Miranda/Da te, da te, solo da te

Da te, da te, solo da te

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Il libro di Miranda

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DA TE, DA TE, SOLO DA TE









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M
o portarono mesti al Camposanto.

Ne’sommessi colloquii, ad una ad una,
L’ombre salir della semplice vita
Estinta. Uscîro a sommo le obliate
Cose, l’eco tornò delle parole
Lontane, ed ogni languida memoria
Grata, ogni affetto di sè stesso ignaro
Diede nel core della gente un lampo.
Pace per lui pregarono i bambini,
Pace per lui pregarono le donne.
Vaniron l’ombre: come fiato lieve
Che va, bisbiglia per le foglie e tace,
Si spensero le ciarle e le preghiere.

Un altro nome fu gittato a’ crocchii
Ozïosi, raccolto e via sull’onda
Di congetture e favole portato.

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Curïosi guardavano i bambini,
Curiose guardavano le donne,
Quando talor passava per la via
Il giovin ch’or vivea nella solinga
Casetta del dottor. Sui più selvaggi
Sentieri, dentro a’ più segreti grembi
Della montagna lo vedeano, e lunghe
Ore seder sui massi flagellati
Dall’acque del torrente. Aveano un tempo
Le maligne fanciulle susurrato
Di Miranda e di lui ch’erano amanti;
Or né presso il vedeano a quella casa,
Né lei vedeano più la sera in chiesa,
Né passeggiar la strada prediletta
A pie de’ monti.
Chi, al cader del sole.
Di là dai prati sulla via maestra
Passava, la vedea sovente assisa
Sulla sua porta ne’ morenti rai.
Poi la madre venia, givano insieme
Lentamente sull’erbe; al primo tocco
Della campana si togliea Miranda
Agli umidi vapori vespertini,
Vêr la chiesa movea la madre sua.

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Venia più tardi con parola e volto
D’amico, non di medico, il dottore
Del prossimo villaggio.
Era trascorso
Dalla morte del vecchio un mese appunto;
Ed una sera, poi che restò sola,
Al cembalo sedette la fanciulla.
Non avea lume. Dalle praterie
Veniva l’aria tepida, odorata
De’ sparsi fien, portando e riportando
Qualche lontana solitaria voce.
Di qua, di là vagando lieve entrava
La luccioletta palpitante, uscia;
Ivan, rediano lentamente i veli
Delle finestre, qual se in tutto avesse
Molle giugno spirato amore e vita.
Senza toccarlo si levò dal cémbalo
Miranda e venne a contemplar la luna,
A ber quei miti zefiri notturni,
Fosser balsamo, fossero veleno.
Indi a seder si trasse nel più oscuro
Angolo della sala e chinò il capo.

Nel raggio della luna, che correa

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Sul pavimento, un’ombra apparve. Il volto
Levò Miranda, «Lei, dottore? » Quegli
Salì il gradino della soglia e stette.
Ella con voce languida riprese:
«Non mi vede? Son qui». Piegò la testa
Sovra un cuscino a manca, ove battea
La luna. Che pietà, povera bionda
Testina! Ell’era là, pallida, smunta,
Mesti i grand’occhi e sorridente il labbro.
Colui giunse le palme e disse piano:
«Son io». Balzò la giovinetta in piedi.
Il batter di due cori si sentìa.

«Signor, che cerca qui?» diss’ella alfine.
«Sono sola.»
«Saria per me venuto.
Miranda, un altro, egli riposa in pace.
Or non ho più nessuno: anch’io son solo.»
Al suon della sommessa voce cara
S’oscurarono gli occhi alla fanciulla.
Ella diè un passo; colla man tremante
Un sostegno cercavasi. — «Volete
Perdonarmi?» La voce era sì fioca!
«Oh sì!» Miranda gli rispose, e cadde
Sul sedile.

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Passò lieve susurro
Nell’aere, come un’anima:
«Volete
Esser mia?»
«Oh no!» diss’ella.
Indi, silenzio.
Una fuggente nuvola venìa
Allor velando della luna il volto,
Stavan ambo a guardar sul pavimento
Ratto oscurarse il lume, e lor parea
Così dentro sentirsi a venir meno
Il senso delle cose e della vita.

«Perchè, perchè?» sclamò egli alfine,

«Enrico,
Se l’avete promesso al moribondo»

«Promesso?» A piè le cadde ginocchioni.
La piccioletta mano renitente
Si strinse al sen, parlò, parlò nel pianto.
Ricordò sguardi, ricordò parole.
Sino, a’ rossor di lei, sino a’ silenzii.
Parlò dell’abbandono amaramente.

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Le ripetè i color’d’ogni sua veste
E gli scambiati fiori e ’l dove e ’l quando,
Narrò con ira le bugiarde larve
Di vacua fama, di fugaci amori,
Per sempre sperse, sottovoce chiese
Se a piè della finestra le nascea
La reseda tuttor, in sull’estremo
Esclamò che l’amava oltre la vita.
Oltre l’anima; e, folle, non sentìa
Quella soave manina fedele
Pili e più fredda tremar dentro le sue;
Posovvi alfine le infocate labbra.
Ella allor si levò, agitò le braccia,
Un grido mise e cadde.
Tu, che fai?
Non la toccar, nè il meriti, nè giova.
Tace quel cor, nell’ultimo cimento
Da te, da te, solo da te spezzato.


FINE