Novelle (Bandello)/Seconda parte/Novella XLIV

Seconda parte
Novella XLIV

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Amore di don Giovanni di Mendozza e de la duchessa di Savoia,


con varii e mirabili accidenti che vi intervengono.


Io non pensava giá, cortesissima e valorosa signora, esser venuto di Fiandra fin in Acquitania a novellare; ben venuto ci sono per farvi riverenza, essendo giá molti anni che io desiderava che mi s’offerisse l’occasione di rivedervi, per la servitú che sempre v’ho portata da che vi conobbi in Ferrara, ove narrai la novella de la reina Anna, che non molto innanzi era avvenuta. Ora volendo pur voi che io alcuna cosa dica, essendo sempre presto in questo, e in tutto quello che vi piacerá comandarmi, d’ubidirvi, vi narrerò una mirabil istoria che giá da un cavaliero spagnuolo, essendo io altre volte in Ispagna, mi fu narrata; da la quale si comprende quanto poderose sieno le forze de l’amore, quando in cor gentile egli le sue facelle accese avventa, e senza fine quello arde e dolcemente strugge. Vi dico adunque che in Ispagna giá fu crudelissima nemicizia e sanguinolenta guerra tra due nobilissime famiglie, cioè tra la casa dei Mendozzi e quella di Toledo, e tutte due erano molto ricche e potenti di domínii e di vassalli. Piú e piú volte tra loro avevano combattuto, con morte di uomini assai da l’una e da l’altra parte. Ed essendo le discordie e guerre tra loro vie piú grandi che mai e gli odii nei loro cori incancheriti, né si trovando mezzo per rappacificargli, avvenne che essendo don Giovanni di Mendozza, giovine ricchissimo e prode molto de la persona, capo de la fazion sua, che si trovavano in campagna tutte due le parti con esserciti numerosi per combattere. La sorella di don Giovanni, che era stata moglie d’un signore spagnuolo e, vedova, s’era ridotta con il fratello, sapendo queste male nuove, pregava Dio che mettesse pace tra le due fazioni e desse fine a tanti mali. Ma intendendo che il far fatto d’arme era determinato, amando il fratello a par de la vita sua, fece voto a Dio, se egli restava salvo vincendo la giornata, di andar peregrina a Roma a piedi, a visitar la chiesa del beato apostolo Pietro. Fu fatta la sanguinolente battaglia con strage grandissima di quelli di Toledo, di modo che don Giovanni restò signore de la campagna con poca perdita dei suoi. La signora Isabella, – ché tal era il nome de la vedova, – manifestò il suo voto al fratello, il quale, ancora che mal volentieri vedesse la sorella andar a piedi a cosí lungo viaggio, pure le diede congedo e volle che, bene accompagnata e con ogni commoditá che possibil fosse, a picciole giornate si mettesse in camino. Si partí la signora Isabella di Spagna, e passati i monti Pirenei, passò per Francia, e travarcate l’Alpi, capitò a Turino. Era alora la moglie del duca de la Savoia una sorella del re de l’Inghilterra, la quale aveva fama d’esser la piú bella donna di tutto Ponente. Desiderava la peregrina spagnuola veder questa duchessa, per conoscer se il vero agguagliava la voce che per tutto di tanta beltá volava. Nel che ebbe la fortuna assai favorevole, perciò che ne l’entrar che ella fece in Turino, trovò che ci erano molte carra per entrar dentro, le quali impedivano ed occupavano il camino de l’entrata e uscita a chi era a cavallo. La duchessa, che era su una bellissima carretta per uscire e andar a diporto fuori de la cittá, ché era di state dopo cena, fu astretta a fermarsi quivi dentro, fin che le carra fossero entrate. La peregrina con la sua compagnia, per esser a piedi, entrò di leggero, e fatta certa quella che in carretta aspettava esser la duchessa cotanto celebrata, se le pose per iscontro, essendo essa duchessa su la porta de la carretta. Quivi cominciò la peregrina molto intenta e fisamente a contemplar la bella duchessa e ben considerarla di parte in parte con giudizioso occhio, e parendole in effetto la piú bella e vaga donna che mai veduta avesse, giudicò la fama esser assai minore del vero, e che tanta beltá e grazia quanta in quella vedeva, piú tosto si poteva ammirare che altrui dire. Onde quasi fuor di se stessa rapita, disse assai alto in lingua spagnuola: – O signore Dio, questa è pure la piú bella ed aggraziata donna che veder si possa. E che figliuoli farebbe ella, se mio fratello si congiungesse con lei! Certamente angeli ne nascerebbero. – Era in quei tempi don Giovanni uno dei piú belli cavalieri che si trovassero. La duchessa che benissimo intese il parlar spagnuolo, che apparato aveva fino in Inghilterra, chiamato un suo staffiero, gli ordinò che come da diporto ritornava, egli, osservando dove quella peregrina spagnuola albergasse, la conducesse poi al castello; il che fu diligentemente essequito. Mentre la duchessa s’andò dietro a le rive del Po diportandosi, mai non puoté rivolger l’animo a cosa veruna se non a le parole de la peregrina, e mille e mille pensieri sovra quelle facendo, mai non si seppe al vero apporre. Ritornata adunque in castello, trovò la peregrina che per commissione de lo staffiero l’attendeva, e seco era la sua compagnia. Cominciò la duchessa, tirata a parte la peregrina, a domandarle di qual provincia era di Spagna, di qual legnaggio e dove andava. Ella al tutto saggiamente rispose, e la cagione perché andava in peregrinaggio a Roma a la duchessa scoperse. Intendendo la duchessa la nobiltá de la peregrina, seco si scusò di non averla prima piú onorata di quello che fatto aveva, scusandosi il non averla conosciuta esserne stata la cagione. Ed in questo stettero buona pezza su le cerimonie. A la fine la duchessa diede a terra e volle intender a che fine la peregrina aveva dette le parole di che fatto s’è menzione, alora che in carretta la vide. La signora Isabella, non pensando piú oltre le disse: – Signora duchessa, il signor don Giovanni Mendozza, mio fratello, è uno dei piú bei giovini che oggidí si sappia, per quello che ciascuno che il vede ne dice, ché io a me stessa non crederei tale esser la sua bellezza quale vi dico, se la publica e conforme fama di chiunque lo conosce non l’affermasse. Del valor suo e de l’altre doti che appartengono ad un segnalato cavaliero, a me non istá bene a dirle, per essergli sorella; ma se voi ne parlaste con i suoi medesimi nemici, udireste a tutti dire che egli è un valoroso e compíto cavaliero. – Era giá la duchessa alquanto accesa de l’amor del cavaliero per le parole che prima, quando era in carretta, aveva udite, come quella che fuor di modo era desiderosa di vederlo. Sentendo poi di questa maniera sí fermamente a la sorella di lui lodarlo, ella largamente il petto a le fiamme amorose aperse e quelle con tanta affezione abbracciò che tutta divenne fuoco. Né ad altra cosa poteva rivolger l’animo che pensar di continovo come potesse don Giovanni vedere, e tanto in questi pensieri si profondava che bene spesso rimaneva quasi come fuor di sé. Né sapendo ai fieri casi suoi alcuno compenso ritrovare da se stessa, e quanto piú la speranza mancava tanto piú crescendo il disio che aveva di veder il cavaliero, deliberò ad una sua fidissima cameriera discoprir ogni suo affare. Chiamavasi la cameriera Giulia, la quale era molto bella ed oltra modo avveduta, e tanto piacevole che da tutta la corte era portata in palma di mano. Aperse adunque a questa la duchessa tutti i segreti del suo amore, e a lei chiese aita e conseglio. Giulia, udendo l’intenzione de la sua signora che vie piú che la vita amava, le ebbe una grandissima compassione, e si sforzò, a la meglio che seppe, confortarla, promettendole che tanto s’affaticherebbe che troveria modo e via di venir a capo di questa impresa. Il conforto de la fida cameriera e le larghe promesse alleggerirono in gran parte le pene de la duchessa. Pensò Giulia e ripensò pur assai sovra le cose a lei proposte, e dopo mille e mille pensieri si fermò in questo che piú le parve a proposito: che senza aita d’alcuno avveduto e saggio uomo era quasi impossibile a sanar la mentale e cordiale infermitá de la sua signora. Sapete esser consuetudine che generalmente in tutte le corte i cortegiani fanno l’amore e si intertengono con le donne che ci sono. Era alora medico de la signora duchessa un cittadino milanese chiamato maestro Francesco Appiano, bisavolo del gentilissimo nostro maestro Francesco Appiano, che fu medico di Francesco Sforza, secondo di questo nome duca di Milano. Giulia fin alora non s’era molto curata de l’amore del medico, ancor che gli facesse assai buon viso; ma conoscendolo uomo di buona maniera, avveduto e intromettente e atto a dar compimento ad ogni impresa, conchiuse tra sé nessuno esser piú al proposito