Mastro Titta, il boia di Roma/Capitolo II
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Non meno arduo affare fu per me l’esecuzione degli uccisori del sacerdote don Giovanni Lupini, che mi toccò fare il 6 maggio 1800, la quale destò in Roma a quell’epoca grandissimo rumore. Don Giovanni abitava con una servente ed una nipote in una elegante casina a mezza costa della collina di Monte Mario. Era uomo assai danaroso, amava il vino generoso e la buona cucina. Le male lingue sussurravano che non fosse insensibile anche alle seduzioni del bel sesso e lo argomentavano forse dal fatto che Tota, la sua fantesca, era un pezzo di ragazza forte e sanguigna, assai appetitosa. Ma dal momento che si teneva in casa la nipote, parmi si dovesse rimuovere ogni sospetto. Celebrava la prima messa nella Chiesa di Monte Mario e di pratiche religiose non se ne occupava più; tanto meno di uffici ecclesiastici. E questo contribuiva ad alienargli le simpatie della Curia, la quale lo aveva parecchie volte richiamato alla stretta osservanza del Concilio Tridentino, che prescrive ai preti di non tenersi in casa donne in età minore di quarant’anni.
- Diciannove ne ha la mia nipote, Bettina, ventuno la mia serva Tota, e fra tutte due sommano appunto quarant’anni: sono nella legge. Così ragionava il bravo prete.
Don Giovanni avea già più volte osservato dei brutti ceffi che si aggiravano nei dintorni della sua casina; ma non avea fatto caso. La sua villetta era ben munita di solide imposte: aveva un alano che latrava da far spavento, al minimo rumore; possedeva delle buone armi; e vicino ad essa sorgeva un fabbricato rustico, abitato da due famiglie di contadini alle sue dipendenze, delle quali facevan parte alcuni robusti giovanotti. Credeva quindi di non aver a temere sorpresa alcuna. Or avvenne che, essendosi ammalata in città una sua sorella, vecchia zitellona, dalla quale sperava ereditare, le mandò per ingraziarsela a prestarle cure la nipote e la serva. Quest’ultima veramente l’avrebbe trattenuta volentieri presso di sé. Ma trattandosi alla fin fine di pochi giorni si rassegnò a privarsene.
La notte susseguente alla partenza delle due donne, don Giovanni Lupini, dopo aver lautamente cenato, servito a tavola da una delle sue contadine, e copiosamente libato il frizzante vinello delle sue vigne di Monte Mario, si coricò. Era ancora immerso nel primo sonno, pesante e duro, quando si sentì serrare alla gola da due mani poderose: tentò gridare, ma la parola gli morì nella strozza e dati due o tre sussulti, giacque cadavere irrigidito nel suo letto. E così lo trovarono la mattina dopo i suoi contadini, i quali veduta aperta la porta entrarono, credendo fossero ritornate le donne, per dar loro il buongiorno. Ma non appena furono penetrati nel cortile e videro l’alano steso esamine al suolo, furono presi da sinistri sospetti e s’affrettarono alla camera del padrone.
Tutta la casa era stata messa a soqquadro: forzati gli armadi, i canterani e la cassa dove don Giovanni soleva riporre i suoi danari. Svaligiata la dispensa e sulla tavola di cucina gli avanzi miserrimi di un pasto pantagruelico che i ladri avevano fatto. Che più? Dalla cantina saliva su un odore di vino assai acuto. Scesi, trovarono che prima d’andarsene i malfattori avevano aperte le botti e lasciato che il contenuto colasse al suolo, disperdendo così quella grazia di Dio, che non avevan potuto portar via. Dato avviso all’autorità, la casina fu tosto diligentemente visitata da’ suoi messi, i quali si saranno probabilmente preso quello che i ladri avevan dimenticato. Quindi incominciarono le indagini.
