Notizie e presunzioni preliminari intorno ad alcuni dei marmi milanesi di Desio
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Notizie e presunzioni preliminari
intorno ad alcuni dei marmi milanesi di Desio.
Fra i marmi del XIV secolo venuti in luce in quel copioso Ripostiglio archeologico che venne esplorato recentemente nel giardino della Villa Antona-Traversi di Desio e di cui l’Archivio Storico Lombardo si occupò nel III fascicolo dello scorso anno, evvi un frontale d’avello che rivaleggia per pregi scultorii coll’altro già illustrato di Mirano de Bechaloe del 1310, accomunato dall’ingenuo poeta epigrafista col giusto Noè1.
È in marmo bianco di Carrara, cui il tempo ha dato un candore ed una lucidezza particolari, e delle consuete dimensioni di m. 1,70 di larghezza per un’altezza di cent. 65.
Ripartito in tre campi, come puossi vedere dall’unita eliotipia, offre in quello di mezzo la raffigurazione tipica degli avelli funebri del XIV secolo del defunto ginocchioni che vien presentato da Santa Caterina, contraddistinta dalla ruota dentata, alla Vergine seduta col bambino in grembo benedicente. La martire d’Alessandria attende al pietoso ufficio con somma grazia, ed i lineamenti del suo volto sono regolari, e i capelli disposti intorno alla fronte a guisa di diadema.
Il tumulato, che ha tratti del viso invece angolosi e porta una lunga zazzera, appar vestito di un lucco attillato alla persona che gli scende fino alle caviglie, ma con larghe maniche pendenti a metà delle braccia le quali tien divotamente levate e riunite in atto di preghiera. Mercè una cintura che gli cinge la vita tiene egli assicurata al fianco destro una larga daga a guisa di pugnale, e benchè non si vegga a’ suoi piedi il morione tradizionale, dà chiaro indizio di essere persona dedita all’arte della guerra.
Ciò vien confermato altresì dalle due figure di santi che veggonsi effigiati nei riparti minori laterali e che sono San Vittore a destra in cotta e maglia, dalla lunga barba e dai folti capelli, tenendo levato colla destra mano un vessillo a tre strisce e stringendo coll’altra l’elsa della spada, e San Giorgio a sinistra che, imbracciando lo scudo su cui sta la vittoriosa croce cittadina, ferisce a mezzo di una lunga lancia il drago che gli si avviticchia ardimentoso intorno alle gambe.
Per non lasciar dubbio al riguardo, i nomi di questi due santi leggonsi in bei caratteri gotici, manifestamente della prima metà del trecento, sull’orlo in alto della lapide come segue: S. Georgius, e S. Victor.
All’infuori di questi dati, nessun’altra indicazione che valga, come avvenne fortunatamente per l’arca del Bechaloe, a far identificare il tumulato, la cui figura scolpita di tondo o a foggia di lastra tombale poteva forse trovarsi un giorno al disopra dell’avello e andò da esso disgiunta e smarrita.
D’altra parte, il veder ora conservato quel troncale d’avello con altri marmi provenienti indubbiamente dalla vicina città di Milano, dà quasi la certezza materiale che anch’esso abbia una tale origine, e, quando pure si debba argomentare su mere induzioni, conviene in ogni modo non lasciare inesaurita la questione per l’interesse grandissimo che si connette per sè ad un nuovo disperso marmo di epoca remota.
Premettasi intanto che, oltre agli accenni epigrafici testè indicati del nome in caratteri gotici dei due santi, lo stile generale del lavoro scultorio è tale che pur ad occhi chiusi, per così dire, non si può andar errati nell’attribuire l’apparizione sua alla prima metà del XIV secolo. Si hanno troppi e convincenti raffronti in Milano stessa con altre arche funebri di quell’epoca a Sant’Eustorgio, a San Marco e così via, per poter dubitarne menomamente.
Ora, fra le chiese che, tra le vicende dei tempi, disastrose in Milano per ogni sorta d’anticaglie, serbarono in qualche modo, se non intatto, ragguardevole però il patrimonio del passato per quel che concerne le arche e i monumenti funebri, vi hanno per l’appunto le due basiliche testè citate, e dalla seconda di esse e precisamente dall’antico chiostro dei morti della soppressa congregazione agostiniana, pervenne, non si sa come, alla patrizia famiglia dei nobili Cusani e fu da essi trasportato alla loro Villa di Desio passata poi ai Traversi e da questi suntuosamente riedificata nel 1844, il frontale d’avello del 1310 più sopra ricordato di Mirano di Bechaloe, che fu descritto per esteso nel citato fascicolo dell’Archivio Storico Lombardo.
