Morgante/Cantare decimoterzo

Cantare decimoterzo

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Cantare decimosecondo Cantare decimoquarto

 
1   Virgine sacra, d’ogni bontà piena,
     madre di Quel per cui si canta osanna,
     Virgine pura, Virgine serena,
     dammi la tua cotidïana manna;
     colla tua mano insino al fin mi mena
     di questa storia, ché ’l tempo c’inganna
     e la vita e la morte e ’l mondo cieco,
     sì ch’io faccia ascoltar ciascun con meco.

2   La damigella con dolce parole,
     con motti ben cogitati e soavi
     diceva al padre: - Così far si vuole
     e punir sempre i frodolenti e pravi:
     però di questo caso non mi duole.
     E vo’ che lasci a me tener le chiavi
     e governargli e serrare ed aprire,
     acciò che non ci possa ignun tradire. -

3   Di questo l’amostante s’allegròe,
     che quello uficio pigliassi la dama,
     e le chiavi a costei raccomandòe.
     Or questo è quel che la donzella brama:
     sùbito al conte Orlando se n’andòe
     alla prigione, ed umilmente il chiama,
     dicendo: - Cavalier, di te mi pesa,
     e ciò che vuoi farò per tua difesa. -

4   Orlando quanto può costei ringrazia,
     e disse: - Dimmi: sai tu la cagione
     perché il tuo padre in tal modo mi strazia
     e messo m’ha di sùbito in prigione?
     Di questo fa’, per Dio, mia voglia sazia:
     tra’mi di dubbio e di confusïone.
     E s’ tu non mi puoi trar di questa torre,
     non mi lasciar almen la vita tòrre. -

5   Rispose Chiarïella al paladino:
     - La cagion che ’l mio padre t’ha qui preso
     è che ’l Soldano da un certo indovino
     come tu sia cristian par ch’abbi inteso,
     benché tu mostri d’esser saracino;
     e perché del gigante tiensi offeso,
     ha fatto pace col Soldano e saldo
     di vendicarsi del suo Marcovaldo.

6   Ogni cristian che uccide un affricante,
     secondo nostre legge morir debbe;
     tu uccidesti adunque quel gigante:
     la vita al nostro modo te n’andrebbe.
     Ma perch’io t’ho già eletto per mio amante,
     tolsi le chiavi, ché di te m’increbbe;
     e di morir non dubitare omai,
     ché tu se’ salvo, e libero sarai.

7   Io ho tanto sentito ricordare
     quel cavalier ch’Orlando è nominato,
     che sue virtù m’han fatta innamorare,
     e per suo amor non sarai abandonato.
     Del nome tuo, di me ti puoi fidare:
     dimmel, baron, ch’assai mi sarà grato. -
     Orlando rispondea: - Gentil madama,
     io son colui ch’Orlando il mondo chiama.

8   Guarda dove condotto m’ha Fortuna,
     ch’appena il crederrai ch’io sia quel desso.
     Io mi parti’, né di mia gente alcuna
     volli, se non qui il mio scuediero, appresso;
     ho cavalcato al sole ed alla luna:
     ora il tuo padre a forza m’ha qui messo.
     Ma se pensato avessi il tradimento,
     per lo mio Iddio non mi mettea qui drento.

9   A te mi raccomando, poi ch’io sono
     dove tu vedi; e fa’ che ’l mio destriere
     sia governato; e poi sempre ti dono
     l’anima e ’l cuore e ciò ch’è in mio potere.
     E vo’ che ’ntenda ancor quel ch’io ragiono:
     se tu potessi questo mio scudiere
     in qualche modo di qui liberarlo,
     manderei per soccorso in Francia a Carlo. -

10 Non poté sofferir che più parlassi
     la damigella, udendo ch’era Orlando:
     parve che ’l cor nel petto si schiantassi
     per gran dolcezza, e disse lacrimando:
     - Io credo che Macon qua ti mandassi
     per mio amor sol, ma non so come o quando,
     ché sempre disïato ho di vederti.
     Ma in altro modo qui vorrei tenerti.