di costui. E fatto questo presuposito, lo communicò a la duchessa. Ella lo trovò buono ed impose a Giulia che cominciasse con la coda de l’occhiolino ad adescarlo e pascerlo con liete ed amorose viste; il che la sagace ed avveduta donzella diligentemente ad essecuzione mandò. Il medico, che ne era da vero innamorato, tutto gioiva e si riputava felicissimo, sperando venir ad ottimo termine del suo amore. Ella secondo l’ordine avuto da la sua signora, poi che le parve averlo a sufficienza acceso, le disse una sera: – La signora duchessa si sente alquanto indisposta e vorrebbe che dimane, avanti che si levi, voi veniste in camera, e da lei intenderete gli accidenti del suo male e vederete il segno, e farete quelle provigioni che l’infermitá ricerca. – Il medico disse di farlo. Venuto poi il matino, se n’andò in castello ed entrò ne l’anticamera, attendendo esser intromesso. Avevano giá la duchessa e Giulia ordinato insieme quanto era da dire al medico, il quale nel vero credeva la duchessa esser indisposta e cagionevole de la persona; e certo ella stava male, ma non d’infermitá ove Galeno, Ippocrate ed Avicenna devessero dar i loro rimedii per compenso. Come la duchessa intese il medico esser venuto, cosí lo fece introdurre in camera, e fatto uscirne le altre donne, ritenne solamente Giulia ed il medico. Poi cosí a lui rivolta, in questa maniera gli disse: – Se voi sarete, maestro Francesco, quella gentile ed avveduta persona che io mi fo ad intendere che voi siate, io sono sicura che in voi, di quanto vi sará da me scoperto, due cose ritroverò. L’una, che mi terrete credenza con inviolata fedeltá; l’altra, che mosso a compassione degli accidenti miei, trovarete modo a guarirmi, perciò che non meno suffiziente medico vi giudico de le infermitá corporali che di quelle de l’animo. Voi sapete molto bene che cosa sia esser femina giovane, delicatamente nodrita, e trovarsi maritata con uomo attempato, che, a parlarvi liberamente, nulla o poco vale nei servigi de le donne. Né per questo giá mai m’entrò in capo pensiero meno che onesto, né voglia di far cosa che al signor duca mio devesse spiacere. Ma da pochi giorni in qua mi sento sí fieramente accesa di desiderio di veder un uomo che mai non ho veduto, che se a questo appetito non sodisfaccio, conosco chiaramente che mi sará impossibile mantenermi in vita, ben che ho fatto ogni sforzo e sommi ingegnata con mille modi e vie levarmi questa fantasia di core. Ma il tutto è stato indarno, ché quanto piú cerco e m’affatico, non dirò smorzare, ma pure intepidir questo focoso disio, egli vie piú s’accende e cresce di punto in punto maggiore. E veggendo che manifestamente mi conduce a morte, se con alcun compenso non gli rimedio, ho deliberato far ogni cosa per non morire, ché vorrei pure che l’ultima cosa ch’io facessi fosse il darmi in preda a la morte. – Narrò in questo la duchessa quanto da la peregrina aveva inteso dire del fratello, e che deliberata era di far ogni cosa per veder quel famoso cavaliero, pregando e ripregando il medico che ritrovasse mezzo conveniente a venir al fine di questo suo desiderio. E poi che gli ebbe promessi mari e monti, ultimamente gli diede la fede di dargli Giulia per sua moglie. Il medico, che a par de la vita sua amava Giulia ed altro piú non bramava che averla per moglie, come sentí toccar questo tasto, promise largamente a la duchessa d’adoperarsi in trovar tal mezzo qual a sí fatta impresa si convenisse. Ma per meglio considerar l’importanza del caso e trovar modo che nessuno si potesse accorger de l’inganno, domandò dui dí di termine a pensare e ripensare varii rimedii. E giá avendo in mente non so che d’una astuzia che non gli dispiaceva, essortò la duchessa a starsene in letto e dar la voce che alquanto era indisposta; e per meglio colorir il suo dissegno, le ordinò certi elettuarii ed altri rimedii. Partito poi e riduttosi a casa, cominciò ad assottigliar l’ingegno e far tra sé infiniti farnetichi e varii discorsi, di maniera che con tutti gli spiriti era a questa impresa intento. Ed avendo fatte diverse chimere e fuor di misura aguzzato l’intelletto, dopo varie astuzie pensate, gli cadde in animo non ci esser la piú sicura né miglior via che andar a San Giacomo di Galizia, sotto nome d’aver fatto voto di visitar personalmente e a piedi le sante reliquie de l’apostolo. Onde l’astuto Appiano, fermatosi in questo pensiero, tornò a visitar la duchessa, e a la presenza de la sua Giulia le manifestò quanto s’era imaginato. Ed a fine che la duchessa avesse onesta e legitima cagione di far cosí fatto voto, volle l’Appiano che ella fingesse d’esser fortemente inferma, e che in fine paresse che per miracolo di san Giacomo fosse guarita. Piacque a la duchessa la cosa, e tanto piú che il gentil fisico le fece intender un bel modo d’ingannar le donne de la camera, che credessero tutte aver veduto visibilmente il santo apostolo apparire a la duchessa. Cominciò adunque essa duchessa mostrarsi tutta svogliata e a fastidire ogni cibo che se le dava, e lamentarsi fieramente de lo stomaco. S’aveva ella fatto certi suffumigii con comino ed altre cose che l’Appiano ordinato aveva, di maniera ch’era divenuta pallidissima. Furono chiamati altri medici a la cura, i quali, come la videro tanto pallida, si sbigottirono, e da l’Appiano informati del caso, che una intemerata a suo modo narrò loro de l’infermitá e dei varii accidenti che a la duchessa erano avvenuti, a lui come a piú pratico de la natura de l’inferma si rimisero. Egli veggendo il fatto andar come pensato aveva, conferí con quelli alcuni rimedii che intendeva di fare, i quali furono da tutti per ottimi giudicati. Ma mostrando la duchessa di giorno in giorno peggiorare, e non si cibando se non segretamente con cibi sostanzievoli che dava l’Appiano, si sparse per Turino che la duchessa stava in periglio di morte; e questo affermavano gli altri medici, perciò che l’Appiano con l’aiuto di Giulia falsificava di modo l’urine, che mostravano segni di morte. Era suffraganeo de l’arcivescovo de la cittá di Turino un vescovo, come dir si suole di quei vescovi di quelle cittá che sono in mano d’infedeli, «vescovo di povertá» o «nulla tenente», uomo semplicissimo e di santa vita. Con questo deliberò la duchessa confessarsi e seco fece una confessione di ser Ciappelletto, dandogli ad intendere che senza dubio si sentiva morire e che a poco a poco si sentiva mancare, pregandolo a far orazione per lei. Il credulo vecchio la confortò assai con buone parole, essortandola a raccomandarsi a Dio e sperar ne la sua misericordia. Fece poi il buon vescovo il giorno seguente far una procession generale a tutto il clero de la cittá, a ciò che Dio rendesse la sanitá a la duchessa. Aveva l’Appiano maestrevolmente formata una bella imagine di san Giacomo di Gallizia di sua mano, sí come si suol dipingere. Ella era di cartoni incollati insieme e di fuori via dipinta con bellissimi colori, perciò che l’Appiano, oltra che era medico dottissimo, aveva poi mille belle arti per le mani. Pose egli questa imagine in una cassa, ne la quale anco pose alcune pezze di lino bagnate e ben molli d’acquavita o d’acqua ardente, ché cosí da molti è nomata, e diede la cassa a Giulia, la quale, come cosa sua e di sue robe piena, essa subito fece portar in castello e porre dietro al letto de la duchessa. S’aveva la duchessa in quella sua finta infermitá elette due semplici vecchie a dormire la notte in camera, e Giulia anco vi dormiva. La notte adunque dopo il dí che fu fatta la processione, lá circa la mezza notte, veggendo Giulia che le vecchie, ch’erano state lungamente in veglia, altamente dal sonno oppresse dormivano, aperse pianamente la cassa, e cavata fuori l’imagine di san Giacomo, quella al muro con aita de la duchessa attaccò, al muro, dico, di dietro al letto; e levate via le cortine, da quella banda appresso a la imagine accese le pezze di lino molli de l’acqua sovradetta. Era la statua del santo di modo fabricata che, con un filo di refe bianco che si tirava, alzava il braccio destro in atto di dar la benedizione. La Giulia, levata la voce, cominciò a gridare tanto forte che le due buone vecchie si destarono. Stava la Giulia inginocchiata tra la parete e ’l letto e tirava il filo, gridando: – Miracolo, miracolo! – La duchessa, levatasi di letto, si mise innanzi a la figura in ginocchione, pregandola che degnasse guarirla, che le faceva voto d’andar a visitar a piede le sue sante reliquie; e piú e piú volte replicò questo volo. Le due buone vecchie, veggendo l’imagine dar la benedizione a la duchessa, e quelle pezze di lino che ardevano e facevano un bellissimo splendore