Morgante/Cantare ventesimosecondo

Cantare ventesimosecondo

../Cantare ventesimoprimo ../Cantare ventesimoterzo IncludiIntestazione 22 settembre 2009 75% Poemi epici

Cantare ventesimosecondo
Cantare ventesimoprimo Cantare ventesimoterzo

 
1   Sia benedetto il figliuol d’Israel
     che fece cielo e terra e luna e sole,
     e poi mandò giù in terra Gabriel,
     tanto gl’increbbe della umana prole;
     dintorno al quale è sempre Micael,
     e canta fra l’angeliche carole:
     così, per grazia, etterno e giusto e santo,
     aiuta, Padre, il mio futuro canto.

2   Era già il carro di Febo fra l’onde
     dell’occeàno, e va verso altra gente,
     se vero è pure, quando a noi s’asconde,
     e già la notte fuor nell’orïente;
     quand’io lasciai Astolfo, che risponde
     al messo di Rinaldo iratamente,
     ovver pur finse, per aver diletto;
     poi se n’andorno Orlando e lui a letto.

3   L’altra mattina Astolfo s’è armato,
     e dice con Orlando: - A spasso andiamo
     dove Rinaldo fuor s’è accampato;
     e vo’ con lui quattro lance rompiamo. -
     Orlando disse: - Io son sempre sellato.
     Parmi mill’anni Rinaldo veggiamo. -
     Usciron fuor della città armati
     dove sapean color sono alloggiati.

4   Rinaldo disse col suo Aldighieri:
     - Colui che vien dinanzi è Gallïano;
     quell’altro c’ha sì magro il suo destrieri
     non so chi sia. Incontro loro andiano. -
     Vanno costoro, Alardo ed Ulivieri,
     Guicciardo e Malagigi e Greco e Gano;
     e salutato in linguaggio francesco,
     Astolfo e ’l conte risposon moresco.

5   Rinaldo cominciò prima a parlare:
     - Se tu se’ Gallïan, com’io mi stimo,
     che Chiaristante facesti ammazzare,
     perch’io domando, a parlar sono il primo:
     con che ragion puoi tu giustificare,
     e cominciam da sommo o vuoi da imo,
     che Chiaristante a ragion fussi morto?
     Chi non conosce tu gli hai fatto torto?

6   Ma lasciàn questo; la sua meschinella
     Filiberta pel mondo spersa mandi:
     dimmi, che ha fatto o meritato quella?
     Or vo’ che sappi, pria che tu domandi,
     che la città con tutte sue castella,
     se tu non vuoi che questa lor comandi,
     anticamente son qui di costui,
     ed ogni cosa s’appartiene a lui.

7   Da tutte parte tu non puoi tenere
     questa città, ché la ragion non vuole;
     e bench’io sia cristian, pur pel dovere
     mi muovo a questa impresa, ché mi duole.
     Piglia del campo a tutto tuo piacere,
     e così sien finite le parole. -
     Astolfo gli rispose: - Aspetta un poco,
     non ti partir sì tosto ancor da giuoco.

8   Non si dic’egli: «Ascolta l’altra parte»?
     Rinaldo, tu dèi aver poca faccenda,
     e vien’ con certa astuzia e con certa arte
     che tu non credi Gallïano intenda:
     la lancia suol valer più che le carte.
     Questa pietà non so donde ti prenda,
     se ciò non fussi per amor di dama:
     questa fia la cagion che qua ti chiama.

9   Tu non guardi cristiana o saracina,
     e Filiberta ha l’occhio del ramarro,
     e stata è sempre di buona cucina,
     e basta solo un cenno a far bazzarro.
     Noi non temiàn tua gente malandrina,
     benché tu faccia viso di bizzarro.
     Costui che Chiaristante uccise, or vedi,
     con teco giosterrà; forse nol credi? -

10 Rispose Orlando: - Anzi, di mezza notte
     del letto n’uscirei, dico ben caldo.
     Parole assai, ma poche lance rotte:
     non credi tu ch’io conosca Rinaldo
     e queste gente ch’egli ha qua condotte?
     Ch’a Monaca ha raccolto ogni rubaldo
     e stato là con Filiberta in tresca;
     or vuol mostrar della ragion gl’incresca. -

11 Or chi avessi Rinaldo veduto,
     e’ non capea nell’arme per la stizza:
     più volte inverso lor s’è dibattuto
     come sparvier se la merla fuor guizza;
     e rivoltò Baiardo e fece il muto,
     che gli occhi in testa per rabbia gli schizza:
     non può parlar per l’ira che l’affolta.
     Orlando a Vegliantin dètte la volta.

12 E con le lance a ferir si tornorno.
     Non domandar con che furia venìa
     Rinaldo, e l’aste agli scudi appiccorno;
     ma non pensar che vantaggio vi sia:
     rupponsi tutte, e’ destrier via volorno.
     Rinaldo non poté la bizzarria
     disfogar con la lancia: prese il brando
     e ritornò per assalire Orlando.

13 Orlando trasse Durlindana e grida:
     - Può far però Macon che Filiberta
     ami tanto, cugin, che tu m’uccida? -
     Rinaldo presto ritenne Frusberta,
     perché e’ conobbe la voce alle strida,
     e Durlindana come e’ l’ha scoperta;
     ed abbracciar correa l’un l’altro presto.
     Rinaldo dicea pur: - Può esser questo? -

14 Sùbito tutti vanno alla cittate;
     Astolfo nel palagio gli menava,
     e molte cose insieme hanno trattate
     e quel che sia da far si disputava.
     Così son trapassate più giornate.
     Ecco Dodon ch’un dì quivi arrivava,
     e dètte a tutti presto ammirazione,
     dicendo: - Che novelle hai tu, Dodone? -

15 Disse Dodon: - Cattive e dolorose -
     e posesi a seder; poi lacrimando
     diceva: - La Fortuna in tutte cose,
     poi che di corte ti partisti, Orlando,
     con mille ingiurie palese e nascose
     troppo vien Carlo tuo perseguitando;
     ed ha scoccato a tempo or più che mai
     la trappola; ogni cosa sentirai.

16 Il gran Calavrïon della Montagna,
     fratel del Veglio, il qual si dice è morto,
     passato è in Francia pel mezzo di Spagna,
     e dice che ’l fratel l’uccise a torto
     un cavalier ch’è or di tua compagna;
     ma che farà le vendette di corto.
     Centoquaranta migliaia numerati
     sono i pagan che con seco ha menati;

17 ed ha menato un altro suo fratello
     quale Archilagio si fa nominare,
     e molto conto là si fa di quello.
     Pensa che Carlo non sa che si fare:
     e’ ti convien volar come un uccello.
     E Montalban bisogna anco aiutare,
     ché e’ v’è sessantamila cavalieri,
     e tutti Maganzesi e da Pontieri;

18 e ’l capitan di tutti a Montalbano
     al tuo piacer, Rinaldo, è Grifonetto. -
     Disse Rinaldo: - Alla barba mia, Gano,
     tu hai pur fatto a questa volta netto! -
     Disse Dodone: - E’ v’è drento Viviano. -
     Rinaldo disse: - E’ non v’è Ricciardetto! -
     Dodon soggiunse: - E’ v’è il franco Danese. -
     Gan si turbò quando tal cosa intese;

19 e rispose: - Di questo menti tu,
     Rinaldo, ch’io son nuovo a questo fatto:
     quanto è che di prigion cavato fu’? -
     Disse Rinaldo: - Tu non parli a matto.
     Tu tel vorresti un giorno beccar sù
     quel Montalbano, e fara’vi un bel tratto.
     Ma sia che vuole, al dito leghera’ti
     ch’io nacqui per punire i tuoi peccati.

20 I’ vo’ giucar più oltre ch’uno scotto
     che la venuta di Calavrïone
     ogni cosa ha questo fellon condotto,
     non che di Montalbano e di Grifone. -
     Diceva Orlando: - Tu se’ troppo rotto;
     e’ non si vuol così chiamar fellone:
     tu non sai ancor come la cosa stia,
     e siam pur tutti insieme in compagnia. -

21 Gan s’appiccava alle parole allora,
     e diceva: - Rinaldo, tu se’ uomo
     ch’io non ti posso conoscere ancora;
     ma ’l tempo ti farà cogli altri domo.
     Di ciò che contro a me tu ti dica ora,
     io non te ne farei in su l’erba un tomo:
     so che tu parli quel che ti vien detto,
     e basta solo a me di viver retto.

22 Se i Maganzesi a Montalban saranno,
     io sarò il primo che gli vo’ punire;
     e Grifonetto, s’egli ha fatto inganno,
     con le mie mani il cuor gli vo’ partire,
     però ch’a me questa vergogna fanno;
     ed ho disposto insino al mio morire
     esserti amico fedel, giusto e buono,
     ché tu sai ben s’obrigato ti sono.

23 Non son più Gan che pel passato fui,
     che ’l tempo m’ha tarpate in modo l’ale
     ch’io mi comincio accordare or con lui,
     però ch’io sono ogni giorno mortale;
     e che poi altro se ne porta altrui
     di questa vita, se non bene e male?
     Bene è cattiva frutta acerba e dura
     quella che ’l tempo mai non la matura.

24 Per quel ch’io ci abbi a star, - dicea il fellone
     - io lo vo’ consumar quasi in vïaggi:
     io ho al Sepolcro andar, poi al gran Barone,
     e così fare altri peregrinaggi:
     io mi botai quand’io ero in prigione;
     ben so ch’a Cristo ho fatto degli oltraggi
     e sopra al capo m’è la penitenzia,
     dond’io n’ho in me vergogna e conscïenzia. -

25 Disse Rinaldo: - Sì che tu hai vergogna!
     Questo a gnun modo più tacer non posso.
     Deh, dimmi s’ella è cosa che si sogna;
     vedi come tu se’ nel viso rosso!
     Con meco questo spender non bisogna:
     tu m’hai ben, Gano, scorto per uom grosso,
     e così m’hai trattato sempre mai.
     Io ti conosco, mio ser Bellesai;

26 io gli ho per alfabeto i tuoi difetti.
     Guarda chi ciurma con meco e mïagola!
     Non ti bisogna meco bossoletti,
     ch’io non ne comperrei cento una fragola.
     E veggo tuttavia tu ti rassetti:
     che pensi tu mostrarmi, la mandragola?
     Io ciurmerei più, Gan, con un sermento
     che tu con le tue serpe. Or sia contento. -

27 Diceva Astolfo: - Io non ti credo, Gano,
     ch’io so pur tu nascesti traditore:
     e’ non s’accorda il contro col sovrano,
     e molto più si discorda il tinore.
     Lascia pur dire a lui di mano in mano,
     chi vuol còrre il bugiardo e ’l peccatore:
     ecco costui che teme la vergogna,
     che salterebbe in aria a una gogna!

28 Ecco la conscïenzia di Gioseffe,
     di Abraam colà, d’Isac e di Giacobbe!
     Ha fatto a Carlo mille inganni e beffe,
     tanto ch’egli è condotto un altro Giobbe;
     ed or che trae pel dado e dice aleffe,
     dice ch’ancor Rinaldo mai cognobbe.
     Fatto starebbe a cognoscer te, tristo,
     distruggitor della fede di Cristo.

29 Tu l’hai più volte che Giuda tradito:
     ecco chi vuol parer buona persona!
     Di Carlo non m’incresce, rimbambito,
     che sempre ogni segreto ti ragiona,
     e non s’accorge d’essere schernito
     mentre che sente in capo la corona,
     e non si crede al cacio rimanere
     se non sente la trappola cadere;

30 ma m’incresce d’Orlando mio cugino
     e d’Ulivier, che ti credon ciascuno
     che il lupo voglia andar per pellegrino,
     che di’ c’hai fatto de’ boti forse uno.
     Se tu trovassi a caso un pecorino,
     torrestil tu? Sì, forse per digiuno.
     Tanto t’aiuti Iddio quant’io, tel credo:
     io non ti crederrei s’ tu fussi il Credo.

31 Così sia tu tagliato a pezzo a pezzo
     come tu hai fatto questo tradimento:
     e’ non è il primo, e sarà forse il sezzo.
     Tu di’ che se’ maturo un poco a stento:
     tu fusti il primo dì fracido e mézzo
     di tradimenti; e s’ tu se’ mal contento
     di questo fatto, io credo che tu scoppi
     non esser là per farla in cento doppi.

