Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde/X

Il resoconto completo di Henry Jekyll sul caso

../IX IncludiIntestazione 20 novembre 2016 75% Da definire

Il resoconto completo di Henry Jekyll sul caso
IX

Sono nato nell'anno 18** erede di una vasta fortuna, dotato per di più di eccellenti qualità, portato per natura all'operosità, desideroso del rispetto delle persone sagge e buone fra i miei simili, e pertanto come si poteva prevedere con tutti i presupposti per un futuro onorevole e di distinzione. E in verità, il mio peggior difetto era una certa impaziente vivacità di temperamento, che ha fatto la felicità di tanti, ma che trovavo difficile da conciliare con il mio imperioso desiderio di andare a testa alta e di tenere, al cospetto della gente, un contegno straordinariamente austero. Da qui derivò che mantenessi nascosti i miei piaceri; e quando raggiunsi l'età della riflessione, e cominciai a guardarmi intorno e a fare il punto sui miei progressi e la mia posizione nel mondo, mi ritrovai già preso in una vita di profonda doppiezza. In molti si sarebbero perfino fatti un vanto delle trasgressioni di cui ero colpevole; ma io, dall'alto delle ambizioni che mi ero assegnato, le condannavo e le nascondevo, con un senso di vergogna quasi patologico. Fu pertanto la natura impegnativa delle mie aspirazioni, più che un particolare peggioramento dei miei difetti, che fece di me quel che sono stato, e separò in me, con un solco ancora più profondo che nella maggior parte degli uomini, le due regioni del bene e del male, che dividono e compongono la natura duale dell'uomo. In questo caso fui condotto a profonde e periodiche riflessioni su quella dura legge della vita che sta alla radice della religione ed è una delle più copiose fonti di angoscia. Pur così profondamente doppiogiochista, non ero in alcun modo un ipocrita; entrambi i miei due lati erano del tutto onesti; non ero meno me stesso quando mettevo da parte ogni ritegno e sprofondavo nella vergogna, di quando mi adoperavo, alla luce del giorno, a promuovere la scienza o ad alleviare dolore e sofferenza. Avvenne che la direzione delle mie ricerche scientifiche, interamente rivolte al mistico e al trascendentale, si combinasse con tutto questo e gettasse una intensa luce su questa coscienza del conflitto perenne tra le mie componenti. Così ogni giorno, e con entrambi i lati della mia intelligenza, quella morale e quella intellettuale, sempre più mi avvicinavo a quella verità, dalla cui parziale scoperta sono stato condannato a un così spaventoso naufragio: che l'uomo in verità non è uno, ma due. Dico due perché, lo stadio della mia conoscenza non va oltre questo punto. Altri seguiranno, altri, su questa stessa strada, mi oltrepasseranno; e io azzardo l'ipotesi che l'uomo verrà infine riconosciuto come un sistema composto da una molteplicità di abitanti, discordi e indipendenti. Io, da parte mia, secondo la natura della mia esistenza, ho progredito infallibilmente in una direzione e in quella soltanto. Fu dal lato morale, e sulla mia stessa persona, che imparai a riconoscere la profonda e primordiale dualità dell'uomo; mi accorsi che delle due nature che si contendevano il campo della mia coscienza, se potevo a buon diritto dire di essere l'una oppure l'altra, ciò era dovuto soltanto al fatto di essere fondamentalmente sia l'una che l'altra; e fin dagli inizi, prima ancora che il corso delle mie scoperte scientifiche avesse cominciato a suggerirmi la più evidente possibilità di un simile miracolo, avevo imparato a vagheggiare con piacere, come in un delizioso sogno a occhi aperti, all'idea della separazione di quegli elementi. Se ciascuno, mi dicevo, potesse albergare in separate identità, la vita sarebbe sollevata di tutto quanto ha d'insopportabile: l'iniquo potrebbe andarsene per la sua strada, liberato dalle aspirazioni e dal rimorso del gemello più retto; e il giusto potrebbe progredire saldamente e sicuramente lungo il suo sentiero in salita, portando a compimento le buone azioni in cui trova il suo piacere, e non più esposto al disonore e alla penitenza a causa di quel male che gli è estraneo. Era la maledizione del genere umano che simili incompatibili fascine fossero legate insieme – che nel grembo tormentato della coscienza questi antitetici gemelli dovessero continuamente scontrarsi. Come, allora, potevano essere separati?

Ero a questo punto delle mie riflessioni quando, come ho detto, dal tavolo del laboratorio una luce trasversale iniziò ad illuminare la materia. Cominciai a percepire, più profondamente di quanto sia mai stato stabilito, la tremula immaterialità, la transitorietà simile a quella delle foschie, di questo corpo, all'apparenza così solido, nel cui rivestimento ci muoviamo. Trovai che certi agenti avevano il potere di scuotere e rimuovere questa veste carnale come il vento può tirar via le tende a un padiglione. Per due buone ragioni, non intendo addentrarmi in questo aspetto scientifico della mia confessione. La prima è perché ho dovuto imparare che il destino e il fardello della nostra vita, sono legati per sempre sulle spalle di ogni uomo, e a tentare di disfarsene, si ottiene soltanto che ci ritornino addosso, come un peso più estraneo e più terribile. La seconda perché, come il resoconto, ahimè, mostrerà in modo fin troppo evidente, le mie scoperte erano incomplete. Basti dunque dire che, non solo io riconobbi il mio corpo naturale come semplice aura ed epifania di alcuni poteri che costituivano il mio spirito, ma riuscii a preparare un farmaco per effetto del quale questi poteri potevano essere spodestati dalla loro supremazia, e rimpiazzati da una seconda forma e un secondo aspetto, non meno veraci, dal mio punto di vista, a causa del fatto di essere l'espressione, e di recare l'impronta, degli elementi inferiori della mia anima.