11 S’io dovessi il mio padre far morire
     con le mie proprie man, tu non morrai:
     Amor comanda, ed io voglio ubbidire,
     che tu sia salvo, e salvo te n’andrai;
     quando fia tempo, ti saprò aprire.
     E ’l tuo caval, contento ne sarai;
     e lo scudier fia franco a ogni modo,
     e che tu il mandi in Francia affermo e lodo. -

12 Poi ch’ebbe Chiarïella così detto,
     lasciava Orlando e vanne al padre tosto,
     e dice: - Quel sergente, poveretto,
     si morrà certo, ché mi par disposto
     di non voler mangiar: come folletto
     gittato ha via ciò ch’io gli ho innanzi posto;
     e colpa inver non ci ha da gnuna banda,
     ch’ubbidir dèe quel che ’l signor comanda. -

13 Rispose l’amostante: - Mandal via:
     se si morisse, e’ ci sare’ vergogna;
     fa’ che quell’altro ben guardato sia:
     di questo non aremo altro che rogna. -
     Disse la dama: - Per la fede mia,
     ch’io non so se farnetica o se sogna:
     quand’io domando, e’ guata come un matto
     e non risponde, anco sta stupefatto. -

14 E poi tornava alla prigion ridendo,
     e disse come il fatto era fornito.
     Diceva Orlando con Terigi: - Io intendo
     che presto insino a Carlo ne sia gito,
     e che tu meni Vegliantin commendo,
     e dica il caso come io son tradito
     dall’amostante e truovomi in prigione,
     e quel che stato ne sia la cagione.

15 Così a Rinaldo mio dirai ancora,
     a Ulivieri e tutta nostra corte,
     che mi soccorran prima che qua mora,
     ché tutti so poi piangerien tal morte. -
     Terigi si partì sanza dimora;
     sella il cavallo ed uscì delle porte;
     e tanto cavalcò per monte e piano
     che giunse ove non era Carlo Mano:

16 perché e’ pensava a Parigi trovarlo,
     ma col suo Ganellone era a Pontieri;
     sentì come Rinaldo è fatto Carlo;
     a lui n’andava, e così a Ulivieri.
     Rinaldo, come e’ giugneva, a guardarlo
     sùbito pien fu di tristi pensieri,
     perché e’ piangeva sì miseramente
     che in modo alcuno non potea dir niente.

17 Gridò Rinaldo: - Che è del mio cugino?
     Tu debbi certo aver mala novella. -
     Allor Terigi quanto può, meschino,
     a gran fatica in tal modo favella:
     - L’amostante di Persia saracino
     l’ha incarcerato, e guardal Chiarïella,
     una sua figlia nobile e gradita,
     quale ha promesso campargli la vita.

18 Questo è perché egli uccise Marcovaldo;
     onde il Soldano aveva un negromante,
     e che cristian quel fusse intese saldo
     che l’avea morto; e fe’ con l’amostante
     la pace e’ patti, il traditor ribaldo,
     che fussi preso il buon signor d’Angrante.
     La notte tutti a due fumo legati
     e in un fondo di torre incarcerati.

19 Orlando s’accomanda a Carlo Magno,
     a te, Rinaldo, ovver santa Corona,
     al suo cognato, all’amico, al compagno,
     prima che così perda la persona.
     Vedi che di sudor tutto mi bagno:
     volato son non come fa chi sprona,
     tanto ch’i’ son come tu vedi giunto.
     Or tu se’ savio e ’ntendi il caso appunto. -

20 Alla sua vita tanto afflitto e gramo
     non fu Rinaldo quanto a questa volta,
     e disse sospirando: - Di’ tu, Namo,
     ch’io ho già per dolor la mente stolta. -
     Quel savio vecchio disse: - Noi intendiamo,
     s’io ho questa imbasciata ben raccolta,
     ch’aiutar ci bisogna Orlando presto.
     Or ti dirò com’io farei di questo.

21 Ogn’altro aiuto che lo imperadore
     ed Ulivieri, alfin sarebbe vano,
     perché qui è la forza e ’l grande amore.
     Direi che si mandassi a Carlo Mano
     e che ritorni, all’usato, signore
     per la salute del popol cristiano;
     e ciò che tu vorrai, contento fia;
     e voi n’andiate presto in Pagania.