Fortunatamente per entrambe queste chiese, diligenti cronisti, fra cui il Valeri, il Fusi, il Perochio, il Sitone, ci tramandarono notizie ed anzi in più d’un caso le iscrizioni stesse delle arche che andarono poi spostate o divennero irreperibili, cosicchè qualche elemento non dispregevole si ha già con esse per arguire se o meno si riferiscano a quei perduti cimeli i marmi, pur mancanti di iscrizioni, che tornano di mano in mano in luce.
Si è detto testè che i Cusani vennero in possesso di quei marmi sperperati, ora raccolti dal 1844 nella torre gotica di Desio, non si sa come, ma in realtà una ragione abbastanza plausibile dell’essersi quella stirpe patrizia resa proprietaria di quei marmi si ha nella circostanza che, come a Sant’Eustorgio, avevano essi una cappella di loro pertinenza anche nella chiesa di San Marco, trovandosi il loro suntuoso palazzo, edificato dal Ruggeri nella prima metà del XVIII secolo, di faccia quasi al palazzo di Brera ove viene usufruito oggidì pel Comando generale d’armata.
Delle due chiese anzidette però da cui poteva provenire quel frontale d’avello della prima metà del XIV secolo, va esclusa intanto quella di Sant’Eustorgio, inquantochè non si ha notizia di un disperdimento in quella basilica di avelli di quell’epoca remota e solo si nota a Desio, di pertinenza sua, una lapide d’assai posteriore e del XVIII secolo, esistente un giorno nel pavimento di quel tempio e ricordante la famiglia degli Anguissola.
Ben maggiori ed anzi preminenti sono gli argomenti che stanno per la derivazione di quel marmo dalla chiesa di San Marco, e infatti ben tre sepolcreti ci danno quegli autori come ivi esistenti un giorno nel distrutto chiostro dei morti e nelle cappelle di quella vetusta chiesa, che ora più non vi si vedono.
Escludendo senz’altro una lapide con stemma del 1137 di un Bocalino da Vicomercato, una di esse, del 1311, è quella di un Salvio Pelacani, Canonico e Giureconsulto parmense, insignito della elevata carica di Consigliere dell’imperatore, ma appar tosto che, benchè la data sua potrebbe corrispondere meglio di quella del Bocalino al carattere scultorio del frontale d’avello di Desio, non è ammissibile che sì cospicuo personaggio venisse raffigurato altrimenti che colla toga o colle suntuose pelliccie del tempo riservate agli alti funzionarii, mentre il supplicante di quell’avello è invece un semplice soldato senza alcun distintivo che lo metta maggiormente in evidenza.
Qualche più stretto rapporto parrebbe avere quel marmo e il tumulato ginocchioni davanti alla Vergine coll’altro sarcofago, che andò parimenti perduto, ad un Lanfranchino de Settara, morto nel 1317, ma anch’egli era podestà di Milano e così rivestito d’un’alta carica quale non avrebbe consentito la rappresentazione del tumulato sotto le spoglie di un semplice miles.
Abbiamo invece, come esistente un giorno nel chiostro e nella chiesa di San Marco, un terzo avello di cui l’iscrizione funeraria venne riportata dal Fusi e dal Sitone e che risponde in tutto il quadro scultorio di mezzo del sepolcreto più sopra descritto di Desio, mancante però della relativa iscrizione.
Tale epigrafe, che parrebbe essere stata scritta originariamente sulla lastra del tumulo coll’effigie del defunto, e quale fu letta nella Cappella di Sant’Orsola di San Marco, è la seguente:
hoc est sepvlchrvm strenvi militis
domini rebaldi de aliprandis qvi
obiit anno cvrrenti mcccxiiii die jovis.
Questo Rebaldo De Aliprandis fu padre di Martino, celebre oratore che fece parte dell’ambasceria spedita a papa Giovanni XXII nel 1332 da Azzone Visconti per impetrare la pace, e poichè, come dice la lapide, la sua qualifica principale fu quella di essere uno strenuus miles, senza altre più cospicue mansioni ufficiali, meglio d’ogni altro a lui s’attaglia perfettamente il frontale d’avello senza la relativa iscrizione, fino a noi giunto fra i marmi milanesi di Desio.