dinanzi al santo, e che quel fuoco pareva di varii e bei colori, credettero fermamente quello esser san Giacomo maggiore, fratello di san Giovanni evangelista, e divotamente s’inginocchiarono, piangendo per divozione. Sentirono piú volte le buone vecchie replicare il voto a la duchessa, la quale, veggendo lo splendore de le bagnate pezze venir meno, comandò a le due vecchie che uscite di camera facessero entrar il medico, che in una camera non molto lontana in castello s’era ridutto a dormire. Mentre che le buone donne andarono a chiamar il medico, la duchessa e Giulia presero la figura, e Giulia subito la ripose ne la cassa. Fecero tanto romore le due vecchie, che non solamente svegliarono l’Appiano, ma gridando: – Miracolo, miracolo! – fecero correr tutti quelli che albergavano in castello. Il duca ancor egli si levò al romore a andò con molti a la camera de la duchessa. Erasi essa duchessa giá vestita, e tanto allegra in vista si mostrava quanto dir si possa. Come ella vide il duca, cosí gli andò a far riverenza, e tutta allegra e gioiosa gli disse: – Signor mio, io mi truovo la piú contenta donna del mondo, poi che è piaciuto a nostro signor Iddio, per intercessione del suo glorioso apostolo san Giacomo di Galizia, rendermi la sanitá. – E cosí gli narrò il bel miracolo. Le due vecchie e la Giulia affermavano visibilmente aver veduto l’apostolo. L’Appiano, in cui il duca aveva gran fede, diceva che quando entrò in camera, che vide un grandissimo lume a torno al santo, e che subito in un batter d’occhio disparve quasi in quel punto quando esso duca entrò in camera. Troppo lungo sarebbe a dire le varie cose che si dicevano. E supplicando la duchessa al duca che si contentasse del voto che fatto aveva, egli lo confermò. Si sparse poi la matina la voce di questo miracolo e d’altro non si ragionava. Il suffraganeo venne in castello e volle diligentemente essaminar la duchessa, il medico, le due vecchie e la Giulia, e tutti unitamente deposero aver veduto il santo apostolo che benediceva la duchessa. E come sono molti uomini e donne a cui par vergogna non aver veduto ciò che altri veggiono, massimamente in cose di santitá e miracoli ci furono di quelli e di quelle di corte che affermavano ne l’entrar de la camera aver visto il santo e lo splendore a torno a quello, di modo che quella matina stessa volle il suffraganeo che si cantasse la messa d’esso apostolo, a la quale tutto il popolo concorse. E nel mezzo de la messa il buon suffraganeo fece una predichetta e disse il bel miracolo e la grazia de la sanitá de la lor duchessa, e narrava quasi il tutto come di veduta. Era tutta la corte e la cittá in grandissima allegrezza, e si fecero giostre e bagordi. In questo avendo la signora Isabella Mendozza compíto il suo romeaggio, ritornava indietro, e pervenne con la sua compagnia a Turino, ove, secondo la promessa, andò a far riverenza a la duchessa che con desiderio grande l’aspettava. Fu da la duchessa la peregrina spagnuola molto ben veduta ed accarezzata, e la fece alloggiar in castello. Presa poi l’occasione, ella disse al duca come una gentildonna spagnuola, venendo da Roma onoratamente accompagnata, ritornava a casa, e che, piacendogli, aveva deliberato andar con quella a dar compimento al suo voto. Il duca, che piú avanti non pensava, si contentò che andasse; e fattale buona provigione d’onorata compagnia e di danari, la lasciò andar a buon camino. Volle la duchessa che tra quelli che l’accompagnavano fosse il gentilissimo Appiano e Giulia. Facevano un bellissimo vedere le due eccellenti peregrine con sí onorevole compagnia d’uomini e di donne, tutti a piede e vestiti in abito da peregrino. Avevano bene con loro alcuni carriaggi che gli portavano dietro letti ed altre commoditá. Andarono adunque per lor giornate, e passate le nevose Alpi e la Provenza, pervennero ai monti Pirenei. Per lo contado di Rossiglione travarcarono in Ispagna, tuttavia caminando a picciole giornate. Aveva la duchessa astretta la Mendozza con ciascuno che era in quella compagnia, che non palesassero a persona che ella fosse la duchessa di Savoia. Ora chi volesse raccontare tutti quei ragionamenti che la duchessa in quel viaggio fece con l’Appiano e con la Giulia, averebbe troppo che fare. Affermava ella che quel faticoso e lungo peregrinaggio punto non l’aggravava, anzi che d’ora in ora piú si sentiva gagliarda, e che quanto piú andavano innanzi piú si sentiva infiammare e crescer il disio di veder il tanto desiderato e lodato don Giovanni. Egli si poteva ben di lei cantar il bel verso del nostro innamorato Petrarca:


Vivace amor, che negli affanni cresce.


Ora, quando furono vicini a la cittá dove per l’ordinario don Giovanni dimorava, disse la signora Isabella a la duchessa: – Signora mia, noi siamo vicine a due picciole giornate ad una de le cittá del signor mio fratello. Io con licenza vostra mi spignerò innanzi per far accomodar l’alloggiamento per voi e per la compagnia, e dirò, se vi pare, al signor mio fratello che una signora lombarda, che m’ha fatto in casa sua onore, viene ad albergar meco, e non gli manifesterò altrimenti chi voi siete. – Cosí se n’andò innanzi, e non si puoté contenere che al fratello non dicesse come quella che veniva era sorella del re de l’Inghilterra e moglie del duca di Savoia; e gli narrò il ragionamento che ella le fece in carretta ed il voto di visitar san Giacomo, e che non voleva esser conosciuta. Don Giovanni essortò la sirocchia ad onorar quanto piú si poteva la nobilissima peregrina, e come colui che era avveduto a scaltrito, cominciò a pensare che questo peregrinaggio fosse d’altra maniera che sua sirocchia non pensava; nondimeno nulla ne mostrò. Dato subito ordine la signora Isabella a quanto era di bisogno, se ne tornò a dietro ad incontrar la duchessa. Don Giovanni poi, quando tempo gli parve, montato a cavallo con molti dei suoi gentiluomini, disse voler andar a far correr due lepri; e andando per compagnia cacciando a traverso molte vie, passò su quella per la quale le belle peregrine se ne venivano. Domandò la duchessa che gente fosse quella; a cui la signora Isabella rispose dicendo: – Signora, questo è mio fratello, il signor don Giovanni, che per suo diporto va cacciando, e quello è che sovra quel giannetto bianco come armellino vedete con quelle piume bianche nel cappello. – La duchessa, che senza averlo veduto se n’era innamorata per la fama sola de la sua beltá, vedutolo assai piú bello e vie piú leggiadro di quello che imaginato s’aveva, restò di modo da la bellezza e leggiadria del cavaliero vinta e sí fieramente accesa, che tutta fuor di sé rapita e nel cavaliero trasformata quasi non sapeva muovere il passo; ma tutta intenta nel viso di lui lo rimirava, non le parendo mai aver in vita sua sentita tal dolcezza quale in contemplarlo gustava, e volentieri quivi fermata si sarebbe per meglio poterlo a suo agio rimirare. Don Giovanni smontato da cavallo venne cortesemente a basciarle le mani, come a gentildonna che in Italia avesse di lui la sorella accarezzata, e quella ringraziando, le disse che ella fosse la ben venuta, offerendole quanto poteva e valeva. E cosí offerendosi e ringraziandosi, parve al cavaliero che quella fosse la piú bella ed aggraziata donna che veduta egli avesse giá mai. Ed in quel poco che insieme ragionarono, avvenne per sorte che gli occhi di amendui vista per vista si scontrarono, di tal maniera che se possibil era accrescer al fuoco de la duchessa nuova ésca, quella vista ve n’accrebbe, e il cavaliero restò sí fieramente da lo splendore di quei dui ardentissimi lumi infiammato, che subito si sentí restar dentro a quelli preso, e in lui non esser parte alcuna che per amore de la bellissima peregrina tutta non ardesse. Ma nessuno di loro ardiva le sí cocenti fiamme discoprire, anzi quanto piú poteva si sforzava celarle. Il che era cagione che miseramente si struggevano, perciò che quanto l’amoroso fuoco celato si tiene, tanto piú arde e consuma l’amante. Stette tre dí la duchessa a riposarsi in casa di don Giovanni, molto onorata e festeggiata; e, cercando con la vista de la cosa amata scemare il fiero ardore che miseramente la struggeva, quello d’ora in ora faceva maggiore. Era al medesimo termine il cavaliero, il quale, quanto piú le belle e vaghe bellezze de la donna contemplava e tra sé lodava, tanto piú per gli occhi l’invisibile ed amoroso veleno beveva, di modo che fuor di misura ardendo non sapeva che farsi. Ora, che che se ne fosse cagione, la duchessa, levatasi il quattro giorno a buon’ora, preso congedo da la signora Isabella, si partí con la sua compagnia e s’inviò a la volta di