Mastro Titta, il boia di Roma/Capitolo LXVIII
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Geltrude Pellegrini era la perla di Monteguidone, la perla e la stella insieme, perché alla virtù più scrupolosa accoppiava una bellezza incomparabile. Persona superba dalle forme slanciate e dense ad un tempo, capelli neri, morbidi, lucidi e lunghi per modo che quando li scioglieva sulle spalle, pareva avvolta in un peplo greco; occhi morati, pieni di languori misteriosi e di iridescenze abbaglianti; un profilo meraviglioso di purezza e di attraenza insieme; bocca sanguigna, denti bianchissimi, con lievi interstizi fra l’uno e l’altro, labbra tumidette e sensuali, pelle fine e vellutata, di quel bruno dorato pallido, che forma la disperazione dei pittori, incapaci a ritrarlo. Appartenente ad una agiata famiglia di massai, vestiva con semplice eleganza e gusto squisito. Quando la festa si recava in chiesa, gli angioli se ne innamoravano, diceva una leggenda; ma se non gli angioli, certamente tutti i giovanotti, i quali facevano ala al suo passaggio, all’entrata ed alla uscita, indirizzandole sguardi da incendiare i pagliai e sospiri da muovere le ali di un mulino a vento.
Geltrude passava e sorrideva, senza ostentazione di una esagerata modestia e senza alterigia. Tutti quanti le volevano bene; tutti, anche le ragazze sue coetanee, forse perché non temevano in lei una rivale, avendo ella mille volte dichiarato che non si sarebbe mai maritata, perché non voleva distaccarsi dai suoi genitori, che amava, teneramente riamata.
- Geltrude - le diceva spesso la vecchia madre, - è tempo che tu pensi ad accasarti.
- Non me ne parlate nemmeno, io voglio godere della mia libertà, - rispondeva prontamente la fanciulla.
E il padre: - Pazzarella, dici così, perché non sai ancora che cosa sia il matrimonio.
- Nessun altro stato potrebbe essere per me più felice di quello che godo. Io voglio sempre stare colla mia famiglia.
- Si potrebbero accomodar le cose. Cerchiamo un marito che venga a star con noi.
- No, no, non voglio padroni, non voglio chi abbia diritto di comandarmi, di impormi la sua volontà, all’infuori di voi.
- E l’avvenire? - insisteva la vecchia - Non siamo mica eterni, noi. Un giorno o l’altro il Signore ci chiamerà a sé e tu resterai sola al mondo, in mezzo a molti pericoli.
- Non parliamo di malinconie, mamma; lasciatemi godere le gioie dell’oggi; quando arriverà domani ci penseremo.
E così si chiudevano sempre le discussioni sull’argomento fra Geltrude e i suoi genitori. Bisogna però avvertire che la leggiadra fanciulla era un po’ romanzesca: le avevano dato una educazione cittadina, sapeva ricamare, scrivere, far di conti, leggere. E leggeva assai. La sua occupazione più favorita, quando aveva sbrigate le sue faccenduole, era la lettura. L’inverno, di sera, mentre la famiglia era adunata nel tinello e gli altri chiacchieravano o si occupavano delle cose domestiche, leggeva. E spesso se ne andava a letto portandosi un libro e continuava a leggere per parecchie ore. Nella buona stagione se ne andava a diporto per la campagna, s’internava nella macchia e trovato qualche posto, ove poteva starsene a proprio agio, si adagiava sui tappeti erbosi, o su qualche masso coperto di muschio, e leggeva.
Alle amiche che la rimproveravano della sua selvatichezza, rispondeva invariabilmente, ch’ella amava più di vivere in compagnia de’ personaggi ideali de’ suoi libri, che in quelli della gente di questo mondo. Pure qualche volta si acconciava a raccontar loro le storie dei romanzi che aveva divorati, e allora favellava d’amore, come avrebbe potuto farlo una fanciulla innamorata, suscitando così il sospetto, che covasse qualche passioncella segreta. Ma poi dovevano persuadersi che non era vero, e il loro stupore cresceva.