32 Che dico io cento? In più di cento mila.
     Non ti par forse a tuo modo ordinata?
     Ma se vi manca a questa tela fila,
     tu n’hai pien la scarsella e la farsata,
     e tuttavia la mente ne compila
     insin che fia fornita la ballata.
     Vedrai che questo ancor ricorderotti:
     andiamo in Francia, e là gastigherotti;

33 io t’ho a ’mpiccar, ribaldo rinnegato,
     come tu sai che me impiccar volesti. -
     Orlando, poi che molto ebbe ascoltato,
     diceva ’Astolfo: - Ve’ che lo dicesti:
     tu ti se’ pure a tuo modo sfogato;
     io vo’ che la quistione omai qui resti. -
     Gan si doleva, e non gli parea giuoco,
     ma ciò che dice è stuzzicare il fuoco.

34 Fecion consiglio tutti di partire.
     Rinaldo volle Filiberta sia
     reina, e ’l popol la debba ubbidire,
     e tenga in vita sua la signoria;
     poi sia di Greco dopo il suo morire.
     Greco partì con la sua compagnia,
     e fu contento; e Filiberta resta
     con la corona del marito in testa.

35 Rinaldo mai si vide sbigottito
     alla sua vita quanto a questa volta;
     e dice pur che Gan l’avea tradito
     per far, or che non v’era Orlando, còlta.
     E così tutti hanno preso partito
     pigliare in verso Parigi la volta;
     e vanno giorno e notte alla stagliata,
     non creder sempre per la calpestata:

36 per boschi e selve, alla ricisa, a stracca,
     donde e’ credien raccortare il camino,
     come fa spesso la dolente vacca
     ch’ode di lungi smarrito il boccino,
     e rami e sterpi ed ogni cosa fiacca
     e mugghia insin che lo vede vicino:
     così facìen costor per valle e piano,
     e sempre traditor gridano a Gano.

37 Ma non si sono apposti già di questo,
     che colpa non ci avea ser Tuttesalle,
     e Malagigi il dicea manifesto.
     Aspetta pur che sieno in Roncisvalle;
     quantunque il tradimento fia per resto,
     perché la penitenzia arà alle spalle;
     e Carlo, come e buon tre volte e sciocchi,
     quando fia più che morto, aprirrà gli occhi:

38 piangerà tardi il suo caro nipote
     e pentirassi aver sempre creduto
     a Ganellon, graffiandosi le gote;
     ma che val tardi l’essersi pentuto?
     Lascia pur volger le volubil rote
     a quella che nel Ciel tutto ha veduto
     ed anco al traditor d’ogni fallenzia
     serberà a tempo la sua penitenzia.

39 Una città chiamata Villafranca
     vidon costor, che parea molto bella;
     attraversorno, ch’era alla man manca,
     e finalmente passavan per quella:
     gente parevon valorosa e franca,
     e quel signor Dilïante s’appella;
     vide costor per la piazza passare
     e fecegli invitar seco a mangiare,

40 perché brigata gli parea pur magna.
     Rinaldo non volea rifiutar posta,
     tanto che tutti appannorno alla ragna:
     feciono in sala a costui la risposta.
     Nipote del Veglio è della Montagna,
     ardito e franco per piano e per costa;
     e rispondeva a questi a’ lor saluti:
     - Voi siate in ogni modo i ben venuti.

41 Chi siete voi? Dove siete avvïati? -
     Orlando rispondea: - Degna Corona,
     noi siàn di nostra terra sbandeggiati
     poi che ’l Soldan morì di Bambillona;
     ché cavalier suoi fumo, or siàn cacciati,
     e l’arme ne portiamo e la persona. -
     Diceva Dilïante: - E’ mi dispiace,
     ma d’ogni cosa alfin si vuol dar pace. -

42 Posonsi insieme tutti a desinare.
     Quivi era un buffoncello, un tale ignocco:
     comincia con Rinaldo a motteggiare;
     Rinaldo gli parea buffone sciocco,
     ed attendeva pure a pettinare;
     e ’l signor ride di questo balocco;
     tanto è che d’una in un’altra novella
     e’ chiese di Rinaldo la scodella.

43 Rinaldo la scodella per sé vuole,
     e disse con Orlando: - Odi capocchio!
     Sempre in ogni buon luogo aver si suole
     questi buffoni all’ultimo, al finocchio. -
     Poi volse a Dilïante le parole,
     e pure alla scodella aveva l’occhio;
     disse: - Io dicevo in linguaggio tedesco
     che mi ragioni sparecchiato il desco. -

44 Mangiava una scodella di tartufi
     Rinaldo, bene acconcia in un guazzetto:
     non si pensò che costui gliela grufi;
     questo buffon gliela ciuffò di netto,
     e non si vuol calar perch’egli strufi;
     e succiala, e la broda va in sul petto.
     Rinaldo si crucciò con questo matto
     di perder la profenda e di quell’atto:

45 corsegli addosso come un bertuccione,
     e disse: - Io ti farò schizzar la micca:
     tu se’ pazzo malvagio e non buffone! -
     ed una pèsca nel capo gli appicca
     per modo che sel pose a’ pie’ boccone,
     che con l’orecchio una tempia gli spicca.
     Donde il signor rizzossi iratamente,
     ché, come savio, non fu pazïente;

46 e disse: - C’hai tu fatto, poltoniere?
     Dunque tu batti la famiglia mia?
     È questa usanza di buon cavaliere?
     Tu mi ristori della cortesia! -
     Disse Rinaldo: - Io gli ho fatto il dovere. -
     Orlando disse al fratel villania.
     Rinaldo aveva alzata già la mano
     per far come al buffone al re pagano.

47 Dilïante ebbe infine pazïenzia,
     e disse: - Io vo’ che in pace desiniamo;
     poi, desinato, per magnificenzia,
     che insieme in su la piazza ci proviamo,
     poi che tu m’hai sì poca reverenzia,
     e la pazzia del capo ci caviamo. -
     Rinaldo rispondea: - Pur tosto all’aste!
     Ch’aspettiam noi più qui, le pere guaste? -

48 Disse il pagano: - Ogni volta fia tosto:
     basta che di giostrar tu se’ contento;
     e’ ci ha forse a venire ancor l’arrosto:
     vo’ che ’l convito anco abbi compimento,
     per riverenzia di que’ ch’io ci ho posto. -
     Diceva Orlando: - Alla giostra io consento,
     ch’io so che tu se’ uom possente e magno;
     né anco spiaceratti il mio compagno. -

49 Come egli hanno mangiato, Dilïante
     sùbito allo scudier suo fece cenno,
     e tutte l’arme sue vennono avante;
     e poi ch’armato si vide a suo senno,
     e’ montò sopra un feroce afferrante,
     dicendo: - Sia mio il danno s’io mi spenno. -
     Rinaldo in su Baiardo in piazza è armato,
     e Dilïante a morte l’ha sfidato.

50 Preso del campo e ritornati indrieto,
     Rinaldo e Dilïante si rintoppa,
     e nel colpirsi ognun parve discreto;
     ma la potenzia di Rinaldo è troppa
     e parràgli più forte che l’aceto
     al saracin: però che in su la groppa
     si ritrovò rovescio al suo destriere,
     e fece di stran cenni di cadere.

51 Rinaldo staffeggiò del piè sinestro;
     e le lance per l’aria vanno in pezzi,
     e passan via i destrier come un balestro,
     come color ch’a l’arte sono avvezzi.
     Rizzossi Dilïante alfin pur destro,
     e parvegli del caso anco aver vezzi;
     e ritornato a Rinaldo di sùbito,
     disse: - Baron, che tu sia Marte dubito:

52 io non vidi mai uom correr me’ lancia;
     io non trovai mai uom tanto possente;
     e’ non si fe’ mai colpo tale in Francia.
     Deh, dimmi il nome tuo cortesemente;
     ché s’ tu mi dessi omai nell’una guancia,
     io volgerò poi l’altra allegramente:
     di tua prodezza innamorato sono,
     e ciò ch’è stato fra noi ti perdono. -

53 Disse Rinaldo: - E più che volentieri:
     sappi ch’io son Rinaldo, e questo è Orlando,
     questo è Guicciardo, Alardo ed Ulivieri,
     e questo è Ricciardetto, al tuo comando;
     questo è quel traditor Gan da Pontieri
     (io vo talvolta la lingua accoccando);
     questo è Dodon, quest’altro è Malagigi,
     e questo Astolfo; e torniànci a Parigi.

54 Quest’altro giovinetto è mio cugino,
     ed èssi nuovamente battezato;
     non lo conosci: egli era saracino -;
     ed Aldighier non ebbe ricordato.
     Gan traditor gli pose l’occhiolino,
     ed ebbe il tradimento già pensato.
     Diceva Dilïante: - A ogni modo
     d’avervi fatto onor, per Dio, ne godo.

55 Ma s’io non erro, non se’ tu colui
     che uccidesti il gran Veglio, mio zio? -
     Disse Rinaldo: - Io fui mandato a lui
     dal gran Soldan; ma poi non piacque a Dio
     ch’io l’uccidessi, e gran suo amico fui,
     e battezza’lo e vendicai poi io:
     uccisi chi l’uccise, un gran gigante;
     dunque tu di’ il contrario, Dilïante. -

56 Rispose Dilïante: - Assai m’incresce
     che questo caso è stato male inteso,
     e veggo quanto mal di ciò rïesce,
     però che molto fuoco è in Francia acceso
     per questo fatto, e tuttavolta cresce:
     Calavrïon di voi si tiene offeso
     e con gran gente a Parigi n’è ito,
     com’io son certo ch’avete sentito. -

57 In questo tempo si lieva un romore,
     che tutta la città sozzopra va
     e tutto il popol fuggiva a furore.
     Diceva Orlando: - Questo che sarà? -
     Disse il pagan: - Non abbiate timore:
     un lïone è che spesso così fa,
     e molta gente in questa terra ha morta,
     e spesso se ne vien drento alla porta.

58 E duolmi ch’io ci ho colpa in questo fatto,
     tanto ch’io n’ho grande odio con costoro:
     io allevai un lïon bianco un tratto,
     che mi parea gentil, benigno e soro;
     e’ si fuggì, dond’io ne son disfatto,
     però che e’ ci ha poi dato assai martoro:
     a poco a poco la mia gente manca,
     e son segnato ancor della sua branca. -

59 Rinaldo si vantò d’uccider questo,
     ché di vedere ognun fuggir gl’increbbe.
     Disse il pagan: - Se tu farai cotesto,
     questa città per dio t’adorerebbe. -
     Rinaldo raffermò di farlo, e presto:
     se non che mai caval cavalcherebbe.
     Era il lïon già della terra uscito,
     e ’n certo bosco ove e’ si stava è ito.

60 Rinaldo a questo bosco se n’andava,
     e molta gente drieto se gli avvia;
     ma poi come Zaccheo s’innalberava
     ognun, come al lïon presso giugnìa.
     Vede Rinaldo questa fiera brava:
     vennegli addosso a fargli villania.
     Rinaldo del caval giù presto smonta
     e con la spada col lïon s’affronta.

61 Questo lïone a Baiardo si getta;
     Rinaldo volle Baiardo aiutare;
     ma quella bestia il colpo non aspetta,
     e poi in un tratto si vede scagliare:
     Rinaldo abbraccia e dà sì grande stretta
     che non si può con la spada aiutare;
     allor Rinaldo Frusberta ricaccia
     sùbito drento e quel lïone abbraccia;

62 ed abbracciati l’un l’altro scoteva.
     Questo lïon gli dètte in terra un botto
     e sopra l’arme graffiava e mordeva;
     Rinaldo un tratto ricaccia lui sotto
     e per la gola il lïone strigneva.
     E ’l popol tutto a vederlo è ridotto,
     e son di saracin pien gli arbucelli,
     tal che parevon mulacchie e stornelli.

63 Rinaldo si scarmiglia col lïone;
     ma poi che molto si fu voltolato,
     un tratto gli menò sì gran punzone
     che ’l guanto tutto in man s’ha sgretolato:
     pensa se ’l pugno leverà il moscone!
     e ’l capo a questa bestia ha sfracellato,
     tanto che morto le gambe distese;
     e tutto il popol con gran festa scese.

64 Ritornossi Rinaldo alla cittate,
     ed ha drieto la ciurma de’ pagani,
     fino alle donne in terra inginocchiate:
     - Benedette ti sien - dicean - le mani! -
     Eran per tutto le strade calcate;
     era adorato da que’ terrazzani
     come Davitte Golia abbi morto:
     così di quel lïon preson conforto.