22 Astolfo sia gonfaloniere eletto,
     ché so che Carlo fia contento a quello,
     per quel c’ha fatto a lui e a Ricciardetto.
     Gan sia sbandito all’usato e ribello. -
     Rinaldo, appena aveva Namo detto,
     che disse: - Così posto sia il suggello. -
     Così da’ paladin fu posto in sodo;
     e scrisse un brieve a Carlo in questo modo:

23 «Perché se’ vecchio, io t’ho pur reverenzia;
     e ’ncrescemi tu sia sì rimbambito
     ch’a Gan pur creda e la sua frodolenzia,
     che mille volte o più t’ha già tradito
     sanza trovar l’error suo penitenzia;
     e per suo amor di corte m’hai sbandito:
     Astolfo e Ricciardetto a mille torti
     volesti uccider pe’ suoi mal conforti.

24 Degno saresti d’ogni contumace;
     ma perché mio signor fusti già tanto,
     io ti perdono, io fo con teco pace,
     e ’l tuo pristino imperio giusto e santo
     ti rendo e la corona, se ti piace,
     e’ tuoi baroni e ’l tuo reale ammanto,
     la sedia tua, l’antico e degno scetro,
     sanza più ricercar del tempo addietro.

25 Sappi ch’Orlando è preso in Pagania;
     vieni a Parigi tuo liberamente;
     ed Ulivieri ed io di compagnia
     soccorrer lo vogliàn subitamente.
     Astolfo tuo gonfalonier qui fia.
     Quel traditor non vo’ qua per nïente.
     Gallerana reina è riservata,
     come fu sempre, e da tutti onorata».

26 La lettera suggella e manda il messo;
     sùbito a Carlo Man si rappresenta.
     Carlo fu lieto e in ordine s’è messo:
     Gan nel suo petto par che assai duol senta.
     Tornò a Parigi, e ’ncontro venne a esso
     tutta la corte, assai di ciò contenta,
     e tutti l’abbracciavan lacrimando;
     e gran lamento si facea d’Orlando.

27 Quivi piangeva il marchese Ulivieri,
     né riveder credea più il suo cognato;
     piangeva Astolfo e ’l valoroso Uggieri,
     e Salamon pareva smemorato;
     piangeva Baldovino e Berlinghieri;
     ma il savio Namo ognuno ha confortato.
     Rinaldo con solenne e degno onore
     ripose in sedia il magno imperadore.

28 Poi misse al suo cavallo il fornimento;
     ed Ulivier con lui volle partire;
     Terigi s’assettava in un momento;
     e Ricciardetto disse: - Io vo’ venire. -
     Rinaldo, poi ch’e’ vuol, ne fu contento.
     Ognun pur si voleva profferire,
     ma ’l prenze non volle altri per compagno.
     Così si dipartîr da Carlo Magno;

29 e fecion sopravveste divisate.
     E cavalcando per la Spagna, un giorno
     il re Marsilio e certe sue brigate
     in un bel piano a cavallo scontrorno;
     e con parole saracine ornate,
     come fur presso a lui, lo salutorno.
     Disse Marsilio al prenze: - Il tuo cavallo
     troppo mi piace, s’a me vuoi donallo.

30 Questo mattino mi venne in visione
     ch’io guadagnavo sì nobil destriere.
     Se me lo doni, per lo iddio Macone,
     tu mi trarrai fuor d’uno stran pensiere,
     cioè di non aver meco quistione:
     però fa’ gentilezza, cavaliere;
     ché pur, s’altro rimedio a ciò non veggio,
     combatterollo, e tu n’andrai col peggio. -

31 Disse Rinaldo: - E’ fu già temporale
     che si fossi il destrier di chi il sognava:
     chi possedeva quella cosa tale,
     qual fosse per quel sogno gliel lasciava;
     onde un borgese, non ti dico quale,
     un paio di buoi dormendo imaginava
     d’un suo vicin, che gli teneva cari,
     e volevagli pur sanza danari,

32 anzi voleva pagarlo di sogni.
     Colui dicea: «Del mio gli comperai,
     e così credo ch’a te far bisogni,
     se non ch’alfin sanz’essi te n’andrai».
     Mentre che par che in tal modo rampogni,
     si ragunò dintorno gente assai;
     e non sapendo solver la quistione,
     n’andorno di concordia a Salamone.

