Nigrizia/Editoriale giugno 2011
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L'editoriale del numero di giugno 2011
Civiltà del consumo e giustizia sociale.
Terra. Acqua. Cibo. Rivolte. Predatori. Vittime. C’è un filo invisibile che lega queste parole di un vocabolario che dà voce a un mondo attuale attraversato da tsunami economici e politici. Questo filo si chiama ingiustizia sociale. Fallimento dell’economia di mercato. In una società di consumatori tutto è merce. C’è uno squilibrio fra domanda e offerta di beni agricoli? Bene. Allora è legittimo che i paesi che dispongono di forti capacità finanziarie acquisiscano terreni in paesi stranieri, anche minando la sicurezza alimentare di questi ultimi. L’acqua è una risorsa economica ad alto valore produttivo? È giusto puntare alla sua privatizzazione. Siamo entrati in un’era dominata dalla scarsità di cibo? È normale incrementare la produzione, sfruttando magari anche le diavolerie genetiche, tipo ogm.
Se poi questi squilibri sociali, con i prezzi dei beni alimentari schizzati alle stelle, determinano moti di piazza nel Maghreb, in Medio Oriente e ora anche nell’Africa subsahariana (vedi le manifestazioni represse con la violenza in Uganda, Burkina Faso e Senegal, solo per citarne alcune), per la “società dei produttori” si tratta solo di inconvenienti marginali. In fondo, quelle aree del mondo in fiamme sono abitate, per ora, da molti consumatori difettosi, che «non hanno le risorse per accrescere la capienza del mercato dei beni di consumo e creano, invece, un altro tipo di domanda che l’industria orientata ai consumi non è in grado di intercettare e “colonizzare” in modo redditizio», come ha scritto il sociologo Zygmunt Bauman nel suo libro Vite che non possiamo permetterci.
La mercificazione di ogni aspetto della nostra vita è solo l’altra faccia della medaglia di una crescita delle diseguaglianze, che galoppa a un ritmo impressionante, alimentando tensioni e costringendo a rivedere gli abituali parametri per definire la ricchezza e la povertà.
Chi propone la privatizzazione dell’acqua e l’accaparramento delle terre sostiene che l’ingiustizia sociale è la soluzione ai problemi del mondo. Arricchire i già ricchi – questo il pensiero dominante – significa dare loro più capitali e denaro per investimenti e, quindi, maggiore sviluppo e occupazione. La ricchezza ricadrebbe, poi, verso il basso per “sgocciolamento”, diffondendosi in tutti gli strati sociali. Ma il processo dello sgocciolamento non funziona. Non ha mai funzionato. Si sta assistendo così, negli ultimi anni, a società che si sono fatte sempre più “lunghe”, con distanze tra i primi e gli ultimi sempre più ampie. Il 10% della popolazione mondiale controlla l’83% di tutte le ricchezze. L’economista Robert Libermann, della Columbia University, ha dimostrato come la quota del reddito nazionale Usa che va all’1% della popolazione più ricca era l’8% del totale negli anni ’60. Oggi supera il 20%.
Tuttavia, la domanda di eguaglianza «non prende voce», come ha scritto il sociologo Marco Revelli nel libro Poveri noi. «La richiesta di una qualche forma di redistribuzione del reddito e di giustizia sociale, che aveva rimbombato nelle piazze e nei parlamenti del Novecento, non rientra più in quasi nessuna agenda politica». Ora la “società dei produttori” vuole che anche l’acqua e la terra diventino merce. Ci racconta che c’è bisogno di più cibo, perché c’è più gente da sfamare. Ma si scorda di dirci che, grazie al nostro sistema di vita “consumistico”, ogni anno si getta nella pattumiera del mondo 1,3 miliardi di tonnellate di prodotti ancora perfettamente commestibili (ricerca dello Swedish Institute for Food and Technology). Valore stimato, per difetto, superiore ai 100 miliardi di euro. Una quantità di cibo che basterebbe a ridurre allo zero le persone (circa 1 miliardo) che soffrono la fame.
Non ci dice che togliere la terra ai paesi in via di sviluppo impoverisce ulteriormente chi è già povero. Per gli esperti dell’Ifad, il Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo, oltre 1 miliardo di persone povere risiede nelle aree rurali. E dell’acqua non si racconta che nel mondo 884 milioni di persone non hanno accesso a quella potabile e che 2,6 miliardi vivono in condizioni igienico-sanitarie insufficienti. Ogni anno 5 milioni di persone muoiono per malattie legate all’acqua. La differenza nei consumi d’acqua tra uno statunitense e un africano è abissale: 425 litri al giorno negli Stati Uniti, 10 in Africa.
In Italia per mangiare, lavare, far funzionare le fabbriche, irrigare i campi consumiamo 237 litri d’acqua al giorno. Un abitante del Madagascar ne usa 10 litri.
Combattere lo spreco non rientra negli slogan della società dei produttori e dei consumatori. Sfruttamento, sì. Ma, come ha ricordato il 24 febbraio scorso il vescovo Mario Toso, segretario del Pontificio consiglio della Giustizia e della Pace, «l’acqua — diritto universale e inalienabile — è un bene troppo prezioso per obbedire solo alle ragioni del mercato e per essere gestita con un criterio esclusivamente economico e privatistico. Il suo valore di scambio o prezzo non può essere fissato secondo le comuni regole del profitto. Che è, però, quanto in più parti del mondo accade o si rischia in caso di privatizzazione, fino a giungere al paradosso che vede i poveri pagare molto più dei ricchi per quello che dovrebbe essere un diritto naturale».
Il profitto fa a pugni con la giustizia sociale.