Aggiungasi che a metter meglio in risalto quella qualità sua di miles, concorrono egregiamente le effigi dei due santi laterali di San Giorgio e San Vittore, e che essi sono designati per di più col nome loro in caratteri gotici precisamente nel modo stesso in cui lo sono a Desio i due Santi Agostino e Marco della lastra tumulare, di soli quattro anni anteriore, di Mirano de Bechaloe, famiglia amica di cui altri membri ricordava in San Marco stesso una iscrizione del 1398 e che si fuse dappoi con quella chiamata dei Bescapè.
V’è poi ad osservare da ultimo che di questo patrizio ed illustre ceppo degli Aliprandi che tanta fama godè in Milano nel XIV e XV secolo, conservasi nelle navate traversali di destra di San Marco altra lastra tombale, importantissima sotto il rispetto dell’arte, di un Salvarino degli Aliprandi morto nel 1343 e che appare evidentemente ascrivibile allo scalpello di Giovanni da Campione.
Figlio di Martino egli pure questo Salvarino degli Aliprandi, e così fratello del Rebaldo, morto però in più giovane età, comprendesi facilmente come i due fratelli trovassero il sepolcro entrambi, forse a pochi passi di distanza, nella chiesa stessa di San Marco.
La differenza di oltre tre decennii fra la morte del Rebaldo nel 1314 e quella del Salvarino nel 1443, viene ad essere spiegata pienamente anche dal carattere artistico della scultura dei due davanzali d’arche funerarie, giacchè mentre in quella di Rebaldo le rigidezze e le ingenue mosse dei personaggi rispondono in tutto all’arte bambina del trecento, pur ammesso che il sarcofago di quest’ultimo sia stato condotto a fine anche alcuni anni dopo il trasporto del tumulato, nel deposito tombale di Salvarino già scorgasi assai maggior ispirazione e sentimento, sicchè il Gotthold Meyer lo giudicò anzi il più bello fra i molti monumenti funebri campionesi del XIV secolo.
Tutto ciò si è qui reputato opportuno di esporre e chiarire a maggior illustrazione di un pregevole marmo solo da poco venuto in luce a Desio, e che, alle perspicue doti scultorie di cui offre esempio, aggiunge, coi dati più sopra riferiti, chiari elementi di prova della provenienza sua dalla chiesa di San Marco di Milano non solo, ma altresì d’esser stato colà scolpito nella prima metà del XIV secolo in ricordanza del valoroso guerriero più sopra accennato della illustre progenie degli Aliprandi.
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Senza veruna indicazione di provenienza, ma contrassegnato almeno da uno stemma gentilizio, evvi pure fra i marmi di Desio, il vago frontale di camino di cui siamo in grado di offrire la riproduzione eliotipica.
Lo scudo ci presenta l’insegna del castello incluso fra le due trecce che distinguono più specialmente la patrizia famiglia milanese dei Casati, ma che ebbero comuni con quel ceppo anche i Beolchi e i Giussani di Champsiraz. Possedevano però i Casati e possedono tuttora a Muggiò, a Caponago e in altri luoghi del circondario di Monza, ed è quindi ad essi più specialmente che può ascriversi quel disperso marmo nel buon stile del Rinascimento.
I puttini alati reggenti festoni su cui, come nell’arca del Busti alla famiglia Birago, si librano svelte aquilette, i nastri svolazzanti leggiadramente e così pure le teste d’angioletti in basso, rivelano infatti a prima vista, una aggraziata scultura dei primi decennii del XVI secolo e il toro ritorto della modanatura superiore riproduce anzi un motivo costante dei frontali di camino del decimoquinto secolo.
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Di maggior importanza, ma destituite esse pure di qualsiasi indicazione, sono da ultimo a Desio le due statue di Sibilla, di cui diamo la riproduzione, riassumendo qui le presunzioni messe innanzi nella Lega Lombarda del 2 marzo u. s., circa l’eventuale loro derivazione da Milano.