65 Dilïante ringrazia il paladino,
     dicendo: - Schiavo etterno ti saròe;
     benedicati il nostro iddio Apollino!
     Quando tu sai che il romor si levòe, -
     diceva questo savio saracino
     - quel ch’io ti dissi ti replicheròe:
     che mi doleva che in Francia sia guerra,
     poiché Calavrïon questo caso erra.

66 Calavrïon si crede che ’l fratello
     tu l’uccidessi, o tenessi al trattato,
     e sol per questo vendicar vuol quello,
     e non sa ben che tu l’hai vendicato.
     S’io gli scrivessi, e’ parre’ tutto orpello;
     guarda se quel ch’io dico è ben pensato:
     io ti darò trentamila baroni
     nelle battaglie ammaestrati e buoni;

67 altro non ho se non la mia persona.
     Or odi un poco un altro mio disegno:
     il re Costanzo morì a Bambillona;
     alla figliuola sua rimase il regno,
     ed ha gran gente sotto sua corona,
     che si son ritornati per disdegno
     da Bambillona, poi ch’ ’Antea la désti,
     però che molto mal trattava questi;

68 e tutti soldo so cercando vanno.
     Uliva, la fanciulla, è mia parente:
     credo che tutti a mio modo faranno;
     e s’ tu non hai danar da soldar gente,
     io n’arò tanti che si pagheranno,
     che centomila son, s’io ho bene a mente;
     e so che ’l re Costanzo v’era amico,
     ché col Soldano avea grande odio antico. -

69 Rinaldo assaporava le parole
     del saracin, che una non ne cade,
     e disse: - Dilïante, a me sol duole
     ch’a ringraziar tua tanta umanitade
     sare’ prima da noi partito il sole.
     Ciò che tu di’ mi par la veritade,
     e tempo è d’accettar quel c’hai promesso,
     e di mandare presto a Uliva un messo. -

70 Diceva Orlando a Dilïante allora:
     - Questa fanciulla ch’Uliva è chiamata,
     credo di noi ben si ricorda ancora;
     perché tu intenda, ella fu via menata,
     uscendo un dì della sua terra fuora:
     certi giganti l’avean trafugata;
     noi gli uccidemo e liberamo quella,
     ch’era condotta mal, la meschinella,

71 e poi la rimenamo a casa al padre.
     E ’l re Costanzo ne venne per questo
     a Bambillona con tutte sue squadre,
     come tu sai, ché so c’hai inteso il resto;
     e quanto le sue opre fur leggiadre,
     credo ch’a tutto il mondo è manifesto;
     e la sua morte più ch’Uliva piansi;
     e quel ch’io fe’ nella penna rimansi.

72 Io rimandai il suo corpo imbalsimato
     con grande onor, così di Spinellone:
     non volli a’ benefici essere ingrato;
     ed anco uccisi il gigante ghiottone
     ch’uccise lui, sì ch’io l’ho vendicato.
     Mettasi al tuo consiglio essecuzione
     e mandisi a Uliva adunque il messo. -
     Disse Rinaldo: - Ed io sarò quel desso.

73 Intanto qui la gente ordinerete;
     e tu, Orlando, a Parigi n’andrai,
     per ispannar qui di Gano ogni rete. -
     Rispose Orlando: - A tuo senno farai;
     credo per mar più presto vi sarete. -
     Aldighier disse: - Anco me menerai. -
     Rinaldo disse: - Io vo’ sol Ricciardetto,
     Guicciardo, Alardo. - E missesi in assetto;

74 ed avvïossi inverso la marina.
     Lasciàllo andar, che Dio gli dia buon vento!
     Orlando adopra ogni sua disciplina
     di dare intanto al fatto compimento,
     ed ordina la gente saracina,
     e di partirsi fa provedimento.
     Gano avea fisso nel mezzo del core
     di far quel che poi fece, il traditore;

75 e come e’ vide Rinaldo partito,
     un dì ch’Orlando da lui si dismaga,
     vedesi il campo libero e spedito,
     di tradimenti anzi è nel mar di Baga:
     a Dilïante in camera n’è ito
     e di parole cortese l’allaga;
     disse: - Pagan, chi mi fa cortesia,
     non gli farei mai inganno o villania.

76 Perché da te ben servito mi tegno,
     non posso far ch’io non ti dica il vero;
     ed anco parte il farò per isdegno,
     ch’io voglio aprirti tutto il mio pensiero.
     Ma la tua fede mi darai per pegno,
     se vuoi ch’io dica il fatto appunto intero:
     tu giurerai nol dir per Macometto. -
     Disse il pagano: - E così ti prometto.

77 Or nota quel ch’io dico, Dilïante:
     Calavrïone in Francia è ito in fretta,
     e va sozzopra il Ponente e il Levante
     per far del Veglio vostro la vendetta,
     al qual s’amico fui, sa Trevigante;
     e tal c’ha ’l fico in man ne cerca in vetta,
     e porterà di questo fatto pena
     molti che ricordar l’udirno appena.

78 E chi l’uccise bee col tuo bicchiere
     e mangia sempre e dorme e parla teco,
     e come Giuda è teco a un tagliere
     e nel catin tuo intigne, e tu se’ cieco.
     Pensai che tu fingessi non sapere:
     quel cavalier ch’Orlando ha qui con seco,
     conoscil tu ancora o sai il suo nome
     o volleti Rinaldo mai dir come?

79 Di tutti gli altri sai ti disse appunto;
     di costui tacque e trovò certa scusa:
     «Tu nol conosci», disse, «un mio congiunto»,
     ed ebbeti la bocca così chiusa.
     E’ mi dispiace tu resti qui giunto,
     gonfiato come palla o cornamusa,
     e che tu creda così a Rinaldo,
     e non t’avvegga e’ t’inganna il ribaldo.

80 Or sappi ch’Aldighier costui si chiama.
     Essendo un giorno a Monaca, giostrando
     uccise il Veglio tuo di tanta fama;
     poi disse ch’era parente d’Orlando;
     ed ordinorno la più sciocca trama
     di legger certe lettere nel brando,
     le qual dicìeno in parlar saracino
     come d’Orlando e Rinaldo è cugino.

81 Questo credo io che sia la verità:
     tanto è che questo inganno v’andò sotto;
     e battezzossi e dètte la città,
     ché tutto avean per lettere condotto,
     mostrando di venir, come si fa,
     per la vendetta far di Marïotto,
     ed avean prima questa tela ordita:
     sì che il tuo Veglio vi misse la vita.

82 Prima fece giostrar, questo fellone
     di Rinaldo, il fratello ed Ulivieri,
     e lascioron cadersi dell’arcione,
     che non soglion cader tal cavalieri;
     tanto che ’l Veglio fu preso al boccone
     e disfidossi con questo Aldighieri:
     non lo stimò veggendol giovinetto;
     tanto è che questo l’uccise in effetto.

83 Rinaldo fu cattivo insino in fascia,
     e già per ammazzarlo andò in persona,
     e féllo a petizion d’una bagascia,
     Antea, ch’egli ha lasciata a Bambillona
     perché e’ non crede che vi sia più grascia:
     guarda chi tien del Soldan la corona!
     ma nol poté uccider con sua mano,
     però che ’l Veglio si fece cristiano.

84 La nostra legge ciò non ci consente,
     che, quando un si volessi battezzare,
     noi lo debbiamo uccider per nïente:
     non sel potendo dinanzi levare,
     per questo ch’io ti dico, onestamente,
     e pure ’Antea volendo satisfare,
     condusselo alla mazza a questo inganno;
     e’ pesciolini a Monaca lo sanno.

85 Però troppo mi son maravigliato
     come voi siate stato in tanto errore
     a creder ciò che Rinaldo ha parlato.
     Or non bisogna insegnare al signore,
     massime avendo il nimico ingabbiato.
     Io vi conforto a tutti fare onore,
     e sopra tutto a questo esser discreto:
     che ciò ch’io ho detto, tra noi sia segreto. -

86 E dipartissi questo maladetto,
     e disse fra suo cuor: «S’io non son matto,
     credo che sgocciolato sia il barletto».
     Dilïante rimase stupefatto,
     e fece sopra ciò più d’un concetto
     come più netto rïuscissi il tratto,
     che rimanessi alla lasca la lontra;
     ché ciò che Gan gli ha detto si riscontra.

87 E come savio, una sera, cenando,
     disse così, ché è malizioso e tristo:
     - Questo baron come si chiama, Orlando?
     Forse che ’l nome ha ancor maümettisto? -
     e poi più oltre venìa seguitando:
     - Non disse nella cena il vostro Cristo:
     «Colui che meco nel catino intigne
     mi dèe tradire, anzi ha tradito e figne»? -

88 Rispose Orlando: - Questo che vuol dire? -
     Disse il pagan: - Sanza cagion nol dico.
     Colui c’ha a far, non suol molto dormire,
     ma sempre investigar del suo nimico:
     ben sapea ben chi ci dovea venire,
     ch’a Monaca e Corniglia ho qualche amico:
     colui ch’uccise il Veglio, quel gigante,
     mi par poco maggior che Dilïante.

89 Ah, credi tu, Orlando, ch’io non sappi
     per che cagione io v’abbi qui invitati,
     e quel che disse Rinaldo mi cappi?
     E se di qui voi non fussi passati,
     egli eron ben più là tesi i calappi.
     Voi siete nella trappola ingabbiati:
     non uscirete mai di queste porte
     s’ a tutto il popol mio non date morte.

90 E so che Gano è un quel c’ha tradito
     tra questi il Veglio mio della Montagna.
     E s’alcun tordo da me s’è fuggito,
     quando e’ son troppi egli sforzon la ragna.
     Lascia pure ir, Rinaldo se n’è ito:
     io vo’ che qualcun preso ne rimagna.
     Questo è Aldighier, che ’l mio parente uccise.
     E so che Gano ogni ingegno vi mise,

91 come colui che n’ha forse un già fatto
     de’ tradimenti e ’nganni alla sua vita;
     ma per tornar sì spesso al lardo il gatto
     la penitenzia sua non ha fuggita. -
     Guarda se questo colpo fu di matto,
     e se Gan ben la tela aveva ordita!
     Orlando si turbò quando ode questo,
     e giudicò di Gan nel suo cor presto;

92 e volle al saracin far la risposta.
     Ma Aldighier rispose innanzi a lui,
     e disse: - Dilïante, la proposta
     perché a me si dirizza, io son colui
     ch’uccisi il tuo parente; ed a tua posta
     ti proverrò che traditor mai fui:
     uccisil con la lancia e realmente,
     e chi dice altro, per la canna mente.

93 Da ora innanzi, Dilïante mio,
     come col Veglio a Monaca giostrai,
     che fu sanza peccato, e sallo Iddio!,
     io giosterrò ancor teco, s’ tu vorrai. -
     Rispose Dilïante: - Quel voglio io;
     e s’ tu m’abbatti, libero sarai,
     e tutti in pace di qui ve n’andrete,
     ed anco le mie gente menerete.

94 Ah, - disse Orlando - così far mi piace!
     Ma che tu ci facessi alcun oltraggio
     in altro modo, il pensier tuo fallace
     sarebbe, e poco onor del tuo legnaggio.
     A questo modo si farà la pace,
     e parli, Dilïante, or come saggio;
     ché Aldighieri è ver ch’uccise il Veglio,
     ma la battaglia non poté andar meglio:

95 non vi fu inganno ignun né tradimento,
     e vendicato fu, per Macometto! -
     Disse Aldighieri: - Io il so, ché me ne sento,
     che fu’ portato per morto in sul letto.
     - Adunque, Dilïante, sia contento -
     diceva Orlando - far come tu hai detto,
     e ’n questo modo sarai commendato;
     però che ’l Veglio ci resta obligato,

96 ed ebbe in Bambillona sepultura
     come e’ fu certo, al mio parer, uom degno,
     e piango ancor la sua disavventura.
     Io ho cercato del mondo ogni regno
     per mar, per terra, e spesso l’armadura,
     per non aver danar, lasciato pegno;
     ma tradimento mai né inganno o frodo
     non troverrai ch’io facessi a gnun modo.

97 Non si costuma tradimenti in Francia;
     come Aldighier t’ha detto, è proprio il vero,
     e chi dice altro, di’ ch’e’ sogna o ciancia:
     costui vi venne come forestiero;
     nol conosceva; uccisel con la lancia
     a corpo a corpo, come buon guerriero,
     ed era saracino e lui cristiano:
     dunque Aldighier non ci ha colpa né Gano.