33 E Salamone, perch’era sapiente,
     con questi due se n’andò sopra un ponte
     e fevvi i buoi passar subitamente;
     e poi si volse con allegra fronte,
     a quel che gli sognò disse: «Pon mente:
     vedi tutte le lor fattezze pronte
     laggiù nell’acqua?»; e l’ombra si vedea
     di que’ buoi che colui sognati avea.

34 Disse colui: «E’ paion proprio i buoi
     ch’io vidi». E Salamon rispose, il saggio:
     «Tu che sognasti, tò’gli, ché son tuoi;
     colui che gli pagò, dè’ aver vantaggio:
     non bisogna sognargli, ché son suoi.
     Così sta la bilancia di paraggio».
     Così dich’io a te, nota, pagano,
     che ’l mio cavallo arai sognato invano.

35 Se volessi altro dir, del campo piglia;
     questo destrier si sia di chi il guadagna. -
     Il re Marsilio si fe’ maraviglia;
     disse: «Questo è da bosco e da campagna;
     non ho nessun qui tra la mia famiglia
     ch’avessi tanto ardir, né in tutta Spagna,
     quanto ha costui; e mostra esser uom forte»;
     poi gli rispose: - Oltre, io ti sfido a morte. -

36 Rinaldo non istette a parlar troppo:
     le redine girò del palafreno;
     poi ritornava per dargli d’intoppo:
     facea tremare il ciel non che il terreno,
     perché Baiardo non pareva zoppo.
     Diceva alcun, di maraviglia pieno:
     - Sarebbe questo del cristian concilio,
     che così fiero va a trovar Marsilio? -

37 Quando Marsilio vide il cavaliere,
     fra sé diceva: «Aiutami, Macone!
     ché poco val qui contro al suo potere
     allegar Trismegisto o vuoi Platone».
     La lancia abbassa e pugneva il destriere:
     a mezzo il petto di Rinaldo pone;
     e benché il colpo fussi ostico e crudo,
     ruppesi in pezzi l’aste nello scudo.

38 Rinaldo alla visiera pose a quello,
     e fece fuor balzar tante faville
     che mai non ne fe’ tante Mongibello:
     are’ quel colpo gittati giù mille;
     l’elmo rimbomba e ’ntronava il cervello;
     e sanza fare al testo altre postille,
     Marsilio rovinò giù dell’arcione;
     e fu pur sogno il suo, non visïone;

39 e disse: - Dimmi, per la tua leanza,
     chi tu se’, cavalier, per cortesia,
     ché mai più vidi a uom tanta possanza. -
     Disse Rinaldo: - Per la testa mia,
     io tel dirò, perch’io non ho dottanza:
     non guarderò s’i’ sono in Pagania.
     Sarà quel ch’esser può: franco pagano,
     sappi che ’l signor son da Monte Albano. -

40 Ed alzò la visiera dello elmetto
     per dimostrar che non avea paura.
     Disse il pagano allor: - Per Macometto,
     ogni suo sforzo in te mostrò Natura. -
     Dicea Rinaldo: - E questo è Ricciardetto;
     andiàn cercando la nostra ventura;
     questo è Terigi, d’Orlando scudieri,
     e questo è il nostro famoso Ulivieri.-

41 Marsilio guarda questi compagnoni;
     disse: - Voi siete così travisati,
     voi mi paresti quattro ragazzoni:
     non vi conobbi, in modo siete armati.
     Ben posson sicuri ir questi campioni;
     e’ ci sarà degli altri arreticati
     che rimarranno a questa rete, stimo.
     Dimmi s’i’ son, Rinaldo, stato il primo. -

42 Disse Rinaldo: - Il primo, per mia fé,
     da poi che tu domandi, io ti rispondo;
     e stato è buon principio un tanto re;
     ma qualcun altro ancor sarà il secondo.
     Or se tu vuoi il caval ch’io non ti diè,
     perché tanto il tuo nome suona al mondo,
     io tel darò, magnanima Corona. -
     E poi soggiunse: - E l’arme e la persona. -

43 Marsilio era uom generoso e discreto;
     molto gentil rispose, come saggio:
     - Io non son ragazzin d’andarti drieto.
     S’io lo togliessi, io farei troppo oltraggio,
     però che ’l tuo valor non m’è segreto,
     ch’io n’ho veduto a questa volta il saggio;
     e ’l sogno è ver, ch’acquistato ho il destriere,
     poi che mel dài; ma non sognai cadere.