Si tratta di due mezze statue di Sibilla, riccamente panneggiate e facenti simmetria l’una all’altra, le quali tengono fra le mani un filatterio cadauna, atto a designarle come la Sibilla Frigia la prima, dal motto «Virginis in corpus voluit dimittere coelo ipse deus prolem» e come quella Cumana la seconda, dalla leggenda: «Virginis a partu saecla beata fluent».
Sono entrambe in candido marmo di Carrara, di dimensioni di poco più del naturale, e mentre hanno le braccia fino al gomito ignude, e così pure scoperto il collo, tengono invece avvolta la testa e tutta la persona in ampio paludamento a ricche pieghe.
L’espressione dei loro visi è piuttosto calma e pietosa anzichè accigliata ed arcigna quale venne data da molti artisti ed anzi dallo stesso Michelangelo, più che non da Raffaello in Santa Maria della Pace, a queste vergini serafiche, e i loro lineamenti, tratti dallo scalpello con garbo e finezza, vennero rispettati dal tempo, benchè in una di esse osservisi un lieve guasto ad una delle narici.
Anche a chi è profano d’arte, queste due statue egregiamente modellate fino ai lombi e foggiate in maniera da far simmetrico riscontro l’una rimpetto all’altra, si fanno tosto notare per la giustezza delle proporzioni, la naturalezza dell’atteggiamento e la buona esecuzione di taluni particolari, quali, per esempio, delle mani che tengono spiegati i filatterii tradizionali, come meritevoli opere della seconda metà del XVI secolo, d’allora cioè che nell’arte italiana già s’erano introdotte, colla scuola di Michelangelo, certa eleganza e fastosità pur nel campo della scultura senza però che si manifestassero i primi accenni all’incipiente barocco.
Così come appaiono, è evidente, che quei due simulacri di egregia fattura bensì, ma quali non potrebbero star da soli, facciano parte come elementi decorativi, di qualche sacro edificio da cui furono eventualmente rimossi o pel quale vennero apprestati senza essere poi stati, per una causa qualsiasi, usufruiti.
Ma quale può essere questo edificio, e di qual epoca sono quei marmi se pur non ci è dato di sapere il nome del valente artista che li scolpiva e che, appunto per non trattarsi che di statue decorative, omise di apporre ad esse la propria sigla?
Sono quesiti che si impongono da sè attesa l’importanza e la bellezza di queste statue di Sibilla, ed è dovere della critica di porre innanzi ai riguardo le proprie argomentazioni in mancanza ben anco di ogni indicazione e di precisi documenti, non foss’altro che perchè gli studiosi d’archivio possano averle presenti nelle loro indagini.
E, innanzi tutto, trovandosi queste due statue nel giardino di Desio, insieme ai molti altri marmi scritti e figurati raccolti dai nobili Cusani in quella loro villa nei primi anni del XIX secolo, togliendoli alle soppresse chiese e congregazioni della vicina città di Milano, la provenienza loro da detta città risulta manifesta dal carattere chiesastico di tali raffigurazioni e dal valore stesso dei due blocchi di marmo Carrarese scolpiti da mano maestra, cosicchè rimarrebbe per sè escluso possano essere opera locale o di chiese o cappelle secondarie anche per le stesse loro dimensioni.
Dietro quest’ultima considerazione, potrebbe pensarsi a tutta prima a dispersa opera scultoria del Duomo di Milano; ma, oltrecchè nè i profeti, nè tanto meno le sibille, figurano in quel monumento nelle dimensioni ad un dipresso di tali statue, basterebbe ad escludere per sè tale possibilità il fatto che i due simulacri non sono foggiati con quel marmo di Gandoglia che fu quasi esclusivamente preferito nei lavori della Veneranda Fabbrica.
Ma, tolto di mezzo il Duomo, non vi è che un tempio in Milano a cui le due statue in questione parrebbero riferirsi, ed è questo il Santuario di Santa Maria di San Celso, e la supposizione riesce tanto più avvalorata dal fatto inquantochè è per quell’edificio appunto e per statue precisamente di profeti e sibille che ebbe a prestare l’opera sua lo scultore che più d’ogni altro raggiunse fama e gloria nel tempio di Santa Maria di San Celso, e cioè Annibale Fontana.