San Giacomo. Don Giovanni, intesa la subita partita de la duchessa, si trovò molto di mala voglia, non sapendo imaginarsi che cosa avesse mosso la duchessa a partirsi di quella maniera. Onde fatto sellar alcuni cavalli, con alquanti dei suoi andò dietro a le pedate de la duchessa, e, galoppando, in breve tempo quella, che a piedi caminava, sovragiunse. Ed arrivato che fu, dismontò da cavallo e, fatta la debita riverenza a la duchessa, le disse: – Signora, io non so la cagione perché cosí a l’improviso vi siate partita, e duolmi forte che io non v’abbia potuto render gli onori e piaceri che a mia sorella avete per cortesia vostra fatti. E se per disgrazia cosa alcuna fosse stata fatta a voi, a nessuno dei vostri, che non sia convenevole, degnando voi di farmelo intendere, io ne farò giusta emenda. – La duchessa ringraziò il cavaliero e disse che non aveva da lui a dai suoi ricevuto se non onore e cortesia, del che confessava avergli obligo; e se partita era senza fargli motto, che non era stato per altro se non per non farlo svegliare. Cosí ragionando, l’accompagnò il cavaliero a piede, e, venendogli in destro che da nessuno poteva esser sentito, le disse: – Signora mia, io resto forte smarrito che non vi sia stato a grado che in casa mia non abbiate voluto esser da pari vostra onorata, che essendo voi sorella di re e moglie di duca, io sempre ne rimarrò con gran cordoglio di non v’aver trattata come meritate e come era il debito mio. Ché se mai si saperá che voi siate albergata in casa mia e il poco conto che tenuto io abbia di tanto alta donna, il mondo mi terrá cavaliero di poca stima, e, dove io colpa alcuna non ho, resterò appo ciascuno biasimato. Almeno, signora mia, fatemi questa grazia, che al ritorno vostro mi sia concesso come donna reale e come quella che lo vale onorarvi. Ché facendomi voi tanta grazia, io mi vi terrò eternamente ubligatissimo. – Ora vi furono assai parole, lamentandosi la duchessa de la signora Isabella che scoperta l’avesse. A la fine essendo tutti dui fuor di misura l’uno de l’altro accesi, non seppero sí bene gli amori loro celare, che fu bisogno che l’ardenti e vivaci fiamme mandassero le faville fuori e si scoprissero. Il perché ritrovatisi tutti dui ardere, dopo l’aversi tra loro aperti i lor amori, restarono d’accordo che ella, visitato che avesse le reliquie del santo, farebbe nel tempio il «novendiale», come tutti i peregrini sogliono fare, che per nove giorni continovi ogni dí usano alcune cerimonie in quella chiesa, e che dopoi se ne verrebbe a starsi alcuni dí seco. E con questa conchiusione preso congedo, la duchessa verso il santo riprese il camino e il cavaliero tutto gioioso a casa se ne ritornò. Ma lasciamo alquanto questi innamorati e diamogli tempo di pensar ai lor amori, e parliamo un poco del duca di Savoia, al quale dopo molti dí parve d’aver molto mal fatto a lasciar andar una sorella del re de l’Inghilterra e sua consorte cosí privatamente a tanto lungo viaggio. Onde meglio pensando, e desideroso di emendar il fallo commesso, convocò i suoi consiglieri e propose loro il caso. Fu da tutti detto che era, quanto piú tosto fosse possibile, da rimediare a la trascuraggine usata, e per piú spediente si prese che il duca stesso per mare v’andasse; onde fatto spalmare alcuni legni che vicini a Nizza aveva, con onorevole comitiva di molti cavalieri e gentiluomini si mise in mare. Ed avendo prospero vento, si condusse dal mare Mediterraneo ne la Gallicia passando lo stretto di Gibilterra, e v’arrivò a punto il nono dí che la duchessa finiva tutte le cerimonie del suo voto. Fu grande l’allegrezza di tutta la brigata quando videro il lor signore; ma la duchessa si trovò molto discontenta, veggendo troncata la via ai suoi amori. Medesimamente l’Appiano e Giulia, che dei pensieri de la duchessa erano consapevoli, molto se ne attristarono. Tuttavia dissimulando la loro mala contentezza, si mostravano tutti tre allegri. Il duca, narrato a la moglie la cagione de la sua venuta, il dí seguente, avendo anco egli visitate e divotamente riverite le sante reliquie de l’apostolo, in nave con la moglie e tutta la brigata entrato, fece scioglier le navi e dar le vele ai venti; ed avendo voglia di veder suo cognato, navigò verso Inghilterra, e quivi con prospera navigazione pervenuto, fu dal re lietamente raccolto e con molti piaceri festeggiato. La duchessa ancor che in vista si mostrasse allegra, era nondimeno fieramente ne l’animo attristata, e quando agio aveva, con l’Appiano e Giulia si sfogava ed acerbamente la sua sciagura piangeva, parendole pur troppo difficile a sopportare che su il fiorire dei suoi amori, essendone giá per nascer il desiato frutto, dopo tante fatiche e tante afflizioni di mente e di corpo, le fosse stato disperso e guasto il fiore, e levata ogni speranza che piú potesse cogliere il frutto giá mai. L’Appiano e la Giulia a la meglio che potevano la confortavano, dicendole che esser non poteva che don Giovanni non venisse a trovarla a Turino; ma ella non era capace di ricever consolazione alcuna, tanto a dentro la malinconia era penetrata. Tuttavia per non dar sospetto di veruna cosa al marito e al re suo fratello, lieta fuori via si mostrava, celando quanto piú poteva le acerbissime sue passioni. Stettero alquanti dí in Inghilterra, ove il re non lasciò cosa alcuna a fare che al cognato ed a la sorella potesse esser di piacere e d’onore. Non volle il duca, da la lunga navigazione fastidito, tornare per il viaggio che prima fatto aveva, ma deliberò di passar a Cales, e per la Francia tornar al suo stato. Il re a la sorella, prima che si partisse, donò un ricchissimo diamante di valuta di piú di cento milia ducati. Partendosi adunque d’Inghilterra il duca e la duchessa, navigarono a Cales, e rimandate le navi indietro, avendo giá fatta provigione di cavalcature, vennero a Parigi, ove dal re cristianissimo furono lietamente ricevuti ed onorati, massimamente che il duca savoino era capitan generale del re. Indi poi andarono in Savoia, ove dimorati alcuni dí, passarono l’Alpi e pervennero a Turino. Era la duchessa fuor di modo dolente e tanto piú cresceva il suo dolore, quanto che manifestamente non lo poteva sfogare, non osando mostrarlo a persona se non a l’Appiano e a Giulia. Ma che credete voi che facesse don Giovanni, che non meno de la duchessa ardeva? Egli non veggendo tornar al tempo debito la duchessa, e numerando non solo i giorni ma l’ore, poi che indarno oltra il termine ebbe cinque e sei dí aspettato, si meravigliò molto forte e dubitò che alcuno strano accidente le fosse occorso; onde mandò un suo fidatissimo in Galizia per intender ciò che n’era. Andò il messo, e giunto lá intese dagli uomini del luogo come la peregrina che aveva visitato l’apostolo era la duchessa di Savoia, e che il duca per mare era quivi pervenuto e menatala seco per mare. Ritornò il messo e il tutto ordinatamente a don Giovanni narrò. Il cavaliero, udita questa novella, dubitò che la cosa fosse stata a mano fatta e ordita, e che la duchessa senza fallo l’avesse beffato. Nondimeno egli sofferiva grande ed indicibil pena, e tuttavia gli pareva che le sue fiamme vie piú s’infiammassero e il desio di veder la duchessa ogni momento d’ora piú crescesse, di modo che lo sfortunato amante, ardendo, agghiacciando, sperando e disperando, e piú che mai amando, menava una pessima vita. Mentre che egli in questa maniera si consumava, e la duchessa non meno di lui si struggeva, avvenne che gli alamanni, fatta una poderosa oste, assalirono la Francia, guastando e ardendo ovunque andavano. Il duca di Savoia, come general capitano del re, essendone a buon’ora avvertito, cavalcò con tutte le genti d’arme al contrasto. Ma prima che partisse da Turino, lasciò suo luogotenente generale un suo parente che era conte di Pancalieri, col Conseglio, appresso la duchessa. Cominciò il conte a governar le cose del ducato a la meglio che sapeva, e il tutto, secondo che il duca aveva ordinato, conferiva con la duchessa, di modo che ognora le era appresso. E conversando assiduamente con lei e veggendola bellissima, di governator de lo stato divenne consideratore ed amatore de la bellezza de la duchessa, e di cosí fatto modo e tanto fieramente se n’innamorò che non trovava riposo. Egli mai non aveva avuta moglie né figliuoli, ma teneva in luogo di proprio figliuolo un suo nipote, figliuolo d’un suo fratello, che era signor di Raconigi, il qual giovine stava in corte de la duchessa, e poteva aver quindici o sedeci anni quando primieramente ci venne, e giá piú di dui anni servito aveva, ed era assai bello e costumato. Il conte suo zio, che sentiva un poco