44 E vo’, Rinaldo, una grazia mi faccia:
     che meco venga a starti a Siragozza
     co’ tuoi compagni; e ciò non ti dispiaccia,
     benché a te nostra terra parrà sozza,
     né creder ch’a Parigi si confaccia,
     dove ogni gentilezza si raccozza;
     pur qualche giorno ti darò diletto
     quant’io potrò, per lo dio Macometto. -

45 Rinaldo disse: - Tanta cortesia
     per nessun modo, re, confonder voglio.
     Ma s’io t’ho fatto al campo villania,
     di questo quanto posso or me ne doglio
     e dicone mia colpa o mia pazzia,
     ché così far per certo mai non soglio:
     non ti conobbi allor, pel mio Gesùe. -
     Disse il pagan: - Di ciò non parlar piùe;

46 non ti bisogna di ciò scusa prendere:
     usanza è dimostrar la sua prodezza,
     e sempre non si può di pari offendere.
     Bench’io cadessi per la tua fierezza,
     io ne volevo in ogni modo scendere. -
     Rinaldo rise di tal gentilezza,
     e disse: - La risposta tua significa
     quanto la tua Corona è in sé magnifica. -

47 Rimontò a caval Marsilio allora.
     Così Rinaldo, perché e’ n’era sceso
     come colui che’ suoi maggiori onora.
     Marsilio per la man poi l’ebbe preso,
     ed Ulivier volea pigliare ancora,
     ma Ulivier s’è scusato e difeso;
     e poi che i convenevoli fatti hanno,
     inverso Siragozza se ne vanno.

48 E dismontati al palazzo reale,
     Marsilio sempre tenne per la mana
     Rinaldo per le scale e per le sale.
     La sua figliuola, detta Lucïana,
     ch’ogn’altra di bellezza assai prevale,
     fecesi incontra benigna ed umana,
     e salutò Marsilio e’ suoi compagni
     con atti onesti e grazïosi e magni.

49 Né prima questa Rinaldo vedea,
     che si sentì da uno stral nel core
     esser ferito, e con seco dicea:
     «Ben m’hai condotto dove vuoi, Amore,
     a Siragozza a veder questa iddea
     che più che ’l sol m’abbaglia di splendore»;
     e rispondeva al suo gentil saluto
     quel che gli parve che fussi dovuto.

50 Quivi alcun giorni dimorâr contenti.
     Non domandar se Cupido gualoppa
     di qua, di là con suoi nuovi argomenti;
     e la fanciulla serviva di coppa
     Rinaldo sempre, e’ begli occhi lucenti
     alcuna volta con esso rintoppa:
     or questo è quel che come zolfo o esca
     il foco par che rinnalzi ed accresca.

51 Mentre che sono in tal consolazione,
     un messaggiero al re Marsilio venne
     e gettasegli in terra ginocchione,
     e dice come un gran caso intervenne:
     che morti ha cinquecento e più persone
     un gran caval co’ denti e colle penne,
     ch’era sfrenato, e fu già di Gisberto,
     e pareva un demòn là in un deserto.

52 Noi savàn cinquecento cavalieri, -
     diceva il messo - e giunti alla montagna,
     fumo assaliti da questo destrieri:
     non si potea fuggir per la campagna;
     missesi in mezzo fra’ tuoi cavalieri.
     Non fu mai lupo arrabbiato né cagna
     che così morda e divori ed attosche;
     né anco i calci suoi paion di mosche.

53 Io il vidi, o re Marsilio, rizzar dianzi
     ed accostarsi a un pagano appetto,
     e poi menar delle zampe dinanzi:
     che pensi tu ch’e’ gli dessi, un buffetto
     da far cadergli di capo due schianzi?
     E’ gli schiacciò le cervella e l’elmetto,
     e balzò il capo più di dieci braccia.
     Pensa co’ pie’ di drieto s’egli schiaccia!

54 Se dà in quel muro una coppia di calci,
     e’ farà rovinar questo palagio.
     Io feci presto mazzo de’ miei salci,
     ché lo star quivi mi parve disagio,
     però che contro a lui poco arme valci,
     tanto superbo par, bravo e malvagio:
     sanza pietà mi pareva Brïusse.
     Io mi fuggi’, ch’attorno andavon busse.