Di questo insigne scultore che, nato in Milano nel 1540, venne a morte di soli 47 anni nel 1587, non è chi non conosca in quella chiesa la statua della Vergine coi due putti ai piedi del venerato sacrario del tempio, destinata dal Fontana ad essere collocata alla sommità della facciata, e che parve invece di tanta eccellenza da venir sostituita da altra e posta preferibilmente in ispecial venerazione nel luogo precitato, rimovendo da colà altra bella statua della Vergine dello Stoldo Lorenzi che vedesi oggidì sopra la porta d’accesso della navata sinistra.
Ma, ebbero rinomanza non minore e furono anzi agguagliate ai capolavori di Michelangelo le due Sibille che il Fontana adagiò con sommo garbo e leggiadria sui due timpani della porta maggiore del tempio, e raffiguranti le Sibille più celebrate, le quali tengono fra mano una tavoletta l’una e un filatterio l’altra, colla leggenda di NASCETVR CHRYSTVS IN BETHLEM ET ANVNCIABITVR IN NAZARETH la prima, e quella di ET GREMIVM VIRGINIS ERIT SALVS GENTIVM la seconda.
E la fama ch’egli acquistò fra i suoi contemporanei per siffatti lavori scultorii, tenuti allora per impareggiabili, fu tale da non sembrare ad alcuno esagerata la lode espressa dal letterato Giacomo Resta nel di lui epitaffio proprio di fronte all’altare della Vergine che il Fontana cioè: «vel marmorei stupente natura, in homines mutavit vel hominum simulacra» volle e seppe far spirare dai marmi!
Ora, per quanto di egregia fattura, non è il caso di pensare per le due Sibille di Desio ad opera condotta di mano di quel valente artefice, benchè quei due simulacri abbiano l’eguale carattere iconografico delle braccia denudate fin poco oltre il gomito e della testa avvolta da drappi pur lasciando scoperti il viso ed il collo, e presentino sopratutto nel loro insieme e nella grazia della posa qualcosa ancora delle buone opere del XVI secolo.
D’altra parte, che queste profetesse dei gentili che erano le Sibille trovassero in Milano il loro posto di preferenza nel tempio di Santa Maria in San Celso, appar facilmente spiegabile; ed anzi, come quattro sono i profeti maggiori raffigurati nella facciata di quel tempio, parrebbe che un tal numero avrebbe pure dovuto essere osservato per le Sibille che alcuni fanno salire fino al numero di nove, ma di cui le quattro più universalmente conosciute erano, oltre alla Cumana, che portò i libri delle vaticinazioni a re Tarquinio, e accompagnò il pio Enea agl’inferi, ed alla Frigia, che rese oracoli in Ancira, la Tiburtina e la Persica.
E si direbbe altresì che, sì l’una che l’altra delle due prime, non avrebbero dovuto essere ommesse fra le vergini che ebbero a predire ad Augusto la venuta del Messia, e poichè tali sono per l’appunto le due Sibille di Desio, verrebbero le medesime a compire egregiamente quel numero normale di quattro adottato nella facciata di S. Celso anche pei profeti, e si può quindi spingersi fino a pensare che si tratti di statue predisposte nei lavori originarii della fronte e poscia non usufruite o per qualsiasi causa rimosse o portate altrove.
E notisi che di rimozione e sostituzione di statue in quella facciata si ha già un esempio in quanto s’è citato pel simulacro del santuario della Vergine, non senza avvertire che la supposizione che le belle Sibille di Desio provengano da San Celso trova la sua origine, oltrecchè nelle considerazioni testè esposte, nel carattere scultorio di quei due simulacri che sono ancora di buona scuola e nella reale importanza loro. Sibille e Profeti, tuttora visibili, non vi frescava anche Callisto Piazza nel 1580?
Riconoscesi, ad ogni modo, che si tratta solo di mere induzioni, e così mal si saprebbe spiegare se la dispersione di quelle due statue possa essere avvenuta nello stesso secolo XVI od abbiano eventualmente le medesime servito altrove ad ornamento di qualche chiesa o sepoltura, oppure siasi verificata colla soppressione dei frati di San Salvatore, detti Scopettini o Rocchettini, che officiavano nella basilica di Santa Maria di San Celso; ma, comunque sia, e pure in mancanza di più sicure notizie, s’è creduto opportuno di riunire tutte queste presunzioni e circostanze concomitanti, per iniziare, non foss’altro, lo studio storico e stilistico di quelle attraenti sculture che sono le due Sibille di Desio.
Diego Sant’Ambrogio.