Si venne a sapere che un pizzicarolo di Borgo aveva acquistato dei caciocavalli e de’ prosciutti che dovevano essere di compendio del furto. Dietro questa traccia, vennero arrestati: Gioacchino Lucarelli, Luigi De Angelis, Lorenzo Robotti, Giovanni Rocchi e Antonio Mauro, i quali vennero trovati in possesso di troppo maggior copia di danaro, che non comportasse la loro posizione e del quale non seppero giustificare la provenienza. I tormenti aprirono la bocca del Lucarelli, il quale confessò d’esser penetrato, durante il giorno, dal muro di cinta del giardino, d’aver gettata una polpetta avvelenata all’alano, sul far della sera, che lo spense, e quando il prete si fu coricato, d’aver introdotto nella casa i suoi compagni. La matassa del delitto, venne così in breve dipannata. I rei vennero tutti condannati alla forca, quindi al taglio della testa e delle braccia, da esporsi, per esempio, sulla porta Angelica, e il Lucarelli e il De Angelis ad essere, per giunta, bruciati.
L’esecuzione ebbe luogo a Ponte e non offrì nessuno incidente notevole. Parevano proprio nati per il patibolo. Vi si avviarono colla massima indifferenza. Mentre io ne impiccavo uno gli altri assistevano quali spettatori senza batter ciglio. Si sarebbe detto che non fosse cosa che li riguardasse. Quando li ebbi strangolati tutti, dovetti, coll’aiuto del solo mio garzone, distaccarli tutti dalle forche. Quindi incominciò la carneficina. Il palco sembrava trasformato in una bottega da macellaro. Terminata anche questa operazione e deposte le teste e le braccia nella canestra, accendemmo la pira all’uopo innalzata e vi bruciammo i resti sanguinolenti del Lucarelli e del De Angelis. I vapori che si sviluppavano da quel carname in combustione si sollevavano biancastri e diffondevano una puzza nauseabonda.
A rizzare le teste e le braccia su porta Angelica, però dovemmo aspettar la notte, perché l’autorità pensava essere troppo pericoloso il farlo presente la folla. All’albeggiare del giorno seguente i burrini che entravano da Porta Angelica, vedendo il truce spettacolo di quelle teste recise ed infisse alla sommità, livide e contratte, erano presi da un senso di terrore, e molti tornavano indietro fuggendo, quasi avessero paura di dover fare la fine medesima. Risaputasi invece la cosa in città, fu un accorrere di gente infinita. In breve tutte le bettole dei dintorni riboccavano di curiosi, che vi traevano ilari, giocondi e contenti, come se si trattasse di assistere ad una festa. La forte fibra romana non si smentiva. Tutti erano convinti che la condanna era stata giusta e non credendo che malfattori di tale specie meritassero pietà veruna, mostravansi soddisfatti della giustizia eseguita e la festeggiavano. Vuolsi però aggiungere che la splendida giornata primaverile aggiungeva esca a quella gita, quasi processionale. Quanto a me, monsignor Fiscale, volle attestarmi il suo compiacimento per la quintuplice esecuzione così ben eseguita e mi largì una gratificazione straordinaria. Credo, dopo tutto, d’essermela ben meritata. Ma non era ancora finito.
Per segreta rivelazione venne il tribunale in cognizione che l’organizzatore del delitto e quello che aveva raccolto il maggior frutto, era stato un tal Bernardino Bernardi, perché i delinquenti non avevano avuto il tempo di spartirsi tutto il bottino, deposto in una sua casa fuori la porta San Sebastiano. Non appena informata di ciò, l’autorità fece arrestare il Bernardino Bernardi e perquisire la sua casa, ove si trovò la maggior parte dei valori rubati a Don Giovanni Lupini. Si istruì procedimento anche contro di lui, il quale di fronte alle prove irrefutabili che lo accusavano si rese confesso, e lo si condannò alla forca ed allo squartamento, ch’io operai due mesi più tardi, esponendo la testa spiccata dal busto e le braccia alla porta San Sebastiano. Ma l’interesse era già esaurito dall’antecedente esecuzione e questa passò quasi inosservata.