de lo scemo anzi che no, trasportato da l’amoroso ed ingordo appetito, persuadendosi che donna, quantunque grande e bella, non ci fosse che non devesse aver di grazia d’esser da lui amata, ardí richieder la duchessa d’amore e narrarle come per amor di lei fieramente ardeva. Ella, che altrove aveva i suoi pensieri collocati e non averia degnato mostrargli la punta d’una de le sue scarpette, con rigido viso gli disse che di simil sciocchezza non fosse oso parlarle piú mai. Ma il pover uomo, che troppo era stimolato dal fuoco amoroso, ritornò pure un’altra volta a molestarla, piú strettamente che prima supplicandola che di lui volesse aver compassione. Ella, oltra modo sdegnata, di tanta temeritá agramente e con minacciosa voce ripigliandolo, disse: – Conte, io v’ho perdonata la prima, ed ancor che nol meritate, vi perdono questa seconda vostra sciocca e temeraria presunzione. Guardate non tornarci piú e non siate mai tanto ardito di parlarmi di simil sceleratezza, perché io vi farò far un scherzo che non vi piacerá. Attendete a far l’ufficio che il signor mio consorte v’ha commesso, e non incappate piú in tanto errore, per quanto la vita avete cara. – Conobbe il conte l’animo pudico ed inespugnabile de la duchessa, e giudicò che indarno s’affaticava. Dubitando poi che la duchessa non desse di questa sua pazzia avviso al duca, deliberò prender un tratto avantaggio e rovinar essa duchessa, e il suo fervente amore cangiò in un tratto in odio crudelissimo. E cadutogli in animo ciò che di far s’imaginava, pensò vituperosamente poterla far morire; e in atti e in parole mostrandosi in tutto alieno da quel suo amore, attendeva al governo come era ufficio suo. Prese poi piú de l’usato domestichezza familiare e quasi da compagno col nipote di cui vi parlai, e d’altro seco non ragionava che di cose amorose; e tra l’altre un giorno gli disse che non era piacer al mondo uguale al grandissimo diletto che sentiva un giovine che di bella e gran donna si trovasse innamorato, massimamente quando l’amore si trovava reciproco. Ed avendo adescato il giovine a questi ragionamenti, non dopo molto in segreto gli disse: – Nipote mio, a me come figliuolo mio proprio carissimo, metti ben mente a quanto ora ti dico, perché se sarai savio e attenderai ai miei consegli, io ti prometto che tu averai il meglior tempo che uomo di questo paese. – Il giovinetto, che teneva lo zio in luogo di padre, gli rispose che era presto ad ubidirgli e far quanto egli degnasse di comandargli. Alora il ribaldo conte gli disse: – Io mi sono accorto, figliuol mio carissimo, che la duchessa nostra ti vuol un gran bene e t’ama fuor d’ogni misura. Io conosco chiaramente che si va struggendo come cera al fuoco, ed altro non desidera che trovarsi a le strette teco. Ma ella fa come tutte le donne generalmente fanno, che ancora che bramino una cosa, vogliono per lo piú esser pregate ed hanno piacer grandissimo che gli uomini le ingannino, a ciò paia che con astuzia o forza siano tirate a darsi in preda ai lor innamorati. E quando elle amano un giovine e a lungo andare conoscono che non sia avveduto e audace, se ne sdegnano e volgono il lor amore altrove. Io, nipote mio, ti parlo per isperienza: perciò credi a me e fa quanto ti dico. Io vo’ che questa sera, quando tu vederai il commodo, che tu ti appiatti sotto il letto de la duchessa e quivi dimori sino a le sette ore de la notte, perché alora ella sará nel primo sonno sepolta e le sue donne dormiranno tutte. Alora ti leverai chetamente, ed accostatoti al letto, le porrai la mano sul petto e pian piano le dirai chi tu sei. Io so ciò che ti dico e non ti parlo al vento. Ella, come ti conosca, ti fará entrar seco nel letto, e goderai a tuo piacere cosí nobil donna. Io per me mi terrei beato se fossi in luogo tuo. – Credette il semplice giovine a lo zio, forse pensando che quello per commessione de la duchessa gli parlasse. E chi sarebbe stato che ad uno zio carnale creduto non avesse, veggendolo parlare sí assicuratamente? Fece adunque il giovinetto secondo il malvagio conseglio del ribaldo e traditore zio, e presa l’oportunitá, si nascose sotto il letto. La duchessa lá circa le cinque ore si corcò. Il malvagio e disleale conte, come furono toccate le sei ore, non aspettando l’ora che al nipote prefissa aveva, a ciò che il tradimento non si discoprisse, presi alquanti de la guardia del castello e tre consiglieri, perché ciascuno come a luogotenente del loro signore gli ubidiva, e poteva entrare ed uscir di castello ogni volta che voleva, se n’andò a la camera de la duchessa, senza manifestar a nessuno ciò che far intendesse. E picchiato fortemente a l’uscio che aperto fu, entrò dentro con molti lumi e con quelli de la guardia armati. Aveva egli uno stocco nudo in mano. Si meravigliò grandemente la sbigottita duchessa di questo atto e non sapeva che dirsi, quando lo sceleratissimo conte fece cavar di sotto il letto il proprio suo carnal nipote, e, prima che il povero giovine potesse dir pur una parola, a ciò che non palesasse come lo zio quivi entro l’aveva fatto nascondere, gli disse: – Traditore, tu sei morto! – e gli diede de lo stocco nel petto e lo passò di banda in banda. Il misero giovine subito cascò boccone in terra morto. Alora il fellone e traditor conte, rivolto ai consiglieri, disse loro: – Signori miei, sono giá piú giorni che io m’avvidi del disonesto amore di questo ghiotto gavinello di mio nipote, ché ha fatto troppo bella morte, meritando d’esser arso o squartato a coda di cavallo. Ne la signora duchessa io non vo’ porre le mani, sapendo voi che in Piamonte e in Savoia è una legge che ogni donna trovata in adulterio debbia esser arsa, se fra un anno e un dí non ritrova campione che combatta per lei. Io scriverò al re suo fratello ed al duca il caso come è seguito. Fra questo mezzo sotto buona guardia la signora duchessa resterá qui in queste camere con le sue damigelle. – Restarono i consiglieri e tutti gli altri attoniti a cosí fiero spettacolo. La duchessa si scusò assai e chiamò Dio e i santi in testimonio come di suo consentimento mai il misero giovine non s’era appiattato sotto il letto, ma nulla le valse. Restò adunque la sconsolata duchessa confinata in quella camera. Il disgraziato giovine la matina fu senza pompa funerale sepellito. Gongolava, ebro d’odio, il traditor conte, e per messo in posta scrisse al re d’Inghilterra e al duca la cosa come era successa, e volse che i consiglieri in conformitá scrivessero. Era la duchessa sovra modo amata da tutti quei popoli, perciò che mai non cercò d’offender persona, e a tutti, quanto poteva, giovava; onde del suo infortunio a ciascuno senza fine doleva. E perché quelli de la guardia usavano gran discrezione in lasciar andar dentro ed uscir il medico e non gli mettevano mente, la signora duchessa a poco a poco col mezzo de l’Appiano mandò fuori tutti i suoi danari e gioie che aveva ed ori battuti assai. Le quali tutte cose l’Appiano in casa sua ripuose. Il re e il duca, avute le lettere, a cosí disonesto avviso si trovarono molto di mala voglia. Dava grandissimo credito al fatto ed a l’accusazione del perfido conte l’aver egli il proprio nipote ammazzato, sapendosi quanto l’amava e come per erede suo se l’aveva eletto. Riscrisse il duca al suo governatore ed al Conseglio che l’antica consuetudine del paese fosse osservata. Il perché fuor di Turino, in quella campagna che si distende tra il ponte del Po e de la cittá, fu messo sovra un’alta colonna di marmo, che per simili affari lungo tempo innanzi era stata quivi fermata, l’accusazione in iscritto del conte di Pancalieri contra la duchessa. Ora intendendo essa duchessa l’ultima resoluzione venuta dal duca, non è da dire se si trovò di mala voglia, e tanto piú s’attristava quanto che si conosceva del peccato, del quale era accusata, innocente. Diede adunque ordine a tutte le cose sue, e vestita di panni bruni menava una durissima vita. Ella aveva, come s’è detto, mandato il meglio che avesse in casa del suo medico, l’Appiano, e solamente aveva appo sé, non so per qual cagione, ritenuto il prezioso diamante che il re suo fratello in Inghilterra le donò. Le furono levate dal ribaldo governatore tutte le donne che servir la solevano. Tuttavia la Giulia seppe sí ben dir e fare, che dal conte ottenne poter il giorno tener compagnia a la sua padrona. In questo tempo don Giovanni Mendozza, che infinitamente si trovava mal sodisfatto de la duchessa e si faceva a credere d’essere stato gabbato da lei, ebbe un’altra afflizione grandissima, perché fu vicino a perder lo stato e la vita. I signori de la casa giá detta di Toledo, i quali, come vi dissi, avevano