98 Domattina provate insieme l’armi,
     se pure alcuna ruggine ci resta. -
     Rispose il saracin: - Mille anni parmi
     che noi siam colla lancia in sulla resta:
     a questo modo almen potrò sfogarmi. -
     Diceva Gano, e crollava la testa:
     - Tu mi di’ traditor, ma sia in buon’ora:
     forse con meco giosterrai ancora. -

99 Disse il pagano: - E teco giosterròe:
     io ti senti’ chiamar così a Rinaldo. -
     Gan traditor col capo minacciòe:
     non domandar se finger sa il ribaldo!
     Ognun la sera a letto se n’andòe,
     e ’n questo modo l’accordo fu saldo;
     e come e’ sono in camera serrati,
     addosso a Gan si son tutti voltati.

100 Diceva Orlando: - Onde ha questo segreto
     costui, che par gittato proprio in forma,
     appunto a quante carte all’alfabeto?
     Questo è pur lupo della nostra torma.
     Qui si bisogna, Astolfo, esser discreto:
     io vo’ ch’ognun coll’arme indosso dorma;
     un occhio alla padella, uno alla gatta,
     ch’io so che qualche trappola ci è fatta. -

101 Rispose Astolfo: - Tanti billi billi!
     Che nol di’ tu che Gan l’ha imburiassato?
     Perché pur trarci il vin con questi spilli?
     Un tratto il zaffo avessi tu cavato! -
     Rispose Gan: - Tu hai il capo pien di grilli,
     e fusti sempre pazzo e sbardellato. -
     Diceva Astolfo a Malagigi allora:
     - Deh, fa’ che questa lepre balzi fuora. -

102 Malagigi non volle gittar l’arte,
     però che ne facea gran conscïenzia,
     e non si può far sempre in ogni parte:
     convien ch’a molte cose abbi avvertenzia,
     e veste consecrate, e certe carte
     essorcizzate con gran diligenzia,
     pentacul, candarìe, sigilli e lumi
     e spade e sangue e pentole e profumi.

103 Questo dich’io; ch’i’ so ch’alcun direbbe:
     «Quando costoro avevon Malagigi,
     d’ogni cosa avvisar gli doverrebbe:
     "Così fa il tal; così Carlo in Parigi"».
     Dunque costui come un iddio sarebbe,
     se sapessi d’ognun sempre i vestigi:
     i negromanti rade volte fanno
     l’arte, e non dicon ciò che sempre sanno.

104 Tutta la notte vi si borbottava:
     ognun volea pur Gano in gelatina;
     ma sopra tutti Astolfo vel tuffava.
     Dilïante si lieva la mattina
     e in su la piazza armato se n’andava;
     ed Aldighier, che questo s’indovina,
     venne in sul campo; e non si salutorno,
     ma come e’ giunse, del campo pigliorno.

105 Quivi era Orlando e’ suoi compagni armati.
     Dilïante rivolse il suo cavallo,
     ed ha tutti gli sproni insanguinati:
     come un cerviatto faceva saltallo;
     e quando insieme si son riscontrati
     ognun pareva un Marte sanza fallo:
     la lancia del pagan par che si cionchi,
     e quella d’Aldighier va in aria in tronchi.

106 Ritornon con le spade alla battaglia:
     dunque costor non facean per motteggio.
     Lo scudo l’uno all’altro assai frastaglia,
     ma veramente ignun non avea il peggio:
     due ore o più la zuffa si ragguaglia.
     Diceva Orlando: - Ond’io lievi non veggio
     o dove io ponga in su questa bilancia,
     o vuoi col brando, Astolfo, o con la lancia.

107 Io giurerei ch’ognun fussi un Acchille:
     odi la spada d’Aldighier che fischia;
     guarda il pagan se raccende faville! -
     Ma poi che molto è durata la mischia,
     trasse Aldighieri un colpo, e valse mille,
     ché la Fortuna crudel non cincischia:
     due parte al saracin del capo fece,
     che non si rappiccò poi con la pece.

108 Ecco che tu se’ morto, Dilïante,
     ch’era pur buono a Rinaldo credessi
     che morto avessi il tuo Veglio il gigante,
     e Ganellon discacciato l’avessi:
     tu fusti, come giovane, ignorante
     e furïoso; or lo piangi tu stessi:
     aspetta luogo e tempo alla vendetta,
     ché non si fe’ mai nulla bene in fretta.

109 I terrazzan tra lor son consigliati,
     e poi facìen questa conclusïone:
     - Da poi che voi ci avete liberati
     da quel malvagio e superbo lïone
     che tanti e tanti n’avea divorati,
     e tratti delle man di Faraone
     del signor tristo, obligati vi siamo,
     e tutti in Francia con voi ne vegnamo. -

110 E finalmente, ordinate le schiere
     in pochi dì, con Orlando ne vanno,
     con quel lïon nelle bianche bandiere
     che insin di Bambillona arrecato hanno;
     tanto che presto potranno vedere
     Calavrïon co’ suoi, che ciò non sanno;
     il qual Parigi faceva tremare,
     e vuol suggetto il ciel, la terra e ’l mare.

111 Già era Orlando sopra una montagna
     donde si vede il campo de’ pagani
     che cuopre le pendice e la campagna,
     e pien di padiglion veggono i piani.
     Diceva Orlando con la sua compagna:
     - Tosto con questi saremo alle mani. -
     Ed Aldighier parea troppo contento:
     pensa quando in Parigi sarà drento!

112 Carlo la notte dinanzi sognava
     ch’un gran lïone in Parigi era entrato
     per una porta, e per l’altra passava,
     e tutto il campo aveva scompigliato.
     Orlando già alle mura s’accostava.
     Carlo si stava tutto addolorato;
     sentì che nuova gente ne venìa,
     e per dolor non sa dove e’ si sia;

113 e diceva al suo Namo: - Più non posso;
     a questa volta so ch’io son diserto:
     credo che ’l mondo ci verrà qua addosso. -
     In questo tempo Orlando ha già scoperto
     il segno del quartier suo bianco e rosso,
     e conosciuto da tutti fu certo;
     e tutto il popol corre con gran festa,
     ch’un testimone in Parigi non resta.

114 Tutta la corte con lo ’mperadore
     incontro va, come Orlando fu visto:
     parea, veggendo la furia e ’l romore,
     quel dì ch’a Gerosolima andò Cristo,
     ch’ognun correva a vederlo a furore.
     Ah, popol così presto ingrato e tristo!
     Così correva il dì questo gridando:
     - Non dubitate omai, ch’e’ torna Orlando! -

115 Orlando, al modo usato, umilemente
     a’ pie’ di Carlo Man s’è inginocchiato
     e fatte l’abbracciate; e finalmente
     nel gran palazzo il popol tutto è andato.
     Lo ’mperadore ’Aldighier pose mente,
     e domandò chi fussi e donde è nato.
     Orlando disse come di Gherardo
     era figliuolo, e quanto era gagliardo.

116 Poi domandò quel ch’era di Rinaldo.
     Orlando gli dicea com’egli era ito,
     come colui ch’a questa impresa è caldo,
     per gente, e presto sarà comparito.
     Poi domandava del suo Gan ribaldo.
     Disse Orlando: - Dinanzi m’è sparito;
     a Montalban disse oggi voleva ire
     per far di là Grifonetto partire. -

117 Carlo rispose: - Questo fia ben fatto:
     forse Grifon fa pur contro a sua voglia. -
     Astolfo rispondeva al primo tratto:
     - O Carlo, tu mi fai morir di doglia
     a creder Ganellon si sia ritratto
     da’ tradimenti, e non sia quel che soglia:
     fa’ che tu creda a Gano insino a morte,
     e scaccia pure Orlando di tua corte.

118 Vuoi ch’io ti dica quel tristo del vero?
     Io tel dirò, ma egli è un ladroncello,
     e fassi malvolere al forestiero,
     al terrazzano, all’amico, al fratello.
     Tu non se’ uom da regger, Carlo, impero,
     e fai come si dice l’asinello,
     che sempre par che la coda conosche
     quando e’ non l’ha, che sel mangion le mosche.

119 Mentre che in corte è il tuo caro nipote,
     tu pensi qualche ingegno da cacciarlo;
     come e’ non ci è, tu ti graffi le gote;
     che doverresti per certo adorarlo
     sappiendo quanto e’ t’ama e quanto e’ puote.
     Io vo’ che tu mi creda questo, Carlo:
     che se ci fussi stato il nostro conte,
     questi pagan non passavano il monte. -

120 Mentre che molte cose ognun ragiona,
     Calavrïon nel campo aveva inteso
     ch’Orlando in Parigi è con la Corona,
     e bestemiava il Ciel di rabbia acceso;
     sentia che la città tutta risuona,
     che si pensava aver già Carlo preso;
     sùbito fece il campo rafforzare
     ed Archilagio a consiglio chiamare.

121 Non si vantava più questo Archilagio,
     come prima ogni giorno far soleva,
     di pigliar Carlo insin drento al palagio;
     ognun d’un altro paese pareva
     e cominciava a far le cose adagio;
     ognun d’Orlando paura già aveva:
     sempre chi piglia i lïoni in assenzia,
     vedrai che teme d’un topo in presenzia.

122 Dunque Archilagio non è quel che e’ suole.
     Or ritornianci in Parigi a Orlando.
     Diceva Orlando: - Carlo, qui si vuole
     presto ogni cosa venir disegnando,
     ch’egli è tempo a far fatti e non parole.
     Questo Aldighier va il suo padre cercando:
     con diecimila a Montalban ne vada,
     e Berlinghier gli mosterrà la strada:

123 tu di’ che v’è Gherardo, il padre, drento. -
     Sùbito in punto si misse Aldighieri,
     e fu di questa andata assai contento;
     e va con esso il gentil Berlinghieri.
     Ben sai che, detto e fatto, un tradimento
     aveva in punto già Gan da Pontieri:
     a Montalban di tratto si difila
     con forse di suoi amici ventimila,

124 e sconosciuto ne va con costoro:
     èvvi Beltramo, un de’ suoi di Maganza,
     e di Lusanna il conte Pulidoro.
     Di prender Montalbano avea speranza,
     e d’ingannar Gherardo come soro
     e ’l Danese e Vivian sotto amistanza.
     E Berlinghier di lungi l’ha veduto
     e ’l segno del falcon riconosciuto;

125 e ’ndovinossi, ch’era scozzonato
     e le malizie conosce di Gano,
     che questo traditor ne va affilato,
     per far qualche trattato, a Montalbano;
     ed ha tanto il cammin sollecitato
     che costor raggiugneva in un gran piano,
     e domandò chi sia questa brigata,
     e chi sia il capitan di tale armata,

126 e s’egli è Gan con loro, e dove e’ vanno.
     Beltramo una risposta gli fe’ strana:
     - Chi e’ si sieno nol dicon, ché nol sanno;
     ma vanno per la via perch’ella è piana. -
     In questo Ganellon conosciuto hanno,
     che faceva le mummie, anzi befana;
     ed Aldighier gridò: - S’io ben ti squadro,
     non se’ tu Ganellon, traditor ladro?

127 Traditor doloroso, can ribaldo,
     traditor, padre e capo d’ogni male,
     traditor nato per tradir Rinaldo,
     traditor frodolente e micidiale,
     traditor degno dello etterno caldo,
     traditor crudo, iniquo e disleale,
     traditor falso scacciato da corte,
     traditor, guârti, io ti disfido a morte! -

128 ed abbassò la lancia con gran fretta.
     Gan gli rispose: - Aldighier, tu ne menti,
     ché traditor se’ tu con la tua setta
     e fusti sempre, e tutti i tuoi parenti. -
     Beltramo e Pulidor quivi si getta:
     feriron tutti co’ ferri pungenti
     Aldighier, tal che gli fororno il petto,
     perch’eron tre, e lui sol, giovinetto;

129 ed uccisongli sotto il suo cavallo.
     Intanto Berlinghier la lancia abbassa:
     vede Beltramo che venìa a trovallo,
     e con un colpo l’arme e ’l cuor gli passa.
     Pulidor, quando vedeva cascallo
     disteso a piombo che parve una massa,
     addosso ad Aldighier si scaglia presto,
     perché e’ conobbe ben che morto è questo.

130 Aldighier, così in terra poveretto,
     gli misse tutta ne’ fianchi la spada
     e morto il fece cadere in effetto.
     E Berlinghier gentile anco non bada:
     parea di diaccio a’ suo’ colpi ogni elmetto,
     ed ha calcata di morti la strada
     e tutto sanguinoso in mano il brando,
     tanto che parve a questa volta Orlando.

