che il seguente dí v’arrivò, andò ad un altro albergo, e fra duo giorni contrasse amicizia con un arciero del re che gli parve atto a far quanto desiderava. Con questo arciero Carlo si convenne col prezzo di quattro scudi. Ed essendo a pieno informato di ciò che deveva fare, andò l’arciero a l’osteria del «Castello di Milano», ed inteso che il vecchio era in camera, lá si condusse e picchiò a l’uscio. Ed essendogli risposto: – Chi è là? chi picchia? – egli rispose: – Io son un arciero che vengo da parte del re a parlar a monsignore l’ufficiale de l’arcivescovo di Tolosa. – Il vecchio come sentí questo, se gli fece incontro e disse mezzo smarrito e con tremante voce: – Che volete voi? – L’arciero gli disse: – Il re vi saluta. Seguitatemi! – E si mise per uscir di camera, dicendo tuttavia con parlar arrogante: – Seguitatemi, seguitatemi! – Il povero vecchio piú morto che vivo: – Aspettate, – diceva, – aspettate. E che vuol il re da me? – L’arciero con mal viso teneva pur detto: – Orsú, andiamo. Monsignor, speditevi. – Deh, di grazia, – disse il vecchio, – sapete voi ciò che voglia? – Basta! – rispose l’arciero. – Andiamo, andiamo, e non mi fate piú aspettare. – E pregando tuttavia il vecchio che cosa era, egli gli disse: – Io ve lo dirò, ma tenetemi celato. Il re vuol far la compagnia dei suoi arcieri dei piú grandi uomini di Francia, e gli è stato detto di voi, che in vero sète un bell’uomo e farete un bellissimo vedere con una alabarda in spalla. Orsú via, andiamo. – Il vecchio, che voleva pagare di calcagni, gli disse: – Andate, che io verrò a corte. – No no, – rispose l’arciero, – egli conviene che io v’accompagni. – Ora dissero molte parole, e insomma l’arciero ebbe dieci ducati ché non lo conducesse. Partí l’arciero, ed il Savonaro, fatto sellar i cavalli, se ne ritornò con gran prestezza verso Tolosa, dicendo tuttavia: – Que te calé, Antoyne Savonieres? que te calé? Tu eres officiao, et estaves plan. Que te calé? Certes un vieit d’ase per pots. – Queste sono parole de la lingua nostra guascona che in italiano dicono: – Che ti mancava, Antonio Savonaro? che ti mancava? Tu eri ufficiale e stavi agiatamente. Che ti mancava? Certamente la verga de l’asino per lo mostaccio. – E giunto in Tolosa infermò e con queste parole se ne morí. Onde Carlo suo nipote ereditò le quattro mila lire ed altre robe assai, e comprò un luogo di consegliero; ed oggi vive senatore del parlamento di Tolosa, avendo col suo avviso saputo far che lo zio non buttasse via i danari, essendo da la vecchiezza consumato com’era.


Il Bandello a l’illustre signore


il signor Giano Fregoso


Veggiamo tutto il dí scoprirsi grandissima differenza tra gli uomini e le nature ed inclinazioni loro, cosí varie che ben sovente in tutte l’azioni loro si discorderanno. E come di rado si ritrovano dui che d’effigie e lineamenti del corpo s’assimiglino, cosí anco rare volte dui saranno in tutto d’un volere, di modo che se in una cosa converranno, in molte altre poi saranno di varii pareri. Colui in ogni azione od opera che sia per fare, quantunque ella sia facile e consueta facilmente a mettersi in essecuzione, sempre vi ritrova difficultá, e sí con suoi argomenti innanzi agli occhi lo la dipignerá, che ciò che è possibile ti fará parer impossibile e ti porrá in disperazione che il tuo desiderio debbia aver effetto. Quell’altro poi ha l’animo cosí fatto che niente si pensa esser impossibile, e quanto piú l’effetto che se gli ricerca è difficile a condursi a desiderato fine, tanto piú egli lo reputa facile, e d’argomento che in contrario tu gli faccia, punto non si sbigottisce, a bene spesso aiutato da la vivacitá ed acutezza d’un elevato ingegno, ciò che era da tutti stimato che riuscir non dovesse giá mai, egli fa con non troppa difficultá venir ad effetto. Questi tali comunemente son molto grati a’ gran maestri che sempre ricercano di far ciò che quasi far non si può, e piú grati anco al volgo che veggendo per mezzo loro condursi a fine un’opera creduta quasi impossibile di farsi, gli credono uomini piú che naturali; che se conoscessero la sottigliezza de l’ingegno de l’uomo, cessarebbe in loro l’ammirazione. Si ragionava di questa materia da alcuni gentiluomini di casa de la signora mia padrona, la signora Gostanza Rangona e Fregosa, avendoci prestato il soggetto Pittigliano sescalco, il quale di cosa che se gli domandi mai non dice di no, ben che rade volte segua l’effetto a le sue parole. Comandagli pur ciò che tu vuoi, egli sempre ti risponderá che sará fatto, o sia possibile o impossibile quello che se gli ricerca. Onde in questi ragionamenti messer Stefano Coniolio canonaco agennense narrò una bella novelletta, la quale essendomi piacciuta scrissi e volli che sotto il vostro nome fosse dal publico veduta. Ella adunque sará testimonio eternamente de la mia verso voi osservanza. State sano.