Mastro Titta, il boia di Roma/Capitolo XXXIII
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Francesco Perelli tornò a casa quella sera agitatissimo. Non aveva veduto la sorella venirgli incontro, ed un sinistro presentimento gli diceva che doveva averla colta qualche disgrazia. Giunto alla porta la trovò socchiusa. Entrò ed era buio, accese un lume e salì per la scaletta di legno alle stanze superiori. Ma vi cercò indarno Virginia. Guardò per ogni dove per vedere se trovava qualche traccia, dalla quale arguire dove fosse andata, che cosa fosse avvenuto, e finalmente trovò sul suo tavolino da notte un foglio piegato. Lo aprì con mano tremante e lo lesse. Diceva:
"Fratello mio. Una fatalità contro la quale avremmo cercato invano di lottare ci separa e forse per sempre. So il dolore che ti cagiono con queste parole e lo divido. Ma il tempo rimarginerà la tua ferita. Una moglie buona ed onesta occuperà il mio posto nel tuo cuore. Ma non dimenticarmi. Non dimenticare la tua Virginia, della quale tu fosti fratello e padre e mamma insieme, la tua Virginia che t’ama e t’amerà sempre, fino all’ultimo istante del viver suo e che fa voto a Dio di poterti un giorno rivedere e di apparirti innanzi detersa d’ogni colpa e ancor degna di te. Virginia."
Quella lettera misteriosa colpì profondamente lo spirito di Francesco. Egli intravide una parte della verità. La forza del suo carattere vinse lo strazio dell’animo. All’indomani, uscendo annunziò che sua sorella era partita da Roma, per andare a trovare dei parenti in montagna. Ma dei sorrisi ironici accolsero le sue dichiarazioni e delle parole abbastanza maligne, specialmente da parte delle donne:
- Già si capisce! Ingrassava a vista d’occhio quella povera ragazza. Doveva avere qualche malattia segreta, nella pancia. L’aria di montagna le avrebbe fatto bene, fra cinque o sei mesi sarebbe tornata svelta come prima. Non c’era da formalizzarsene. Sono mali che toccano alle ragazze, quando hanno l’abitudine d’uscire a prender il fresco verso sera ed hanno paura d’andar sole.
Queste ed altre frasi congeneri erano frecciate al cuore di Francesco. Nondimeno ebbe la forza d’animo di dissimulare; rispose che Virginia non sarebbe forse più tornata, perché in montagna aveva un cugino che l’aveva chiesta in sposa.
- Meglio così, gli venne replicato. I cugini di montagna sono fatti apposta per questo. Se no, che ne avverrebbe delle povere ragazze di città abbandonate da loro amanti gran signori travestiti da operai?
Breve, di parola in parola, una qua, l’altra là, Francesco venne a saper tutto o quasi tutto. Virginia aveva un amante che vestiva da operaio, ma mostrava di non esserlo punto col suo portamento e le sue maniere. Non salutava nessuno, guardava la gente d’alto in basso. Aveva incominciato a ronzare intorno alla casa. Una sera aveva seguito la ragazza, le aveva parlato e s’erano evidentemente intesi, perché d’allora in poi, tutti i giorni l’accompagnava e prendevano le strade più lunghe e più deserte. Poi il bel giovane aveva incominciato ad entrare in casa: si tratteneva pochi momenti, sulle prime. Ma i pochi momenti erano diventati molti e lunghi. La frittata, dicevan le donnicciuole, ormai era fatta. Non c’era che d’andare in montagna.
Francesco represse il suo sdegno e consacrò tutte le sue indagini per ritrovar la sorella. Un suo amico, che amava Virginia, avrebbe voluto sposarla ed era stato da lei rifiutato, l’aveva veduta una sera coll’amante ed era certo di riconoscerlo sotto qualunque spoglia, s’unì a lui per far le ricerche. Ma tornarono vane per lungo tempo. Un giorno che passeggiavano insieme a Villa Borghese, all’ora del Corso, l’amico strinse fortemente il braccio di Francesco e accennando un elegante giovanotto che guidava una superba pariglia disse:
- Eccolo, eccolo.
- Chi?
- L’amante di tua sorella..
- Quello.
- Sì.
Francesco non ascoltò altro: si lanciò dietro il legno e lo rincorse finché lo vide entrare nel palazzo di via Florida. Allora s’informò chi era e lo seppe. All’indomani si presentò al palazzo chiedendo di don Enrico. Questi, di nulla sospettando, lo ricevette in presenza di sua madre. Francesco non seppe contenersi, e non appena si trovò in faccia a lui proruppe:
- Che ne hai fatto di mia sorella, assassino, seduttore vigliacco?
Enrico fece del suo meglio per contenersi senza irritarlo viemaggiormente. Ma fu fatica sprecata. Francesco lo investì con una sequela di vituperi e gli andò coi pugni sotto il naso. La madre intervenne e lo fece mettere alla porta dai servitori. Questi eccedettero e ai suoi tentativi di ribellione, risposero a suon di bastonate. Francesco dovette tornarsene a casa assai malconcio. Allora mutò tattica e si diede a spiare le abitudini del giovane col proposito di ucciderlo. Ma Enrico si era recato alla villetta d’Albano per assicurarsi che nessun pericolo minacciasse la sua Virginia, ch’egli amava più che mai, e stette assente parecchi giorni.
- È fuggito, il codardo! - bestemmiava Francesco.
Dopo pochi giorni Enrico tornò. Tornò raggiante di felicità perché aveva avute le più tenere prove d’amore dalla sua diletta Virginia, e s’era accertato che suo fratello non aveva scoperto il ricovero. Alla sera, verso la mezzanotte, ritornava a casa, quando fu assalito da Francesco, che risaputo il suo ritorno, si era posto in agguato vicino al portone. Non appena lo vide gli si slanciò sopra e gli diede una pugnalata alla gola, togliendogli la possibilità di parlare, poi una seconda al cuore che lo estinse!
Enrico era caduto al suolo fino dal primo colpo e Francesco si era rovesciato sopra di lui. Quando si rialzò una nube di sangue gli aveva offuscata la ragione, stette come stupido, senza neppur pensare ad allontanarsi dal teatro del delitto. Se lo avesse fatto gli sarebbe stato agevolissimo di sottrarsi alle conseguenze del medesimo. Ma egli era quasi inconscio di sé. Quando i birri lo arrestarono, come avvertimmo, a pochi passi dal palazzo sotto il portone del quale aveva pugnalato Enrico, era già scorsa una buona mezz’ora.