131 Credo ch’egli ebbe Berlinghier vergogna
     di se medesmo, ed altro spron non volle,
     sì come a gentil cor già non bisogna,
     quando e’ giostrò quel dì con Mattafolle
     che gli grattò dove non fu mai rogna;
     ed oggi a tutti gli altri fama tolle:
     ognun che tocca, alla terra giù balza
     morto, ché in fallo la spada mai alza.

132 Qual Cesar, qual Anibal, qual Marcello,
     quale Affrican, qual Paül, qual Cammillo,
     quale Ettor comparar potriesi a quello?
     Quanti ne pugne, par ch’abbin l’assillo;
     ha fatto un lago di sangue, un fragello
     di cavalier, ch’io mi vergogno a dillo;
     sempre il balen si vede e ’l tuono scoppia,
     e tuttavolta la furia raddoppia.

133 Pareva questo giorno lui il falcone,
     e peregrino, e non parea il colombo,
     ché quanti ne feriva con l’unghione
     tanti giù morti ne caggiono a piombo;
     talvolta si chiudea com’un rondone,
     tanto ch’ognun si sbaraglia a quel rombo;
     come il lïon tra gli armenti si scaglia,
     e pare a’ colpi suoi rete ogni maglia,

134 anzi parea delle tele d’aragne.
     Guardisi ognun dove col brando aggiunga,
     ché le corazze parén di lasagne;
     guarda che questa pecchia non ti punga:
     lo scudo e l’arme tue sien le calcagne,
     ché non varrà qui incanto o che tu unga;
     fuggitevi, ranocchi, ecco la biscia,
     che fischia forte quando il brando striscia.

135 Avea lui sol tenuto, come Orazio
     al ponte, Berlinghier la pugna il giorno,
     e non si potre’ dir qual sia lo strazio
     de’ morti già ch’egli aveva dintorno.
     Io non sarei per me mai stanco o sazio
     a dir di questo paladino adorno,
     tanto mi son sempre di lui piaciute
     tutte sue opre colme di virtute.

136 Mentre che Berlinghier questo facea,
     ecco Gherardo e ’l Danese e Viviano
     che con tremila a caval vi giugnea,
     e tutti a tre venien da Monte Albano,
     ché Grifonetto ogni dì lo strignea,
     e vanno per aiuto a Carlo Mano.
     Giunto Gherardo, Berlinghier conosce,
     e domandò donde sien tante angosce.

137 Berlinghier disse ogni cosa a Gherardo,
     come quel traditor gli avea ingannati.
     Diceva il sir di Rossiglione: - Io guardo
     colui che intorno a sé tanti ha ammazzati
     così pedon, che par baron gagliardo. -
     Rispose Berlinghier: - Fa’ che tu guati
     come scacciar si possa questa gente
     ed ammazzar quel traditor dolente. -

138 Gherardo allor la sua lancia abbassava
     subitamente, e Viviano e ’l Danese:
     così questa battaglia rinforzava.
     Ma Ganellon, che ’l giuoco presto intese,
     veduto Uggieri, a fuggir cominciava,
     e di ritrarsi per partito prese;
     così tutta sua gente in poca d’otta
     si misse in fuga sbaragliata e rotta.

139 Poi che partiti i Maganzesi sono,
     Aldighier nostro si venìa già manco,
     ed avea dato a Berlinghieri un suono,
     dicendo: - Io ho passato tutto il fianco:
     aiutami, fratel discreto e buono. -
     Gherardo dicea pur: - Chi è il giovan franco?
     Il perché Berlinghier con molto duolo
     rispose: - È Aldighier, ch’è tuo figliuolo. -

140 Gherardo, quando questo ebbe sentito,
     iscese in terra e vanne al giovinetto;
     ed Aldighier, c’ha Berlinghieri udito,
     s’inginocchiò e trassesi l’elmetto,
     e sforzasi il meschin, così ferito,
     d’abbracciare il suo padre poveretto,
     e mille volte gli baciò la fronte,
     ed ha fatta di lacrime una fonte.

141 Gherardo anco piangea d’affezïone;
     domandò della madre Rosaspina;
     disse Aldighieri: - Nella sua regione
     lasciata l’ho tra’ saracin reina.
     Sappi che m’ha ferito Ganellone.
     L’anima mia al suo regno camina... -
     e non poté parlar più oltre scorto,
     e cadde a’ pie’ del padre in terra morto.

142 padre al tutto misero in etterno!
     O padre afflitto! O padre sconsolato!
     O padre in paradiso e poi in inferno!
     O padre che già tanto l’hai bramato,
     o padre, or l’hai perduto in sempiterno!
     O padre, ecco il figliuol che tu hai trovato!
     O padre che mai più ti darai pace,
     ecco Aldighier che morto a’ tuoi pie’ iace:

143 tu non sarai più lieto alla tua vita!
     Gherardo tramortì sopra ’l suo figlio
     come e’ vide quell’anima partita;
     e risentito e vòlto intorno il ciglio,
     una cosa parea pazza e smarrita,
     un uom perduto, fuor d’ogni consiglio.
     Uggier molto e Vivian lo confortorno
     e giusto il poter lor racconsolorno.

144 Ed ordinorno in su quattro destrieri
     un cataletto, dove porton quello,
     ed a Parigi van con Aldighieri;
     e ’l padre suo sì tristo e tapinello
     lo fa portare innanzi allo imperieri;
     e tutto il popol corre là a vedello.
     Dicea Gherardo innanzi a Carlo Mano:
     - Questo è Aldighier, ch’ucciso m’ha il tuo Gano. -

145 Quivi piangeva amaramente Carlo;
     quivi piangeva tutta la sua corte;
     quivi Gherardo ignun può consolarlo;
     quivi si duole ognun della sua morte;
     quivi pur Gano ognun volea squartarlo;
     quivi bestemmia alcun sì crudel sorte;
     quivi l’essequie s’ordina e ’l mortoro;
     quivi veniva tutto il concestoro.

146 Quivi Aldighier nel trïunfal palagio
     di porpora coperto è riccamente,
     di drappi d’oro ornati di doagio.
     Calavrïon questa novella sente
     sùbito in campo, e ’l fratello Archilagio,
     e molto fu di tal caso dolente
     perché e’ sapea della sua gagliardia,
     ché l’avea conosciuto in Pagania;

147 e non sapeva che ’l Veglio uccidessi;
     amava questo assai già per antico:
     ma che dich’io? quando ben lo sapessi,
     le virtù l’ama a forza ogni nimico;
     e scrisse a Carlo Man che gli piacessi,
     per vedere Aldighier morto, suo amico,
     conceder la venuta e la partita,
     però ch’amato assai l’aveva in vita.

148 Carlo rispose molto grazïoso
     che tutto il campo e lui libero vegna,
     come degno signor, magno e famoso,
     in cui molta eccellenzia sa che regna.
     Calavrïon, con volto assai doglioso,
     con certi principal della sua insegna
     ed Archilagio suo tanto stimato
     venne a Parigi, e fu molto onorato;

149 e pianse molto, e confortò Gherardo,
     e dètte questo vanto ad Aldighieri,
     che se viveva il giovane gagliardo,
     non fu mai al mondo il miglior cavalieri.
     Non so se questo vanto fu bugiardo,
     perché e’ si dice di Risa Riccieri.
     Dunque Aldighier piangevano i cristiani
     per le sue gran virtù; così i pagani.

150 Carlo di questo caso assai si duole;
     non vi rimase un sol non lacrimassi;
     e ’l vecchio padre diceva parole
     da far pianger le fiere e’ monti e’ sassi
     e per pietà fermar la luna e ’l sole:
     non è sì duro cor non si schiantassi,
     tanto commiserevol cosa e scura
     era a vederlo in questa sua sciagura.

151 E sepellito fu con tanto onore
     che tanto mai non ebbe Ettor troiano.
     Poi nel palazzo il magno imperadore
     Calavrïon menò sempre per mano;
     e volle Carlo Man ch’un tal signore
     andassi da man destra; ma il pagano
     non volle in modo alcun accettar questo,
     ch’era gentil, costumato ed onesto.

152 Posti a sedere, Orlando cominciòe
     innanzi a tutti una bella orazione;
     e tanto ben le parole acconciòe
     che fece amico suo Calavrïone
     ed ogni suo proposito mutòe,
     come fa il savio udendo la ragione,
     e d’ogni cosa lo facea capace;
     ed abbracciârsi, e fu fatta la pace.

153 Non bisogna che venga quel d’Arpina,
     Quintiliano, Demostene o nessuno,
     per insegnare a Orlando dottrina.
     E contro a Ganellon si volse ognuno.
     Calavrïon sua gente saracina
     offerse, e molto giuravan ciascuno
     di fare aspra vendetta d’Aldighieri
     e che si debba a campo ire a Pontieri.

154 Ognuno a questa impresa s’accordava.
     Gan, come questo sentiva, il fellone
     sùbito verso Pontieri arrancava,
     e fe’ da Montalban levar Grifone;
     e quanto può la sua terra afforzava.
     Carlo, giugnendo con Calavrïone,
     sentì che ’l traditor di Gano è drento
     e che faceva gran provedimento.

155 Con tutta questa gente vi pose oste:
     da ogni porta una parte ne caccia,
     e piglion tutti i pian, montagne e coste:
     ognuno il traditor pigliar minaccia,
     e stanno tutti co’ cani alle poste:
     ognun vuol questa lepre, ognun la traccia,
     e sanno dove ella è posta a giacere,
     e non si curan pertica o levriere.

156 Lasciàn costoro intorno, e in mezzo Gano.
     Rinaldo nostro séguita il suo corso;
     e per fortuna in un paese strano
     s’avvide il padron suo ch’era trascorso,
     e disse: - Mal condotti un giorno siàno:
     e’ ci convien pigliare o ’l graffio o ’l morso.
     Noi ci troviam sotto il segno di Marte,
     dove val poco del nocchier qui l’arte.

157 e’ ci bisogna correr per perduti,
     o e’ ci bisogna afferrar questo porto;
     se noi surgiam, come noi siàn veduti,
     ècci un signor ch’ognun si può dir morto:
     non credo di natura si rimuti:
     vive di ratto e di rapina a torto,
     di naüfragi e d’ogni cosa trista,
     e chiamasi per nome l’Arpalista.

158 Quella città si chiama Saliscaglia;
     di sopra alla città sta in un castello
     donne che son tutte use ire in battaglia
     e stanno tutte al servigio di quello;
     come quelle Amazzóne veston maglia;
     son per natura coperte di vello,
     pilose, setolute, strane e brutte,
     ma molto fiere per combatter tutte. -

159 Rinaldo rispondea: - Tu mi solletichi,
     padrone, appunto dove me ne giova,
     ch’io so guarire i pazzi de’ farnetichi:
     parmi mill’anni d’essere alla pruova;
     e molti, che non credon come eretichi,
     hanno veduto spesso cosa nuova.
     Surgiàn pur presto e fuggiàn via fortuna;
     poi non temer più di cosa nessuna:

160 l’ira del mare è d’averne paura
     però che contro a lei forza non vale;
     ma di combatter poi con l’armadura
     con quel signor crudele e micidiale,
     io lo farò saltar per quelle mura
     e proverrò se sa volar sanza ale. -
     E confortò il padron tanto e minaccia,
     che surse finalmente, e ’l ferro spaccia.

161 Era quella città sopra una ripa
     che soprastà dalla banda del mare,
     piena di scogli e di rocce e di stipa,
     che non vi posson le capere andare;
     tanto che ’l cuore al padron se gli scipa.
     Rinaldo dicea pur: - Non dubitare.
     Io voglio andar, padrone, in Saliscaglia,
     ed arrecar giù roba e vettovaglia;

162 manda con meco qualche marinaio. -
     Disse il padron: - Cotesto son contento:
     e’ ne verrà con teco qualche paio. -
     Rinaldo alla città se ne va drento
     e ruba il cuoco e saccheggia il fornaio,
     e sgombera e ritra’si a salvamento;
     e nell’uscir fu la spada la chiave,
     e ritornossi al padrone alla nave.

163 E disse: - Come il becco un poco immollo,
     sicuro vo per boschi e per padule;
     il monte Sinaì porterei in collo,
     come e’ trabocca il vin fuor pel mezzule;
     io intendo di voler morir satollo. -
     E cominciò a grattarsi il gorgozzule,
     e pettina e sollecita il barlotto,
     tanto che fece di prete lo scotto.