avuto una gran rotta, ad altro non attendevano che di trovar occasione di render la pariglia al Mendozza e, se possibile era, d’ammazzarlo. Il re di Spagna ancor che vedesse i gravi disordini che per queste due potentissime fazioni nel suo regno seguivano, nondimeno non si curava troppo di mettergli ordine, anzi pareva che avesse piacere che tra loro si rovinassero, per avergli poi ubidienti. Ora la bisogna andò di modo che, essendo tutte due le parti armate in campagna con numeroso e potente essercito, vennero a le mani a battaglia campale, ne la quale ancora che don Giovanni facesse opera di strenuo e fortissimo soldato e di provido e valoroso capitano insieme, fu rotto ed a gran pena si puoté in una cittá salvare. Era la cittá fortissima e ben fornita di vettovaglia e di soldati per un anno. Colá dentro adunque fu da’ nemici suoi don Giovanni assediato, con poca speranza di poter aver soccorso, di modo che i dui amanti erano ridotti a malissimo partito. Ma chi potrebbe narrare le lagrime che la Giulia quasi ogni dí spargeva visitando la signora duchessa? Sopportava questo suo infortunio essa duchessa con forte animo, e secondo che ella deveva esser consolata, confortava Giulia a sopportar il tutto in pace e non s’affliggere. Conchiusero poi un giorno tra lor due che non era se non benissimo fatto, che l’Appiano andasse a gran giornate in Ispagna a cercar aita da don Giovanni, con quella meglior via che sapeva, ed assicurarlo che la duchessa era falsamente accusata. Fece la duchessa una lettera di credenza di sua mano a don Giovanni. Montò l’Appiano su le poste, e usata grandissima diligenza, pervenne vicino a la cittá assediata. Ed intendendo la cosa come stava, si trovò molto di mala voglia, stimando non esser possibile che don Giovanni potesse andar a soccorrer la duchessa. Tuttavia come diligente ed amorevol servidore che era, e che senza fine bramava di poter porger aita a la duchessa, deliberò non si partire se prima non parlava con don Giovanni. Avvenne che s’attaccò una gran scaramuccia tra quelli di fuori con quelli di dentro. Il buon medico, avuto modo di ricuperar, non so come, una rotella, si mise animosamente con la spada ignuda in mano ne la scaramuccia, e tanto innanzi combattendo andò, che da quelli di dentro fu fatto prigione, e disse loro: – Menatemi subito al signor don Giovanni, perché ho cose di grandissima importanza da communicargli. – Fu incontinente menato a la presenza di don Giovanni, il quale subito il riconobbe per uno di quelli che con la duchessa veduto aveva, e graziosamente lo raccolse. Tiratolo poi da parte, gli domandò che buone novelle aveva de la signora. – Pessime, – disse l’Appiano, – perciò che ella è in periglio grandissimo d’esser arsa vituperosamente, se non le è dato soccorso. – E fattosi da capo, gli narrò il dispiacere che avuto aveva quando in Galizia arrivò il duca con le navi, veggendo non esser possibile attendergli la promessa. Indi gli disse che tutta la speranza, che aveva la duchessa d’esser liberata, era in lui, e che l’assicurava che ella punto di quanto fu accusata non fu colpevole giá mai. Pertanto affettuosissimamente pregandolo, lo astringeva che non le volesse in cosí importante bisogno mancare. E quivi usò il medico tutta l’arte del persuadere che puoté e seppe, a ciò che don Giovanni si movesse a pietá de l’infelice duchessa e volesse disporsi di liberarla. Don Giovanni assai si condolse con l’Appiano de la disgrazia avvenuta a la duchessa, e tanto piú se ne dolse quanto che egli si trovava assediato dai suoi nemici, e non era possibile d’abbandonar quella cittá. L’Appiano, che vedeva che egli diceva il vero, non sapeva che dirsi. Insomma, veggendo che indarno quivi s’affaticava, deliberò di non perder piú tempo, ma ritornarsene a Turino. Don Giovanni, fatta attaccar una grandissima scaramuccia, fece uscir fuori il medico e da alcuni dei suoi accompagnarlo in luogo sicuro; il quale, arrivato a Turino, fece per mezzo di Giulia intendere a la duchessa del modo che trovato aveva don Giovanni ed il ragionamento che insieme fatto avevano. La duchessa, udita questa mala nuova, disperata d’ogni soccorso, non sapeva piú che si fare né dire, né dove per aita ricorrere. Indi alquanti dí poi che l’Appiano partí da l’assediata cittá, don Giovanni a l’infortunio de la duchessa pensando e seco l’amore di quella rammentando, che da Turino fin in Galizia a piedi se n’era venuta solo per amor di lui, giudicò grandemente aver errato a non esser subito corso a liberarla e mettere non che lo stato suo a rischio di perderlo, ma di perder la vita e mille, se tante n’avesse. E non si potendo di questo fallo dar pace, si deliberò, avvenissene ciò che si volesse, lasciar lo stato suo meglio provisto che fosse possibile, ed incontinente, passando in Italia, usar ogni sforzo per liberar la misera duchessa. Fatta questa ferma deliberazione e rivedute le cose de la cittá, ritrovò quella esser ottimamente fornita di tutto quello che a mantenersi otto o nove mesi era necessario, sapendo egli i soldati e il popolo che dentro ci era esser fedelissimi. Fece adunque a sé chiamar i primi de la cittá e i capi dei soldati, e gli disse come deliberato era di partirsi per andar a trovar soccorso per liberargli da l’assedio, e che se fra tal termine non tornava, (e prefissegli un tempo determinato), che provedessero ai casi loro; ma che senza verun dubio innanzi il tempo preso lo vederebbero con grosso soccorso. Ordinò poi che un suo parente, molto valoroso cavaliero, restasse suo luogotenente. Fatta poi dar una forte «a l’arme» a’ nemici, senza esser da quelli veduto, se n’uscí suso un feroce e generoso giannetto, e prese il camino tutto solo a la volta de la Francia, dove pervenuto, comperò un buon corsiero ed arme, ed un servidore pigliò. E non essendo da persona conosciuto, né dal suo medesimo servidore, passò l’Alpi e si condusse a Turino. Era giá prima, come v’ho detto, arrivato il medico, ed ancor che la duchessa avesse perduta la speranza del soccorso di don Giovanni, nondimeno pensando poi un giorno ciò che ella per amor di lui fatto aveva, rientrò in speranza che esser non potesse che egli tanto ingrato fosse che non venisse a combatter per lei contra il disleale conte di Pancalieri; e con questa speranza visse alquanto di tempo. Ma poi, veggendo che né messo né ambasciata di lui veniva, ella in tal modo si sdegnò ne l’animo suo che il fervente amore cangiò in fierissimo odio. E pensando ciò che per lui fatto aveva, entrava in grandissima còlera e diceva tra sé: – Io, io, misera me! come accecata era, come uscita d’intelletto mi trovava, e come in tutto ogni buon sentimento aveva perduto se in un disleale cercava fede! – E quivi la sconsolata duchessa, vinta da l’acerbitá de la passione, diceva tanto male di don Giovanni quanto d’un ingratissimo e perfido dir si possa, e con questo sfogava alquanto il suo acerbo dolore. Giulia, che non si poteva persuadere che il re d’Inghilterra non mandasse un campione in aiuto de la sorella, ogni dí due e tre volte andava al luogo de lo steccato a vedere se alcuno compariva. Ma il re inglese, credendo che in effetto sua sorella fosse veramente stata ritrovata in adulterio, era contra lei fieramente sdegnato, e diceva che meritamente deveva esser arsa. Pervenuto la sera don Giovanni a Turino, albergò in un borgo in casa d’un oste, uomo da bene; e nel ragionar seco, intese il duca esser contra gli alamanni e la duchessa incarcerata, de la cui disgrazia diceva l’oste che a tutti fortemente doleva, perché tutto il paese meravigliosamente l’amava. Intese anco ne la cittá esser un venerabile religioso spagnuolo in grandissima riputazione appo il Conseglio ducale e tutto il popolo, e si fece dire il nome de la chiesa ove abitava. Venuta la matina, levatosi don Giovanni da quello albergo, si fece menare a la chiesa del religioso spagnuolo. Quivi picchiato a la porta de l’abitazione, venne il buon frate ad aprire, a cui don Giovanni parlando spagnuolo disse: – Padre mio, Dio vi contenti. Io sono uno spagnuolo che vengo per miei affari in queste parti, e per essere straniero, avendo inteso voi essere spagnuolo, son venuto ad albergar con voi né altro voglio che coperto per me e i miei cavalli, ché del resto questo mio servidore provederá quanto bisogna. – Il buon uomo volentieri l’accettò e introdusse in casa; e mentre che il famiglio andava per la cittá a comprar da vivere, don Giovanni domandò al frate di che paese era di Spagna. Egli liberamente glielo disse. Onde, conoscendo don Giovanni costui esser dei suoi soggetti e di quella propria cittá che assediata era, minutamente di