Malmantile racquistato/Avvertenza
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AVVERTENZA.
Quando Salvator Rosa lamentava il traviamento degl’ingegni poetici con quel suo celebre detto che le metafore avean consumato il sole, gli spiriti allegri dei veri begliumori toscani incominciavano a sentire non poco fastidio di certe svaporate piacevolezze e di un artifiziato modo di ridere e voler far ridere che ancor prevaleva. Gli anagrammi, i bisticci, i riboboli, i monnini, la lingua jonadattica, e la maccheronica, che per qualche tempo avean formato la delizia di molte menti volgari, se eran cose non ancora cadute in discredito, riconoscevansi tuttavia non esser la vera e natural fonte del ridicolo e del burlesco. In questo tempo Lorenzo Lippi scriveva il suo Malmantile, e dove pure avesse voluto, gli sarebbe stato impossibile tenere una via affatto nuova in questo genere. Egli dunque, abbandonate le scimunitaggini patenti, prese a far uso, nel dettare il suo bizzarro poema, dei modi proverbiali più vulgati e più veramente ridevoli; ma non sì però che la sua lingua restasse affatto immune di quelle maniere artifiziose e convenzionali, che se sono accettate per qualche tempo, non giungono mai ad esser parte e patrimonio della favella nazionale. Questo fece che il Malmantile, per essere inteso in ogni sua frase, non dico già fuori di Toscana, ma fuori di Firenze, e forse anche in Firenze stesso, ebbe bisogno di commento, appena uscito alla luce. Principal ragione di ciò furono quei rimasugli (il nostro autore direbbe quei spiragli) di lingua jonadattica che il Poeta non seppe o non volle o non potè del tutto evitare.
Molti non sanno (e in questo non deploriamo davvero la loro ignoranza) che cosa sia questa lingua jonadattica. Onde, ci è forza darne una qualche idea, perchè siano più facilmente intese alcune espressioni di questo caro poemetto, le qual per buona ventura sono abbastanza rare. Consisteva pertanto questa pretesa lingua jonadattica nell’adoperare le parole piú strane, o anche le comuni, in un senso affatto diverso da quello che hanno, senza che corra la minima analogia o attenenza tra l’idea espressa dalla parola adoperata, e l’idea che si vuole esprimere, purchè però una o due sillabe della voce che si adopra trovinsi anche nella parola che si dovrebbe adoprare se non si parlasse in lingua jonadattica. Citeremo un solo esempio che leggesi anche nel Lippi. Per dire che un tale aveva finito tutto il suo avere, cercavasi una parola che avesse la sillaba fi, e trovato Fillide, si diceva: Il tale ha fatto Fillide. Lunghe scritture o cicalate, come gli autori stessi le chiamavano, ci restano ancora di queste scimunitaggini, le quali, benchè prestissimo cadessero in meritata dimenticanza, lasciarono tuttavia nel comune linguaggio una qualche orma di sè in certe locuzioni proverbiali universalmente accettate, del cui significato è impossibile rendersi una ragione. Tale è per esempio, il modo anche oggi comunissimo, Uscir del seminato. Noi lo adoperiamo come equivalente di Uscir di tèma: in origine però esso valeva, come può vedersi al c. I, st. 28, Uscir di senno. E perchè mai aveva questo valore? Perchè seminato e senno cominciano con due lettere uguali. Men degna di derisione era certo la lingua furbesca o zerga, nella quale almeno fra la parola adoperata e la sua corrispondente in lingua comune correva una qualche analogia.
Il Malmantile, dunque, altro di jonadattico non contiene che queste poche frasi proverbiali. Ma e per queste e per molte altre maniere di lingua, che sono o furono solo toscane, e alcune anche fiorentine soltanto, questo graziosissimo poemetto non potrebbe essere inteso in ogni sua parte per tutta Italia, se non fosse accompagnato di note e dichiarazioni.
È celebre forse quanto il Malmantile, o almeno egualmente noto fra i letterati, il commento che ne fece il Minucci, accresciuto e talvolta rettificato dal Biscioni; e sparso qua e là di argute osservazioncelle del Salvini. Questo commento considerato in sè stesso è uno stupendo lavoro di arte filologica, ma considerato come dichiarazione del Malmantile è sproporzionato ed esuberante; è tale, che fa rifuggire dalla lettura del poema chiunque gli studi filologici non fa sua delizia. Mossi da questo pensiero, abbiamo creduto di provvedere al comodo di molti, ristringendo quanto era possibile il sullodato commento. Abbiamo seguito quasi sempre l’interpretazione di quei due celebri espositori e dove lo credevamo opportuno, per ragioni che sarà facile intendere ad ogni luogo, abbiamo citato i loro nomi, spezialmente se riportavamo le loro stesse parole. Nel dichiarare voci e maniere, ci è parso meglio essere abbondanti che scarsi; ma dico abbondanti nel numero non nella lunghezza delle dichiarazioni.
A molti Toscani parrà strano che siansi spiegate certe parole e frasi che sono di uso comunissimo in Toscana: ma credo che mi bisogni appena di far considerare che ai non Toscani ho principalmente pensato di render servigio «nel dichiarare, (dirò colle modeste parole del Minucci) oppure confondere ed intrigare quello che nella presente opera ho stimato poco intelligibile fuori della nostra città di Firenze.»
Precede al Poema la vita che scrisse del Lippi il Baldinucci; la quale sebbene, si diffonda in cose artistiche piú che l’indole di questo libro non comporti, ha nondimeno, abbondanti notizie sul Malmantile, e ritrae, meglio di ogni altra la natura e l’ingegno del nostro Poeta; come quella che fu dettata da chi lo ebbe familiare amico.
Antelmo Severini