164 All’Arpalista vanno le novelle
     ch’un forestier la terra ha saccheggiata:
     sùbito fece armar quelle donzelle
     ed ordinò la porta abbin guardata;
     e la capitanessa fu di quelle
     una, quale era Arcalida chiamata.
     Rinaldo alla città già tornato era,
     e sfuma fuori il vin per la visiera.

165 Arcalida si fe’ innanzi alla porta,
     e disse: - Dove vai tu, cavaliere,
     che par’ così sicuro sanza scorta? -
     Disse Rinaldo: - Io tel farò sapere.
     Aspetta ch’io t’infilzo: tu se’ morta. -
     Alardo intanto spronava il destriere
     e ’nfilza presto un’altra damigella
     e posela a giacer giù della sella.

166 Guicciardo un’altra di queste rintoppa
     ed una lancia arrestata gli accocca,
     e tutta la forò sotto la poppa,
     e come Alardo, a giacer la rimbocca.
     Ricciardetto una ne punse alla groppa,
     che non portò mai più spada né rocca.
     Così tra queste donzelle e’ cristiani
     si cominciò a menare altro che mani.

167 Arcalida s’appicca con Guicciardo,
     e finalmente sotto se lo caccia:
     volle veder come egli era gagliardo,
     quantunque poco mal costei gli faccia;
     sùbito addosso a lei correva Alardo,
     tanto ch’alfin questa donzella spaccia,
     però che la passò nel pettignone,
     ch’arme ch’avessi non valse un mellone.

168 Le porte d’ogni parte fur serrate,
     tanto ch’al buio in mezzo combattevano;
     e tutte le donzelle hanno spacciate,
     ch’a una a una in terra le ponevano;
     e le porte hanno rotte e sgangherate,
     e ’l borgo a saccomanno poi correvano.
     Rinaldo è stato a diletto a vedere
     quelle fanciulle rovescio cadere,

169 e Ricciardetto e Guicciardo dileggia:
     - Io non pensai che voi fornissi mai
     di spacciar quattro femine! - e motteggia.
     Alardo disse: - Provato non hai:
     non si conosce ogni volta l’acceggia
     al becco lungo, non so se tu il sai;
     tu non sai ben come elle s’aiutavano:
     co’ colpi in aria, per Dio, ci levavano!

170 Elle son tutte ammaestrate al giuoco,
     e bisognò molta acqua si versasse
     prima che fussi spento questo fuoco.
     Basta che netto ciascun si ritrasse.
     Tu porteresti, s’ tu provassi un poco,
     le lance alle bandiere poi più basse:
     una di lor ti parrebbe bastante
     non ch’aversi a provar con tutte quante. -

171 Ma l’Arpalista, inteso tutto il fatto,
     un suo cugino Archilesse là manda;
     e disse, come e’ giunse, questo matto:
     - Apollin vi sconfonda d’ogni banda! -
     e con Guicciardo si sfidò di tratto.
     Guicciardo al suo Gesù si raccomanda,
     e bisognava, ché non priega invano:
     ch’erano in monte e ritrovossi al piano.

172 Ed Archilesse nel portava via,
     e come il lupo al bosco la dà all’erta.
     Rinaldo, come lo vide, dicìa:
     - Aspetta, ché la guardia s’è scoperta -
     e finalmente Archilesse giugnìa
     e minacciò di dargli con Frusberta;
     donde il pagan: - Tu mi fai torto! - grida;
     lasciò Guicciardo e con lui si disfida.

173 Abbassaron le lance, e furon rotte,
     e con le spade a ferirsi tornaro,
     dandosi insieme di villane botte.
     Il saracin, non veggendo riparo,
     volle Baiardo guarir delle gotte:
     dèttegli un colpo che gli parve amaro,
     ché, s’egli avessi preso meglio il collo,
     credo che forse non dava più crollo.

174 Gridò Rinaldo: - Omè, Baiardo mio,
     e’ sare’ meglio esser con quelle dame
     che con questo pagan crudele e rio
     che così scardassato t’ha lo stame.
     Io ti vendicherò, pel nostro Iddio! -
     Baiardo il ciuffò presto con le squame;
     Rinaldo un colpo gli diè in su la testa,
     che gliel’ partì pel mezzo appunto a sesta.

175 Dunque convien che l’Arpalista sbuchi:
     venne coperto d’arme, e poi di seta
     la sopravvesta, che par che riluchi
     come ’l sol fra le stelle o la cometa.
     Rinaldo, quando vide tanti bruchi,
     disse: «Costui persona par discreta:
     recata ha questa per sua cortesia,
     ch’al mio padron della nave la dia».

176 Poi disse all’Arpalista: - Io son venuto
     per purgarti d’ogni opra tua cattiva:
     che sempre se’ di tirannia vivuto
     o s’alcun legno si rompe alla riva
     per tutti questi mar, detto m’è suto;
     ch’io me n’andavo ove si posa Uliva,
     ma volsi in questa parte il mio cammino
     per gastigar sì ingiusto saracino;

177 ché so ch’ella fia opera famosa
     e piacerà a Macon nel Ciel per certo. -
     Il saracino, ascoltato ogni cosa,
     disse: - Ribaldo, io t’ho troppo sofferto,
     ché d’impiccarti più tosto pietosa
     sarebbe opera suta e giusto merto,
     come si fa a’ tuoi par corsar che vanno
     facendo prede e ruberie e danno. -

178 Disse Rinaldo: - Io non fu’ mai pirrato! -
     e dètte presto al caval degli sproni;
     e l’uno e l’altro si fu discostato,
     e tornonsi a ferir con due stangoni:
     ché l’Arpalista un abete ha recato,
     dicendo: - Questa svegliar fa i poltroni:
     con essa n’ho già desti più d’un paio,
     e tu sarai per questo dì il sezzaio. -

179 Rinaldo al saracino aveva detto:
     - Cotesta lancia mi par troppo grave:
     e pur si debbe aver qualche rispetto
     di non giostrar però con una trave;
     se tu ti pon’ cotesta lancia al petto,
     io torrò quaggiù l’arbor della nave. -
     Ma poi che vide il pagan così volse,
     un’altra simigliante a quella tolse.

180 Questi stangon nel petto si percossono,
     tanto che tutto lo scudo intronorno
     e l’uno e l’altro di sella si mossono,
     perché le lance sol non si piegorno,
     e sofferire il colpo ben non possono;
     vero è che in sulla terra non cascorno:
     il saracin rovescio in sulla groppa
     si ritrovò, quando il colpo rintoppa;

181 Rinaldo si piegò tutto e scontorse,
     e del sinistro piè gli uscì la staffa
     e quasi di cader la misse in forse;
     pur si sostenne e d’arcion non iscaffa.
     Poi presto in su la spada la man porse,
     e ’l saracin la sua dal fianco arraffa;
     e per un’ora o più gran colpi ferno;
     ma l’Arpalista regge a ogni scherno.

182 Pure alla fin, volendo riparare
     un colpo, un tratto lo scudo sù alza;
     Rinaldo vide un bel colpo da fare
     e che scoperta avea la mana e scalza:
     un colpo trasse, e quella ebbe a trovare,
     e collo scudo alla terra giù balza;
     donde un gran mugghio metteva il pagano
     quando e’ si vide tagliata la mano;

183 e disse: - Io mi t’arrendo: or mi perdona!
     Io ho perduto ogni cosa a un colpo:
     tu m’hai ferito, e guasta la persona,
     e fu il difetto mio, così m’incolpo.
     Dimmi, baron, come il tuo nome suona,
     ch’omai d’ogni peccato a te mi scolpo.
     Io son prigion tuo vero, anzi son morto:
     non mi toccar, poi ch’io m’arrendo, a torto. -

184 Disse Rinaldo: - Io son cugin del conte
     Orlando, il qual sentito hai ricordare:
     Rinaldo son chiamato di Chiarmonte. -
     L’Arpalista, sentendol nominare,
     con l’altra man si percosse la fronte:
     - O Macon, - disse - ben ti puoi sfamare:
     dunque tu m’hai condotto, can ribaldo,
     traditore, a combatter con Rinaldo?

185 Sia maladetto ch’io t’ho mai creduto!
     Sia maladetto la tua deïtà!
     Sia maladetto chi t’ha mai piaciuto!
     Sia maladetto chi t’adorerà!
     Sia maladetto il Ciel, ch’io lo rifiuto!
     Sia maladetto la tua crudeltà!
     Sia maladetto chi il tuo nome onora!
     Sia maladetto il dì ch’io nacqui e l’ora!

186 Sia maladetta la disgrazia mia,
     ch’io non conobbi te, Rinaldo, prima
     che la Fortuna troculente e ria
     mi cacciassi nel fondo dalla cima!
     Io ti do la mia terra in tua balìa;
     di me, come tu vuoi, puo’ fare stima.
     Lasciami andar meschino e sventurato,
     ch’io vo’ cercar la morte in altro lato;

187 e non arà Macon questo piacere
     ch’io muoia in Pagania sotto suo regno. -
     Disse Rinaldo: - Io non ti vo’ tenere
     a forza, con dispetto e con isdegno;
     ma vo’ che ti rassegni, ché è dovere,
     al mio cugin famoso Orlando degno:
     così la fede or mi prometterai,
     ed a tua posta libero n’andrai. -

188 Rispose l’Arpalista: - E così giuro;
     io ho sempre bramato di vedello:
     di questo in ogni modo sta’ sicuro. -
     E così si partì quel meschinello:
     pensa quanto il partir gli fussi duro!
     Rinaldo la città prese e ’l castello;
     e ’l suo signor ne va peregrinando
     per ritrovar, come e’ giuròe, Orlando.

189 E così vuol la giustizia divina;
     così tutte le cose al mondo vanno,
     chi vive con tristizia e con rapina.
     Avea sognato il suo futuro danno
     la notte costui, presso alla mattina,
     come l’anime nostre spesso fanno:
     che in Saliscaglia un serpente veniva
     e per paura di lui si fuggiva.

190 Andò questo Arpalista assai cercando
     la morte, e prima a Parigi arrivò.
     Carlo non v’era e non vi truova Orlando,
     per la qual cosa a Pontier se n’andò.
     Gano ha trovato, che ’l vien domandando:
     - Dimmi chi sia, e soldo ti darò. -
     E’ gli diceva di sua crudel sorte
     e come andava cercando la morte.

191 Rispose Gan: - Tu debbi esser mandato
     da Carlo o da Orlando per ispia;
     e perch’io son più di te disperato,
     tra disperato e disperato fia:
     piglia del campo, ed arai qui trovato
     la morte che tu cerchi tuttavia. -
     E dètte volta al suo Mattafellone,
     e minacciava e chiamalo spïone.

192 L’Arpalista toccava il ciel col dito
     poi che trovato avea con chi contendere:
     subitamente a trovarlo n’è ito;
     tanto che Gan non si può alfin difendere,
     e cadde del caval tutto stordito,
     che non ne volea forse ancora scendere,
     sì forte colpo gli diè l’Arpalista
     che gli appiccò la lancia nella vista.

193 Molti baron di Gan che sono in piazza
     volson tutti le punte al saracino;
     ma perch’egli è di più che buona razza,
     si difendea così col moncherino,
     tanto ch’a molti frappò la corazza.
     Ma Ganellon, tornato in suo domìno,
     gridò che’ cavalier suoi si scostassino
     e più col saracin non contastassino.

194 E parvegli dover, ch’era malvagio,
     operar col pagano un altro unguento;
     e con parole cortese al palagio
     lo ’nvita, e l’Arpalista fu contento,
     dicendo che parlar gli vuole ad agio;
     e cominciò con lui ragionamento:
     - Chi tu ti sia, pagano, o di qual banda
     non vo’ cercare, o se Carlo ti manda;

195 ma perché mi pari uom discreto e forte,
     mi fiderò di te liberamente.
     Benché tu dica che cerchi la morte,
     so che cerchi altro, e fai come prudente.
     Carlo sbandito m’ha della sua corte,
     ed è qui il campo che vedi al presente.
     La ingratitù fu sempre ne’ signori,
     e ’nvidia, come sai, tra’ servidori.

196 S’io non fussi io, e’ non terrebbe il regno
     Carlo, e perduto ho infin ciò ch’i’ gli ho fatto:
     come e’ non m’è rïuscito un disegno,
     chiamato traditor son tristo e matto,
     tanto che per invidia m’ha in disdegno,
     ché si dà ben di gran colpi di piatto;
     per troppo amor ch’io ho portato a quello
     a torto sono scacciato e ribello.