55 Né credo che vi sia campato un solo;
     e ’l tuo nipote vidi morire io,
     afflitto, poveretto, con gran duolo. -
     Quando Marsilio queste cose udìo,
     che così tristamente tanto stuolo
     vi fussi morto: - O Macon nostro iddio, -
     dicea piangendo - come lo consenti
     che così sien distrutte le tue genti?

56 Questi eran pur, Macon, de’ tuoi pagani,
     che così morti son come tu vuoi.
     Sares’ tu mai d’accordo co’ cristiani?
     Ma se tu se’, che arai tu fatto, poi
     che tutti saren morti come cani?
     Arai fatti morir gli amici tuoi;
     sarai tenuto alfin pur tu crudele,
     poi che fia spento il popol tuo fedele. -

57 Rinaldo vide Lucïana bella
     dolersi con parole inzuccherate;
     verso Marsilio in tal modo favella:
     - Manda con meco delle tue brigate
     un che m’insegni questa bestia fella.
     Non ti doler delle cose passate:
     que’ che son morti, Iddio gli facci sani.
     Vedrai ch’io l’uccidrò con le mie mani.

58 Tra pazzi e pazzo e bestie e bestia fia,
     ché ci è ben di due gambe bestie ancora:
     forse a qualcuna uscirà la pazzia. -
     Il re Marsilio consentì allora,
     quantunque far gli parea villania,
     ché di Rinaldo suo già s’innamora;
     e dèttegli alla fine un suo valletto;
     ed Ulivier volle ire e Ricciardetto.

59 Volevalo Marsilio accompagnare.
     Rinaldo disse: - Io non voglio altro meco -;
     se non che ancor Terigi volle andare,
     ché sa ch’egli è suo debito esser seco.
     Vedevasi Rinaldo sfavillare,
     come volea colui ch’è pinto cieco.
     Dicea Marsilio: - Io priego il nostro Iddio
     che t’accompagni, car Rinaldo mio. -

60 Rinaldo se ne va verso il diserto,
     e ’l messaggier mostrò dove e’ credea
     che sia il caval, benché nol sappi certo.
     Rinaldo allor di Baiardo scendea.
     In questo il gran destrier si fu scoperto,
     che già pel bosco sentiti gli avea.
     Ma quel pagan, come vide il cavallo,
     sopra un gran cerro terminò aspettallo,

61 ed anco s’arrecò sù bene in vetta.
     Disse Ulivier: - Per Dio, tu mi par pratico:
     a questo modo ogni animal s’aspetta. -
     Disse il pagano: - Egli è pazzo e lunatico,
     e so quel che sa far colla zampetta.
     Questo è colpo di savio e di gramatico:
     saprò me’ dir poi come il fatto è ito
     al mio signor: però son qui salito. -

62 Ricciardetto, veggendo il saracino
     che come il ghiro s’era inalberato,
     diceva: - Esser vorrebbe un orsacchino
     che insin costì t’avessi ritrovato. -
     Disse il pagan: - Va’ pure a tuo cammino:
     il giuoco netto piace in ogni lato.
     Io temo il danno e ’l pentersi da sezzo;
     della vergogna, io mi vi sono avvezzo. -

63 Come Baiardo il caval bravo vede,
     non l’arebbon tenuto cento corde:
     a guisa di battaglia lo richiede;
     corsegli addosso e tempestava e morde;
     e l’uno e l’altro si levava in piede:
     parean le voglie lor del pari ingorde;
     chi annitrisce, chi soffia e chi sbuffa;
     e per due ore o più durò la zuffa.

64 Rinaldo un poco si stette a vedere;
     ma poi, veggendo che ’l giuoco pur basta,
     e che co’ morsi quel bravo destriere
     e colle zampe Baiardo suo guasta,
     dispose fare un colpo a suo piacere;
     e mentre che Baiardo pur contasta,
     dètte a quell’altro un pugno tra gli orecchi
     col guanto, tal che non ne vuol parecchi;

65 e cadde come e’ fussi tramortito.
     Baiardo si scostò, ch’ebbe paura.
     Gran pezzo stette il cavallo stordito;
     poi si riebbe, e tutto s’assicura.
     Rinaldo verso lui presto fu gito,
     prese la bocca alla mascella dura,
     missegli un morso ch’aveva recato;
     e quel cavallo umìle è diventato.