molte cose l’essaminò, di modo che senza dubio si certificò quello esser dei suoi. Per questo se gli scoperse, dicendo chi era. Il frate udendo questo e meglio guardatolo, essendo poco che era stato nel paese, lo riconobbe e se gli voleva gettare a’ piedi a la foggia degli spagnuoli, che i loro prencipi adorano come dèi terreni; ma don Giovanni nol sofferse. Narratogli poi la cagione perché a quel modo incognito venuto fosse, gli disse: – Padre, voi sapete che io son cavaliero e perciò tenuto a diffender tra gli altri le donne che contra il debito sono aggravate. Io ho assai buona informazione come questa signora a gran torto è stata con falsa accusazione aggravata; ma per meglio chiarirmene, vorrei parlar seco, e sotto colore di confessione intender chiaramente il vero. Voi mi vestirete da frate, e chiederete licenza da chi la tiene in custodia, di voler visitarla e confortarla a pazienza e a sofferir per remissione dei suoi peccati la morte; e quando saremo colá dentro, lasciarete del rimanente la cura a me. – Molte altre cose seppe sí ben dire il cavaliero, che il semplice frate, che non era il piú avveduto né dotto uomo di quei contorni, si lasciò avviluppare il cervello e andò a trovar il governatore, avendo giá prima da religioso vestito il cavaliero e tonduto, e gli disse: – Monsignore, perché s’appropinqua il tempo de la morte de la sfortunata duchessa, io mi sono mosso a compassione de l’anima sua, ché se per i peccati ella perde il corpo, non perda almeno l’anima. Io le dirò de le cose spirituali, secondo che nostro signor Iddio mi spirerá, e spero in quello che mi dará tanta grazia che la disporrò a morire pazientemente. – Il governatore, ancora che fosse maligno e sceleratissimo, nondimeno per mostrar al popolo che de la morte de la duchessa gli calesse, disse che era contentissimo, e mandò al castellano che lasciasse che il religioso col suo compagno entrasse ne la camera de la prigione a parlare a la signora duchessa. E cosí entrarono tutti dui: e perché il termine de la morte era vicino, ciascuno credeva che il governatore avesse mandato quei frati per udir l’ultima confessione de la povera duchessa. Era la camera de la prigionia grande, ma in modo chiuse le finestre che nulla o molto poco di luce vi si vedeva. Entrati che furono i frati dentro, disse don Giovanni, che la lingua italiana benissimo parlava: – La pace del nostro Salvatore, madama, sia con voi. – La duchessa, che in un canto tutta sconsolata sedeva, rispose: – Chi sète voi che a me qui di pace ragionate, che priva sono d’ogni pace e d’ogni bene, e in breve aspetto contra tutte le ragioni del mondo una vituperosissima morte, senza averla meritata giá mai? – Seguendo don Giovanni il tuono de la voce, s’accostò a la duchessa e le disse: – Madama, io sono un povero frate che capitando in questa cittá ho inteso il grave infortunio vostro, e mosso a pietá di cosí orrendo caso, son venuto a visitarvi ed insieme a confortarvi. – E quivi don Giovanni le disse di molte cose, con sí bel modo che la signora duchessa deliberò confessarsi seco, e cosí cominciò a confessarsi, e come quella che speranza non aveva di piú vivere, fece una intiera e general confessione, per la quale di leggero don Giovanni conobbe quella esser innocentissima. Aveva la duchessa nel confessarsi detto come il viaggio di San Giacomo era stato finto, e che fatto l’aveva solamente per andar a veder un disleale ed ingratissimo cavaliero spagnuolo. L’essortò assai don Giovanni a perdonar tutte l’offese che mai ricevute avesse. Ella disse che a tutti perdonava di core, come desiderava che Iddio a lei perdonasse; ma che non sapeva giá mai come potrebbe perdonar a quello ingrato cavaliero che piú che la vita propria amato aveva. Godeva a queste parole tra sé don Giovanni e tuttavia l’essortava a rimetter l’ingiurie. A la fine promise la duchessa di perdonar a tutti. Aveva, come giá vi dissi, riserbato la duchessa il ricchissimo diamante; l’oro, le perle e gioielli, con altre cose, che avevano l’Appiano e Giulia, intendeva ella che gli rimanessero, avendole eglino data la fede di maritarsi insieme. Non avendo adunque altra cosa da far elemosina, disse ella al frate: – Padre mio, di tutte le cose mie altro non m’è rimasto che questo diamante, il quale mi donò il re mio fratello, e, per quanto piú volte m’hanno detto grandissimi gioieglieri, val piú di cento mila ducati. Io ve lo do. Voi potrete venderlo al re di Francia, che molto se ne diletta, e del prezzo che ne caverete fate dir de le messe ed altri uffici per l’anima mia. Maritarete de le povere donzelle e farete de le elemosine assai ai poveri di Cristo e ai luoghi pii. Per voi e vostri bisogni tenetevene quella parte che piú vi piace, e pregate Dio per l’anima mia. – Dette poi molte altre cose e raccomandata la duchessa a Dio, uscirono i buoni religiosi de la camera e andarono a casa. Restò la duchessa piena di certa speranza, ma non averebbe saputo dir come. Don Giovanni, avendo donato molti danari al frate, attese per mezzo del suo servidore a far conciar l’arme ove bisognava, e metter ben ad ordine il corsiero. La sera poi del penultimo dí del termine de l’anno e del dí, uscí ben tardi di Turino e si ridusse a casa de l’oste, ove l’altra volta era albergato. La matina poi ne l’apparir de l’aurora, armato come un san Giorgio, se ne montò a cavallo e andò a la porta de la cittá, e, chiamato uno di quelli che a la guardia stavano, gli disse: – Compagno, va e di’ al conte di Pancalieri che si metta in ordine a mantener la falsa accusa che data ha contra madama la duchessa di Turino, perciò che egli è venuto un cavaliero che si dice campione di lei, che lo fará disdire di quanto a disonore di quella ha detto. – Fece il guardiano l’ambasciata, e il cavaliero andò al petrone ove era scritta l’accusa e a quello appoggiò la sua lancia, e quivi se ne stava, aspettando l’accusatore che fuori uscisse. La fama di questo campione subito si sparse per la cittá. Giulia corse a vedere, e come ebbe veduto il cavaliero, per meglio certificarsi, se gli accostò e gli domandò se era venuto per diffesa di madama la duchessa. Conobbe il cavaliero quella esser la fidata cameriera, ed umanamente le rispose che per la salute de la duchessa era venuto e che sperava in Dio quel dí far conoscere la innocenzia di quella. Giulia, che altrimenti nol conobbe, come forsennata se ne ritornò a la cittá, gridando che Dio aveva mandato un angelo in diffesa di madama. Il conte di Pancalieri faceva il ritroso e non si voleva condurre ne lo steccato, se non sapeva chi fosse colui che si diceva esser campione de la duchessa. Tutta la cittá era a romore, desiderando ciascuno la liberazione de la duchessa. Fu dai conseglieri risposto al conte che gli statuti antichi del ducato erano che l’accusatore fosse tenuto combatter con ciascuno che per campione de l’accusato e reo si presentava, con quella sorte d’arme che il difensore porterebbe, e che anco la persona accusata sotto buona guardia a la presenza dei combattenti fosse condotta. Non aveva piú core il perfido conte che un vil coniglio, conoscendo manifestamente che combatteva il falso; nondimeno, veggendo che combatter gli conveniva, fece buon animo e s’armò, e a lo steccato si condusse, ove giá la tremante duchessa, accompagnata da molti, era stata condutta. Quivi come vide il suo diffensore, s’inginocchiò e divotamente, col core levato a Dio, supplicava la divina pietá che al suo campione donasse la vittoria e non permettesse che la malizia e falsitá vincesse l’innocenzia. Presero adunque i dui combattenti del campo e con le lancie in resta si vennero ad incontrare e le ruppero gagliardamente; poi recatosi gli stocchi in mano, cominciarono a darsi di crudi colpi. Ma non istettero troppo a le mani, ché don Giovanni sí pesante e duro colpo diede sul braccio destro al conte, e gli fece ne la giuntura de la mano sí larga ferita, che il conte si lasciò cader in terra lo stocco. Il cavaliero tutto ad un tratto gli tirò ne la visiera de l’elmo una fiera stoccata, di modo che gli cavò un occhio. Il conte, per l’ambascia de la mano mezza tronca e per il dolore del perduto occhio spasimando, s’abbandonò, e tirato dal valoroso cavaliero, cascò in terra. Smontò subito don Giovanni e, levato l’elmo al conte, gli presentò la punta de lo stocco a la gola e gli disse con rigido e fiero viso: – Traditore, egli ti conviene qui a la presenza de la signora duchessa, dei conseglieri e di tutto il popolo manifestare chi fu colui che ti manifestò tuo nipote esser nascoso sotto il letto de la signora duchessa. – Il conte veggendosi vicino a la morte, tratto un grandissimo