197 Egli ha con seco certi susurroni
     che penson contro a me sempre lacciuoli:
     voglionsi tutti per loro i bocconi;
     questi sono i fedel, questi i figliuoli:
     certi buffon fraschier, certi ignatoni
     dipinti in mille logge e in mille orciuoli;
     questi governan Carlo imperadore;
     io sono il ladro e ’l tristo e ’l traditore.

198 Hannol condotto qua come un bambino,
     ed è venuto drieto a’ lor consigli
     come al pane insalato il pecorino.
     Vero è ch’un savio ha sol fra molti figli:
     questo è Orlando degno paladino;
     ma poco il suo parer par che si pigli,
     e come me lo discaccia ogni giorno,
     tanto che sempre va pel mondo attorno.

199 Io sono un uom c’ho in sommo della bocca
     un poco troppo il vero alcuna volta,
     e dicolo, e non guardo a chi ciò tocca.
     Tu sai che il ver malvolentier s’ascolta:
     non domandar se la invidia trabocca
     e se ’l suo stral contro a me poi fa còlta.
     Io vo’ più oltre dirti ogni mio effetto,
     ché insino a qui non par nulla abbi detto.

200 Tu sai che come un l’uom s’arreca a noia,
     non può mai più far cosa che ti piaccia:
     se dice il ver, tu di’ che dà la soia;
     se ti lusinga, e tu di’ che minaccia;
     e’ suoi cagnetti gridon tutti: «Muoia!».
     Così fanno anco i can che vanno a caccia:
     percuotine un: come tu l’hai percosso,
     gli altri gli corron tutti quanti addosso;

201 e tutto fanno per parer fedeli,
     e torna prima a te chi l’ha più morso,
     perché tu vegga ch’egli ha in bocca i peli.
     Per me non è né scusa né soccorso
     con questi non fedeli, anzi crudeli;
     e son più di mille oche in su ’n un torso;
     e se trovassin miglior patto altrove,
     ti lascerieno in sul terzo di nove.

202 Dico così, che quanto io facci bene,
     convien che interpetrato sia alfin male,
     e pòrtone assai volte ingiuste pene:
     guarda questo odio e ’nvidia quanto vale!
     Certo Aldighieri a questi giorni avviene
     ch’andando a Montalban per via m’assale,
     e dice: «Io ti conosco, isconosciuto!»,
     come se mai non m’avessi veduto;

203 e vuolsi vendicar d’una novella
     che mi levorno con un Dilïante,
     che me n’aveva tenuta favella
     sempre a camin costui, come ignorante:
     la lancia abbassa, ch’era armato in sella.
     Quand’io mi vidi venirlo davante,
     tu sai ch’ognun la morte va schifando:
     uccisi lui, che se l’andò cercando.

204 Ogni animal per non morir s’aiuta.
     Per questo Carlo m’ha posto l’assedio,
     per questo tanta gente è qua venuta.
     Io non vo’ più, pagan, tenerti a tedio;
     credo che sia di Dio volontà suta
     che tu venissi qua per mio rimedio:
     vo’ che tu vadi insino alla Corona
     per fare opera giusta e santa e buona,

205 e riconoscer la vita da te;
     e di’ ch’io vo’ venir con la correggia
     al collo e ginocchion chieder merzé,
     come il fanciul talvolta che scioccheggia;
     e se mai cosa per lui grata fe’,
     che di levar questa gente proveggia;
     e vo’ che mi perdoni sol la morte,
     e mai più poi non mi vedrà in sua corte. -

206 Quando ebbe così detto il traditore,
     all’Arpalista par la impresa giusta,
     e per andare a Carlo imperadore
     pargli mill’anni in punto aver la fusta;
     e sella immedïate il corridore.
     Diceva Gano: - Il savio intende e gusta,
     e però sempre il sapïente manda.
     Al conte Orlando mio mi raccomanda,

207 che ti parrà un uom ch’ogni altro ecceda:
     questo è colui ch’è buon, discreto e degno
     e della gloria del suo sangue ereda,
     e sol per lui tien Carlo scetro e regno;
     e suo patrigno son, vo’ che tu creda. -
     Guarda se misse qui tutto il suo ingegno!
     Tutto facea perché e’ gliel ridicessi,
     acciò ch’Orlando a pietà si movessi.

208 L’Arpalista n’andava imburiassato
     che la camicia non gli tocca l’anche.
     Dinanzi a Carlo Man s’è inginocchiato,
     e dice come Gan le carte bianche
     gli manda, e ciò che gli avea ragionato,
     e che esser gli parea tra male branche;
     e replicava appunto ciò ch’e’ disse
     d’Orlando, acciò che ’l fatto rïuscisse.

209 E seppe tanto ben ceramellare
     che Carlo gli perdona, e così Orlando,
     con questo, che Rinaldo perdonare
     gli voglia, e che ne debba andar cercando
     tanto ch’a lui si possi appresentare.
     Poi l’Arpalista veniva narrando
     come è prigion di Rinaldo mandato
     al conte Orlando, e ciò che gli è incontrato;

210 e mostrò a tutti il caso della mano,
     che gran compassïon ne venìa loro.
     E ritornossi di sùbito a Gano.
     Ganellon venne, e innanzi al concestoro
     s’inginocchiò piangendo a Carlo Mano,
     e disse: - Io troverrò, s’anzi non moro,
     Rinaldo, e purgherò gli sdegni e l’onte:
     così tu, Carlo, mi perdoni e ’l conte!

211 S’io dovessi cercar per tutto il mondo,
     io troverrò dove che sia Rinaldo. -
     Così fu liberato e netto e mondo.
     Calavrïon, inteso e ’l patto e ’l saldo,
     diceva a Carlo Man: - Nulla rispondo.
     Ma te gastigherò, monco ribaldo,
     che detto hai qua la tua santa parola,
     che si vorre’ impiccarti per la gola!

212 Venuto son da Parigi volando
     con tanta gente e con tanto furore,
     lasciato ogni mio sdegno con Orlando,
     per trovarmi a punir quel traditore,
     che ne venivo al ciel le mani alzando!
     Piglia del campo, pagan peccatore,
     ischiavo, ragazzon, prigione e monco,
     ch’io vo’ che l’altro braccio anco sia cionco. -

213 L’Arpalista una lancia ch’avea abbassa.
     Or guarda se Fortuna lavoròe!
     Ognun col suo cavallo oltre trapassa,
     ognun l’un l’altro allo scudo trovòe,
     ognuno il petto l’uno all’altro passa,
     ognun giù della sella rovinòe,
     ognun di questi moriva a un tratto,
     che mai si vide un colpo così fatto.

214 Calavrïon a contanti la briga
     comperò dunque, che non gli toccava:
     ecco che la giustizia lo gastiga;
     l’Arpalista trovò quel ch’e’ cercava:
     pel fil della sinopia e per la riga
     a questa volta questa cosa andava.
     Ed Archilagio per partito prese
     di rimenar sue gente in suo paese.

215 Carlo tornò con la corte a Parigi.
     Gan per lo mondo in camin si mettea;
     dove e’ sentiva o discordie o litigi
     o guerre: «Quivi è Rinaldo» dicea:
     così cercava l’orme e’ suoi vestigi.
     Or ritorniamo a Rinaldo, ch’avea
     ridotta Saliscaglia a divozione
     di Cristo, e rinnegato ognun Macone.

216 Poiché son battezati i saracini,
     e statosi alcun tempo a dimorare,
     e grande onor gli fanno i cittadini,
     in visïone una notte gli appare
     un angelo, che fu de’ cherubini,
     e disse: - Qui, Rinaldo, non puoi stare.
     A’ pellegrini impedito è il passaggio;
     non posson far del Sepulcro il vïaggio.

217 Quel che tu hai fatto, molto a Dio sù piace;
     ma fa’ ch’a questa impresa or non sia molle.
     Sappi ch’egli è un uom molto rapace
     che nel deserto sta di Caprafolle:
     non lascia i pellegrini andare in pace;
     fa’ che tu vadi a piè di colle in colle
     fin che tu truovi questo fiero matto,
     che fa di là chiamarsi Fuligatto. -

218 Rinaldo la mattina, risentito,
     sùbito a Ricciardetto e gli altri disse
     come l’angel di Dio gli era apparito,
     e quel che gli avea detto, e dove e’ gisse.
     Ognun di lor n’è molto sbigottito:
     non che non dichin che Dio s’ubbidisse;
     ma che di questo sol sentivan duolo,
     che l’angel gli comanda e’ vadi solo.

219 Rinaldo il me’ che sa dà lor conforto,
     dicendo: - Abbiate alla terra riguardo
     e dirizzate a ragione ogni torto.
     E raccomando a tutti il mio Baiardo.
     E presto tornerò, s’io non son morto,
     ché d’ubbidire Iddio nel cor tutto ardo.
     Sievi raccomandata la giustizia;
     tenete in pace la terra e ’n dovizia. -

220 E fece apparecchiar presto la nave,
     ché quel padron con Rinaldo si stava
     e d’ogni cosa gli fida la chiave;
     e per ventura romei v’arrivava;
     e benché la partenza fussi grave,
     con questi finalmente s’avvïava;
     e tutti prima in bocca si baciorno
     di stare al bene e ’l mal la notte e ’l giorno.

221 E così si commette alla marina
     e l’armadura tien sotto coperta:
     disopra si vedeva una schiavina;
     e non dimenticò però Frusberta.
     Il vento è buono e la nave camina,
     tanto che Barberia hanno scoperta,
     e dirizzârsi verso una cittade
     donde saran per terra poi le strade.

222 E come drento al porto surti sono,
     Rinaldo dal padron fa dipartita,
     e dice: - Fra un mese sarà buono
     che questa nave in qua sia comparita;
     e ’ntanto io tornerò dal mio perdono.
     Cristo t’aiuti e la tua calamita,
     che non val men che la stoppa e la pece! -
     Donde il padron con lui gran pianto fece;

223 e disse: - Il dì ch’io me n’andrò sotterra
     non sentirò nel cuor la metà pena,
     dico in quel punto che l’alma si sferra.
     Vattene in pace ove il camin ti mena!
     Aiutiti il tuo Iddio, se tu vai in guerra,
     aiutiti Maria, di grazia piena!
     Io tornerò qui con la nave presto. -
     E non poté più oltre dir che questo;

224 e ’nginocchiossi e baciògli le piante.
     Rinaldo co’ compagni se ne vanno
     nella città che vi sta l’amirante.
     E giostre e feste alla piazza si fanno;
     e molto ben si portava un amante
     d’una fanciulla. A veder quivi stanno:
     questa era molto bianca e molto bella,
     e molto bruna un’altra, sua sorella,

225 e come bruna si chiama Brunetta:
     adunque il nome suo non si disdice;
     quell’altra è bianca e pare una angioletta,
     e molto il dì si chiamava felice
     perché il suo amante ognun per terra getta;
     e la sorella rincorreva, e dice:
     - Non c’è per te chi rompa due finocchi,
     e ’l drudo mio d’ogni lancia fa rocchi. -

226 Diceva la Brunetta sventurata:
     - Che colpa ho io di quel che fe’ Natura
     e s’io non nacqui bella e fortunata?
     S’io avessi avuto a far questa figura,
     io mi sarei per modo disegnata
     che sculto nol farebbe o dipintura.
     Ringrazia Iddio che degli amanti truovi,
     e presso ch’io non dissi anco gli pruovi.

227 Io vi conforto della giostra, amanti,
     e la Brunetta vi torni a memoria;
     io vi ricordo e dico a tutti quanti
     che con la lancia s’acquista vittoria,
     e fassi spesso colpi di giganti;
     e ch’ogni dama del suo drudo ha boria,
     e piace insin da Campi a mona Onesta
     che e’ tenga ben la lancia in su la resta. -

228 E detto questo, gittava il falcone
     verso Rinaldo, e pargli molto bello;
     e ricordossi d’una visïone
     che fatta avea, ch’un peregrin novello
     ognun quel giorno abbatteva d’arcione,
     e disse fra suo cor: «Costui fia quello».
     A un suo balio lo fece chiamare:
     - Di’ a quel peregrin ch’io gli ho a parlare. -

229 Rinaldo andò, ma non sapea la trama.
     Ella gli disse con destre parole
     del sogno e la cagion perch’ella il chiama.
     Rinaldo disse far ciò ch’ella vuole,
     ché ciò ch’uom facci per amor di dama
     è gentilezza ch’osservar si suole;
     che si voleva armar segretamente,
     dove piacessi alla dama piacente.

