Mastro Titta, il boia di Roma/Capitolo XXXVIII
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Grandissimo rumore suscitò invece l’esecuzione che ebbi a compiere ai 18 del susseguente mese di marzo, nelle persone di cinque banditi, arrestati nella celebre macchia della Faiola, dalla quale avevano preso il nome; che dura proverbiale tuttora e durerà quanto il tempo lontano: I briganti della Faiola. N’era capo Vincenzo Bellini; i compagni suoi Pietro Celestini, Domenico Pascucci, Francesco Formichetti, Michele Galletti.
Quando entrammo colla carretta, circondata dai birri e dai soldati, sulla piazza del Popolo, questa era gremita da migliaia e migliaia di persone, che si pigiavano come sardelle in un barile. Tutte le finestre prospicenti sulla piazza, e delle vie adiacenti donde si poteva vedere la piazza, erano affollate. Non un capitello, non un cornicione, non un cancello, non un albero, non una sporgenza che non fosse guarnita di gente. Era una stupenda giornata primaverile; il cielo azzurro irradiato di luce, il sole splendido, l’aere soavemente profumato dai giardini del Pincio e delle vicinanze. Pareva che la natura si fosse messa in festa, perché più solenne e memoranda riuscisse la tragedia legale. Ci volle del bello e del buono per attraversare la piazza e giungere ai piedi del palco, sul quale coll’aiuto dei miei secondi avevamo rizzate le forche ed apprestati i ceppi per lo squartamento. Tranne il capo, Vincenzo Bellini, s’erano tutti confessati e una dozzina di confortatori di vari colori circondavano i condannati, recitando preghiere e porgendo loro i crocifissi a baciare.
Giunti al palco, scesero prima i confortatori poi io con un aiutante, poi i suppliziandi, poi un altro aiutante, che avevo dovuto procurarmi. Vincenzo Bellini doveva assistere alla esecuzione de’ suoi compagni ed al relativo squarto, prima d’essere giustiziato. Era un bell’uomo dalle forme atletiche, dalla barba nera fluente, dagli occhi corruscanti. Vestiva alla ciociara, come gli altri, ma non senza qualche eleganza ed in volgendo dal palco uno sguardo sulla folla, vide parecchi artisti, ed alcune dilettanti inglesi, che sbozzavano la scena e i ritratti, colla matita sui loro albums. L’esecuzione dei primi quattro fu rapida quanto più poteva esserlo. Nessun tentativo di resistenza avevano fatto. Quando ebbi impiccato l’ultimo di loro, incominciai lo squartamento. Il sangue colava a torrenti e innondava il palco; io ne ero tutto inzuppato e così il Bellini che assisteva imperterrito alla carneficina, senza battere ciglio, senza che si alterasse il colore del suo volto, dalla tinta bruna rossiccia, senza che il giuoco de’ muscoli visuali tradisse in lui la più piccola emozione.
Non appena ebbi terminato di appendere alle travi del palco i quarti sanguinolenti degli appiccati, si udì un mormorio e un movimento nelle file più avanzate della folla e Vincenzo Bellini, strappati i legami che gli tenevano incrociate le mani, con uno sforzo sovrumano, tentò di buttarsi giù dal palco. Ma io fui pronto ad afferrarlo, mentre i soldati, appuntavano le baionette sopra di lui. Gli gettai al collo la piccola corda col nodo scorsoio ed afferrata per maggior sicurezza quella di soccorso, mentre il garzone lo sospingeva in su pei piedi lo portai sulla scala, donde lo lanciai nel vuoto. In quel mentre s’udì nella folla, ancora nelle prime linee, un grido acuto, straziante, e si vedeva cento braccia, sollevare una giovane donna che pareva svenuta. Poco dopo si seppe che era morta per lo scoppio di un aneurisma.