sospiro, disse: – Non permetta Iddio, poi che il corpo è perduto, che insiememente io perda l’anima. – Onde narrò tutto il tradimento che ordito aveva, e come indusse il povero nipote a far quella follia e la cagione per che. Gridava il popolaccio: – Ammazza! ammazza il traditore! – Alora don Giovanni, montato a cavallo, disse ad alta voce: – Il mio ferro non si tinge in sangue d’uomo morto. – In questo, beato colui che si poteva accostar a la duchessa e mostrarle con parole e gesti l’allegrezza che ciascuno aveva di vederla liberata. Altri del popolo si misero impetuosamente a disarmar il conte ch’era giá quasi morto, e lo strascinavano per lo steccato, di modo che subito morí. Mentre che questo si faceva, don Giovanni lieto de la vittoria, fatto cenno al suo servidore, passò il ponte del Po e se ne andò di lungo a Cheri e in Asti, ed indi a Genova, ove imbarcatosi passò in Ispagna. Era la duchessa in mezzo a tanta calca dei suoi uomini di Turino, e tutti erano tanto intenti a torno a lei, che nessuno s’accorse che il campione che liberata l’aveva fosse partito; del che come la duchessa s’avvide, n’ebbe dispiacer grandissimo e non seppe ritrovar giá mai chi sapesse dire da che banda il valoroso campione fosse ito. Ora arrivato che fu don Giovanni in Ispagna, e inteso che la sua cittá si manteneva gagliardamente, impegnò a certi mercadanti genovesi il diamante avuto da la duchessa ed alcuni altri gioielli che seco da casa portati aveva, ed ebbe anco altri danari da certi prencipi amici suoi, di maniera che congregò alcune migliara di scelti soldati, e sí bene seppe fare i fatti suoi che, avendo mandate spie ai suoi ne la cittá, assalí di notte a l’improviso il campo dei nemici. Saltarono fuori quelli di dentro animosamente, di maniera che essendo gli assediatori combattuti dinanzi e di dietro, rimasero sconfitti e la piú parte morta. Don Giovanni, avendo liberata la cittá, non mancando né a sé né a’ suoi ma seguendo la buona fortuna, in pochi dí non solamente ricuperò lo stato suo, ma occupò alcune castella dei nemici e di tal maniera si fece poderoso che appo il re crebbe in grandissimo credito. In quei medesimi giorni che don Giovanni ricuperò il suo stato, si fece la giornata tra gli alamanni e franzesi, ne la quale dopo lungo combattere, i franzesi ebbero la peggiore, e vi fu ucciso il lor capitano generale, che era, come s’è detto, il duca di Savoia. Aveva giá il re d’Inghilterra avuta la nuova de la liberazione de la sorella, di cui aveva mostrata una allegrezza infinita, non tanto per la liberazione di quella quanto che s’era trovata innocente, e per un suo gentiluomo, che a lei mandato fu da lui, seco se n’era rallegrato. Udita poi la morte del duca, mise ad ordine un’onorata compagnia e mandò a pigliar la sorella e la fece condurre in Inghilterra, con animo perciò di rimaritarla; e fin che si trovasse partito a lei conveniente, le diede in governo una sua figliuola di sedici in dicesette anni, la quale giá era in pratica di dar per moglie al figliuolo primogenito del re di Spagna, che oggidí si suol nomare il prencipe di Spagna. Avendo poi inteso il re d’Inghilterra il modo de la liberazione de la sorella, e trovato che ella non sapeva chi fosse il suo campione, le promise, se mai saper poteva chi fosse il liberatore, di rimeritarlo come meritava. Del medesimo animo era la duchessa, la quale altro desiderio al mondo maggior non aveva, che poter conoscer il suo campione, e, quanto per lei si potesse, onorarlo e rimeritarlo, e per lo contrario far ogni opera per far ammazzar don Giovanni, che riputava esser il piú ingrato uomo che mai fosse nato; ed in questo pensiero era ogni ora fitta. Si conchiuse la pratica di fare il matrimonio de la figliuola del re d’Inghilterra con il prence di Spagna; il perché il padre del prence fece una scielta de’ primi gentiluomini di Spagna e fece lor capo don Giovanni, con carta di procura a sposar a nome del prence la figliuola del re inglese, e gli mandò in Inghilterra. Il re, intesa la venuta di cosí nobil compagnia, gli raccolse tutti molto onoratamente. Come la duchessa vide don Giovanni, grandemente si turbò e non volle, quando andò a far riverenza a la prencipessa, esser presente, ma si ritirò in una camera, tutta piena di sdegno, dicendo tra sé: – Come è possibile che questi spagnuoli siano cosí presuntuosi? Ecco che questo traditore sa quanto m’è mancato, e nondimeno presume venirmi innanzi. Ma io non sarò mai contenta, se non me lo veggio morto innanzi a’ piedi. – Il re, che nulla sapeva de le cose passate tra la sorella e don Giovanni, le mandò a dire che devesse raccogliere ed accarezzare il cavaliero spagnuolo venuto a sposar la sua figliuola. Ella molto mal volentieri uscí di camera e venne, tutta in viso turbata, in sala. Andò don Giovanni e volle riverentemente basciarle le mani; ma ella nol sofferse e a sé ritirò la mano, e si mise a parlar con un altro spagnuolo. La sera, nel convito, don Giovanni fu fatto seder a canto a la duchessa, la quale gli vide il ricco diamante in mano e conobbe che era quello che ella diede in prigione al frate. E bramosa di sapere come fosse capitato a le mani del cavaliero, ne parlò con l’Appiano, che insieme con Giulia aveva condotto in Inghilterra. L’Appiano dopo non molto si mise in ragionamento col cavaliero, e gli domandò onde avesse avuto il ricco anello. Egli sorridendo gli rispose che di grado lo diria a la signora duchessa, e gli faria intender cose che le piaceriano. La duchessa, intesa la risposta del cavaliero, molto mal volentieri si riduceva a parlar seco; ma vinta dal disio d’intendere come egli avesse l’anello avuto, vi si ridusse. Il cavaliero, fatto un breve discorso de l’inganno che si credeva aver avuto per non esser ella ritornata indietro da San Giacomo, e del modo che era assediato quando l’Appiano andò a trovarlo, e del pentimento che non fosse subito venuto a liberarla, come in effetto conosceva che era debitore di dever fare, le narrò che, pervenuto a Turino, prese la pratica del frate spagnuolo, e come fu quello che in prigione le disse la tal e tal cosa, e da lei ebbe il prezioso annello. E tanti contrasegni le diede che ella conobbe chiaramente don Giovanni essere stato il suo liberatore. Onde, messo giú ogni sdegno e riacceso l’intepidito fuoco, a pena si contenne di non gli gettar le braccia al collo e mille volte basciarlo. Parlò poi col re e gli fece conoscere don Giovanni essere stato il suo liberatore, e gli disse: – Signor mio, voi m’avete promesso di rimaritarmi e rimeritar il mio liberatore. E qual marito posso io avere che piú mi meriti di questo fedel e valoroso cavalero? – Il re volentieri vi s’accordò e lodò molto il volere de la sorella; onde gli fece insieme con gran piacer de le parti sposare. Volle poi la nuova sposa che la sua fidatissima Giulia si maritasse con l’Appiano; il che fatto, le feste si radoppiarono meravigliosamente. Ed indi a pochi dí, insieme con la prencipessa, bene accompagnati da’ signori inglesi, navigarono tutti di brigata lietamente in Spagna, ove le nozze del prencipe e de la prencipessa si fecero sontuosissime. Don Giovanni medesimamente, andato poi con la sua sposa a le terre sue, tenne molti dí corte bandita, e con quella lungamente in pace visse, lasciando dopo loro figliuoli e nipoti.


Il Bandello al molto magnifico e reverendo dottor di leggi


canoniche e civili messer Daniello Buonfiglio padovano salute


Voi poteste di leggero, in quel breve tempo che vi piacque star qui, conoscere quanto ad ogni proposito, o di cose gravi o di piacevoli che si parli, il nostro gentilissimo messer Filippo Baldo, gentiluomo milanese, sia ricco e abondante di motti, d’arguti detti e d’istorie cosí moderne come antiche, e con quanta memoria ed ordine le cose sue dica, di modo che mai non lascia rincrescere a chi l’ascolta. Egli ci ha narrato molte cose, ma tra tutte ce ne narrò una che a tutta la brigata piacque assai, per la quale si vede come sagacemente un prete si liberò da le mani del suo vescovo, che cercava castigarlo d’un peccato di cui era non meno di lui esso vescovo colpevole. Ed ancor che la cosa sia ridicola, nondimeno non devete sdegnarvi ch’io a voi la mandi, non essendo agli uomini gravi e in negozii di grandissima importanza occupati disdicevole talora in cose festevoli e da ridere rilassar l’animo, a ciò che poi piú vivace rientri nei maneggi ed affari importantissimi. Ho anco preso l’oportunitá di questi tempi di carnevale, nei quali ai chiusi ne le mura e chiostri de la religione è lecito trastullarsi e rimettere alquanto la rigidezza de la severitá de le lor leggi. State sano ed amatemi.