230 Brunetta gli ordinò dove e’ s’armassi
     e impose al balio ch’un destrier gli mostri.
     E la sorella di lei beffe fassi,
     e dice: - Che vuoi tu che costui giostri? -
     e ridea, quasi in sua lingua parlassi:
     «Costui t’arrecherà de’ paternostri
     dal suo perdon, quando e’ sarà tornato».
     Rinaldo al campo n’è venuto armato.

231 Disse l’amante di quella più bella:
     - Hai tu veduto qua questo uccellaccio?
     Che dirai tu s’io il traggo della sella?
     Al primo colpo in terra te lo caccio. -
     Rispuose la Brunetta meschinella:
     - Sì, se tu stimi ch’un uom sia di ghiaccio. -
     Rinaldo le parole appunto intese
     e tutto quanto di sdegno s’accese,

232 e disfidossi con questo saccente.
     La bianca e bella confortava il drudo,
     e la Brunetta facea similmente;
     e l’uno e l’altro si truova lo scudo;
     ma ’l saracin pel gran colpo e possente
     alzò le gambe e cadde a culo ignudo
     quanto potea con ogni sua vergogna;
     e fu pur ver quel che Brunetta sogna.

233 Quivi le grida intorno si levorno.
     Non domandar se la dama galluzza!
     e dice alla sorella per iscorno:
     - Truova dell’acqua e nel viso la spruzza,
     ché la mia visïon fu presso al giorno. -
     La bianca addolorata si raggruzza,
     però ch’un braccio il suo amante si spezza.
     Non domandar se Brunetta la sprezza!

234 Vollonsi alcun con Rinaldo provare;
     ognuno in terra alla fine è caduto.
     Il padre di costor si fece armare
     e venne sopra ’l campo sconosciuto;
     Rinaldo il gittò in terra, e nel cascare
     l’elmo gli usciva, onde e’ fu conosciuto.
     E come fatta è la festa, a bell’agio
     Rinaldo ne menò seco al palagio,

235 ché di sua forza si maravigliava;
     e’ suoi compagni con lui fe’ venire,
     ed un convito solenne ordinava;
     e le fanciulle stavano a servire,
     e l’una e l’altra Rinaldo guardava,
     innamorate del suo grande ardire.
     E poi, mangiato, in una zambra vanno,
     e le fanciulle gran disputa fanno,

236 e dice ognuna ch’era la più bella;
     e che Rinaldo giudicassi questo
     contente son l’una e l’altra sorella.
     Rinaldo: - La Brunetta! - disse presto,
     e ch’aveva il suo amor donato a quella;
     il che fu tanto alla bianca molesto
     ch’a un balcon con un laccio di seta
     s’impiccò in una camera segreta;

237 della qual cosa ciascuno si lamenta.
     Rinaldo co’ compagni si partia,
     e la Brunetta riman mal contenta,
     - Macon - dicendo - ti mostri la via.
     Dove tu sia, peregrin, ti rammenta
     della Brunetta, che tua sempre fia. -
     E dèttegli un fermaglio la Brunetta
     per ricordanza di lei meschinetta.

238 E volle prima il suo nome sapere:
     quando sentì com’egli era Rinaldo,
     s’accese tanto del suo gran potere
     che non si spense mai poi questo caldo:
     benché mai più nol dovea rivedere,
     pur si rimase nel suo petto saldo.
     Rinaldo al suo vïaggio ne va ratto
     per essere alle man con Fuligatto.

239 Già era capitato nel deserto.
     Ecco apparire un cavaliere armato,
     e ’l caval tutto di piastre ha coperto,
     col falcon nello scudo e in ogni lato,
     tal che Rinaldo il conobbe di certo:
     questo era Gan, che l’ha tanto cercato,
     e ’nginocchiossi e perdón gli chiedea,
     e d’Aldighier con gran pianto dicea.

240 Rinaldo d’Aldighier gl’incresce tanto
     che non potea sua morte perdonare;
     alla risposta soprastette alquanto.
     I pellegrin cominciorno a pregare:
     - Poi che tu vedi, barone, il suo pianto,
     piacciati il cor volere umilïare,
     veggendo quanto umìl si raccomanda,
     per quello Iddio che peregrin ti manda. -

241 Tanto che alfin Rinaldo gli perdona.
     Gan si tornò per la via ch’è venuto.
     Ecco un romor che per l’aria risuona:
     gente che fuggon domandando aiuto,
     e innanzi a tutti un cavaliere sprona;
     e come egli ebbe Rinaldo veduto,
     gridava: - Peregrin, fuggite addrieto,
     però che in qua si va contro a divieto.

242 A gran fatica noi scampati siàno
     dalle man di quel diavol maladetto;
     ed io che innanzi fuggo, son cristiano,
     e son ferito a morte drento al petto. -
     Disse Rinaldo: - Cavalier sovrano,
     chi è questo dïavol che tu hai detto? -
     - È Fuligatto - rispondeva quello:
     - se vai più oltre, potresti sapello.

243 Egli ha fatto oggi cose troppo strane.
     E’ porta sotto un cuoio serpentino,
     ed una spada che è più ch’a due mane,
     lo scudo d’osso, questo malandrino,
     e dà picchiate, ti so dir, villane,
     ed ha già morto forse un pellegrino;
     un baston porta che pare una trave,
     che dicon trentacinque libbre è grave. -

244 Poco più disse, che si venne meno
     e cadde come morto in terra cade.
     Rinaldo monta in sul suo palafreno,
     perché e’ conobbe egli aveva bontade,
     e disse a’ suoi compagni: - Che fareno?
     Io veggo poco innanzi una cittade:
     andiamo a quella, e ’ntenderemo il vero
     dove è questo arrabbiato uom tanto fiero. -

245 Questa città Sardonia si chiamava,
     e d’un bel fiume è circundata intorno.
     Rinaldo a questa alla porta arrivava,
     e poi che in alto le mura mirorno,
     a ogni merlo due impiccati stava;
     e finalmente la porta bussorno.
     Rispose una fanciulla, e ’l caval vede,
     e che sia forse Fuligatto crede:

246 Se’ tu quel Fuligatto ladroncello?
     Se’ tu quel Fuligatto micidiale?
     Se’ tu colui che di noi fai macello?
     Se’ tu colui c’hai fatto tanto male?
     Se’ tu quel lupo a cui non campa agnello?
     Se’ tu colui che i pellegrini assale?
     Se’ tu quel traditor che se’ a cavallo?
     Se’ tu venuto di sangue a ’ngrassallo? -

247 Disse Rinaldo: - No, non son quel desso:
     non vedi tu che noi siàn pellegrini?
     Tu doverresti conoscere appresso
     che il lupo non va mai cogli agnellini.
     Aprici adunque, damigella, adesso,
     ché stanchi siàn per più lunghi cammini. -
     Questa fanciulla, del ver fatta certa,
     venne alla porta ed a tutti l’ha aperta;

248 e disse: - Peregrin, Dio vi dia pace
     e guardi dalle man di quel tiranno
     che tanto è sopra noi fatto rapace,
     e per cui morti color quivi stanno!
     Venite alla reina, se vi piace. -
     E mentre per la terra costor vanno,
     altro che donne non veggono in quella;
     e domandorno questa damigella:

249 Dove sono i mariti e’ fratei vostri,
     i padri e’ figli e’ servi e l’altre genti? -
     Ed ella: - Or che bisogna io ve gli mostri?
     Vedetegli lassù, così dolenti;
     vedetegli, i mariti e’ fratei nostri
     e’ padri e’ figli e’ servi e poi i parenti:
     quivi staranno morti in sempiterno.
     E’ gl’impiccò quel diavol dello inferno.

250 Non domandate, ch’e’ non è possibile,
     quanto e’ sia mala bestia Fuligatto:
     pure a dir Fuligatto è cosa orribile;
     non si potrebbe dir quel ch’egli ha fatto,
     e s’io il dicessi, e’ non sare’ credibile;
     tanto è che questo paese ha disfatto:
     prese la terra e fe’ impiccare a’ merli
     tutti color che poté vivi averli.

251 Io vidi qui pigliargli un giovinetto
     che nol potre’ mai più rifar Natura,
     e con sua mano il cuor trargli del petto;
     poi lo fece impiccar sopra le mura.
     Vedete il mio marito poveretto,
     ch’a riguardarlo mi mette paura.
     Qui vidi il sangue alzar di sopra al ciglio,
     tanto che ’l fiume diventò vermiglio.

252 Quand’io ripenso a tanta crudeltate
     de’ pianti, de’ lamenti e delle strida,
     le donne e le fanciulle scapigliate
     percuotersi e graffiarsi con gran grida,
     e chi per terra morte e strascinate,
     e’ par che ’l cuor pel mezzo si divida:
     era cosa crudele e paürosa
     veder tutta la terra sanguinosa. -

253 Mentre così la donzella dicea
     giunsono in piazza, ov’era un uom armato,
     ch’era di bronzo, ma vivo parea,
     sopra un caval ch’è tutto covertato,
     ed una lancia in su la coscia avea.
     Rinaldo chi sia questo ha domandato;
     disse la dama: - La scrittura il dice:
     questa città per lui fu già felice;

254 e fu di Chiaramonte il cavaliere. -
     Rinaldo legge, e diceva: «D’Angrante
     Orlando, nel tal tempo, quel guerriere
     ci liberò dal gran re Galigante
     che in campo d’oro portava un cerviere;
     e per memoria dell’opre sue sante
     uccider quel crudel nimico ed acro,
     gli fece il popol questo simulacro».

255 Rinaldo lacrimò, veggendo Orlando,
     per tenerezza, e con lui si ragiona,
     dicendo: «Ovunque io vo peregrinando,
     per tutto il mondo la tua fama suona»;
     e dipartissi da lui lacrimando.
     Rappresentossi innanzi alla Corona.
     Questa reina è bella e giovinetta
     e chiamasi per nome Filisetta.

256 Vide Rinaldo, e dopo le salute
     lo domandò dove il camin suo tiene:
     ché, così peregrino, uom di virtute
     giudicò questo, e parvegli uom dabbene.
     Rinaldo rispondea le cagion sute
     del suo venire, e di che parte e’ viene,
     e come egli è Rinaldo, che è mandato
     dall’angel che così gli ha comandato.

257 Filisetta sapea la sua prodezza;
     veggendolo, stupia di maraviglia
     dell’atto fiero e della sua grandezza;
     e disse: - Orlando tuo ben ti simiglia:
     re Galigante, per la sua fierezza,
     come tu vedi, abbandonò la briglia:
     ché so che in piazza la statua vedesti
     di bronzo, e quelle lettere leggesti.

258 Questa città da lui fu liberata,
     ed a perpetua di questo memoria
     l’imagine sua qui vedi scultata,
     che fia del vostro sangue etternal gloria.
     Ma Fuligatto m’ha ben ristorata,
     che tutto questo paese martoria:
     non vuol che ignun si spicchi di coloro,
     ed èvvi il mio marito tra costoro;

259 che s’io il potessi almen pur sepellire,
     io gli perdono il resto a Fuligatto.
     Ha fatto a strazio il mio popol morire:
     guarda ch’a lui non vadi come matto. -
     Disse Rinaldo: - Non ti dar martìre,
     e spicca il tuo marito innanzi tratto;
     e miei compagni teco rimarranno;
     e poi vedrai come le cose andranno.

260 Non dubitar, ché quel che vuole Iddio
     non può fallir per accidente alcuno.
     Di mangiar, Filisetta, abbiàn disio,
     però ch’ognun di noi so che è digiuno;
     e poi ch’io partirò, per amor mio
     ti raccomando di costor ciascuno. -
     E la reina lietamente onore
     a tutti fece, e con aperto amore.

261 Rinaldo solo un giorno riposossi;
     poi fece da costor la dipartenza,
     e non sanza gran pianto accomiatossi,
     perch’ubbidir di Dio volea la intenza;
     e pel deserto soletto avvïossi.
     Ma Filisetta per magnificenza
     la lancia che fu già del suo marito
     gli dètte, ed uno scudo assai pulito;

262 e disse: - Questo per amor mio porta,
     poi che portar non lo può più colui
     che sospeso è tra la sua gente morta.
     Dio t’accompagni cogli angioli sui,
     e così spera e così ti conforta. -
     Lasciamo andare al suo cammin costui:
     nell’altro vi dirò quel che arà fatto.
     Cristo vi scampi da quel Fuligatto!