66 Maravigliossi Terigi e ’l marchese.
     Rinaldo sopra Baiardo montava,
     né per la briglia il caval bravo prese,
     ché come un pecorin drieto gli andava.
     E ’l saracin del cerro allora scese,
     ch’a gran fatica ancor s’assicurava,
     tenendo sempre in cagnesco le ciglia,
     e di Rinaldo avea gran maraviglia.

67 Per Siragozza fuggiva la gente
     come Rinaldo fu drento alla porta;
     ma quel caval se n’andava umilmente.
     Fu la novella a Marsilio rappôrta:
     venne a vedere; e la dama piacente
     di questo palafren già si conforta,
     e domandò con parole leggiadre
     che gliel donassin Rinaldo e ’l suo padre.

68 Rinaldo, che gli avea donato il core,
     ben poteva il caval donare a quella.
     Trovossi un fornimento al corridore;
     Rinaldo addosso gli pose la sella,
     e lasciossi trattar dal suo signore
     come si mugne una vil pecorella;
     poi vi montava, e preso in man la briglia,
     gli fe’ far cose che fu maraviglia.

69 Un giorno ancora insieme dimoraro,
     ch’Amor pur lo tenea legato stretto;
     poi da Marsilïon s’accomiataro.
     Marsilio consentirgli fu costretto,
     quando sentì d’Orlando il caso amaro,
     e ciò ch’aveva gli offerse in effetto.
     La damigella sospirò alquanto
     dinanzi al padre; ma poi fe’ gran pianto;

70 ed ogni giorno con seco piangea,
     ch’era già tutta di Rinaldo accesa.
     Ventimila baron gli profferea
     dovunque egli volessi, a sua difesa;
     e ringraziata Rinaldo l’avea,
     e nel partir molto il suo cor palesa:
     - Quando fia tempo, - disse - per lor mando:
     e sempre, dama, a te mi raccomando. -

71 Passoron tutta la Spagna costoro,
     ed arrivorno un giorno in un gran bosco;
     gente trovorno ch’avean gran martoro.
     Dicea Rinaldo: - Nessun ci conosco. -
     A sé chiamava un vecchio barbassoro
     ch’era tutto turbato in viso e fosco,
     e disse: - In cortesia, di’ la cagione
     che voi parete pieni d’afflizione. -

72 Rispose il barbassoro: - Tu il saprai
     perché si fanno qui questi lamenti.
     Noi siàn d’una città che tu vedrai
     tosto, che miglia non ci è lungi venti:
     Arma si chiama, come intenderai;
     tutti siamo scacciati e mal contenti,
     sanza sperar che nulla ci conforti,
     se non che insieme piangiam mille torti.

73 Nostro signor si chiama il re Vergante,
     più crudele uom che forse al mondo sia:
     non crede in Cristo, e meno in Trivicante.
     Questo ribaldo per sua tirannia
     le nostre figlie ha tolte tutte quante
     per isforzarle, e noi cacciati via;
     ed ogni dì fa dare aspro martìre
     a quelle che non voglion consentire. -

74 Rinaldo gli dispiacque tal matera;
     partissi e seguitò la sua giornata,
     e lascia il barbassor che si dispera
     con l’altra gente così sconsolata.
     Alla città s’appressa in su la sera;
     verso la porta la briglia ha girata,
     e disse: - Andiamo a veder questo fatto:
     forse che far si potrebbe un bel tratto. -

75 Giunti alla terra, a un oste n’andorno,
     che tutto pien si mostrava d’affanno;
     della cagion del fatto domandorno:
     costui contò del lor signor lo ’nganno;
     tanto che tutti si maravigliorno
     come sofferto sia questo tiranno.
     Venne la cena, e furono onorati,
     e’ lor cavalli e lor ben governati.

76 Parve a Rinaldo l’oste un uom dabbene,
     e ’ncrebbegli sentendo una sua figlia
     il re Vergante ha tolta a forza e tiene;
     e diceva: - Oste, sare’ maraviglia
     s’io dessi al re Vergante tante pene
     ch’al popol tutto asciugassi le ciglia? -
     e cominciava l’oste a confortare;
     com’io dirò nel seguente cantare.