Esitai a lungo prima di sottoporre questa teoria alla prova sperimentale. Sapevo bene di rischiare la morte; perché qualsiasi farmaco in grado di controllare e scuotere con tanta forza la roccaforte stessa dell'identità, avrebbe potuto, alla minima eccedenza nel dosaggio o per il minimo contrattempo al momento della somministrazione, annientare completamente quel tabernacolo immateriale che volevo trasformare con essa. Ma la tentazione di una scoperta così singolare e profonda alla fine prevalse sulle suggestioni delle preoccupazioni. Avevo da tempo preparato la soluzione alcolica che era alla base della mia pozione; acquistai subito, da una ditta di forniture chimiche all'ingrosso, un cospicuo quantitativo di un particolare sale, che sapevo, dalle mie sperimentazioni, essere l'ultimo ingrediente richiesto; e a tarda ora in una notte maledetta, miscelai i componenti, li guardai ribollire nel bicchiere ed insieme esalare vapori e, una volta placata l'ebollizione, con una vampata di coraggio, trangugiai la pozione.

Ne seguirono gli spasimi più lancinanti: uno scricchiolio nelle ossa, una nausea mortale e un orrore dello spirito che non è dato di superare neppure nell'ora della nascita o della morte. Poi queste sofferenze presero rapidamente a scemare e io tornai in me, come se fossi reduce da una grave malattia. C'era qualcosa di strano nelle mie sensazioni, qualcosa di indescrivibilmente nuovo e, proprio per la sua novità, di incredibilmente dolce. Mi sentivo più giovane, più leggero, più felice nel corpo; avvertivo dentro di me un'inebriante sconsideratezza, un fluire di scomposte sensuali visioni che scorrevano nella mia immaginazione come l'acqua in un mulino, sciolto dai legami delle obbligazioni, con una sconosciuta ma non innocente libertà dell'anima. Mi accorsi, sin dal primo respiro di questa nuova vita, di essere più malvagio, dieci volte più malvagio, venduto come schiavo al mio male originale; e questa idea, in quel momento, mi corroborava e deliziava come fosse vino. Stesi le braccia, esultando nella freschezza di queste sensazioni; e nel compiere il gesto mi resi conto all'improvviso che mi ero ridotto di statura.

A quel tempo, nel mio studio, non c'era uno specchio; quello che si trova accanto a me mentre scrivo fu portato là in seguito, proprio in funzione di queste trasformazioni. La notte, comunque, stava lasciando il passo all'alba – un'alba che, per quanto buia, era ormai prossima a concepire il giorno – e gli abitanti della casa erano presi nelle ore del sonno più pesante; decisi, raggiante com'ero di speranza e di trionfo, di avventurarmi nella mia nuova forma fino in camera da letto. Attraversai il cortile, dove le costellazioni, mi parve, guardassero dall'alto con meraviglia la prima creatura di quel genere che si fosse mai palesata alla loro insonne vigilanza; sgusciai furtivo lungo i corridoi, straniero nella mia stessa casa, e giunto nella mia stanza vidi per la prima volta l'aspetto di Edward Hyde.

Debbo parlare a questo punto solo in via teorica, dicendo non quello che so per certo, ma solo quello che suppongo più probabile. La parte malvagia della mia natura, alla quale avevo adesso trasferito il potere di plasmarmi, era meno robusta e meno sviluppata di quella buona da me appena deposta. Del resto nel corso della mia vita, che dopo tutto era stata per nove decimi una vita d'impegno, virtù e disciplina, quella parte era stata molto meno esercitata e sfruttata. Da questo, così penso, ne derivava il fatto che Edward Hyde fosse tanto più minuto, più magro, e più giovane di Henry Jekyll. Come il bene splendeva sulla fisionomia dell'uno, così il male era scritto ampiamente e chiaramente in faccia all'altro. Inoltre il male (che debbo pur sempre ritenere essere il lato mortale dell'uomo) aveva lasciato su quel corpo un'impronta di deformità e di decadimento. Eppure quando guardai quel brutto simulacro nello specchio, non provai alcuna ripugnanza, piuttosto uno slancio di benvenuto. Pure quello ero io. Sembrava naturale e umano. Ai miei occhi mostrava un'immagine più viva dello spirito, sembrava più immediata e semplice, dell'espressione imperfetta e divisa in cui, fino a quel momento, ero abituato a riconoscermi. E fin qui avevo senza dubbio ragione. Avevo osservato che quando vestivo le sembianze di Edward Hyde, nessuno mi poteva avvicinare, senza avere da principio una chiara fisiologica apprensione. Questo perché, secondo me, tutti gli esseri umani, quali li incontriamo, sono commisti di bene e di male: e solo Edward Hyde, nei ranghi del genere umano, era puro male.

Indugiai appena un momento allo specchio: il secondo risolutivo esperimento doveva ancora essere compiuto; restava ancora da vedere se avessi perso in modo irrecuperabile la mia identità e se dovessi fuggire prima del giorno da una casa non più mia; precipitandomi perciò nello studio, preparai ancora una volta la pozione e la bevvi, ancora una volta soffrii gli spasimi della dissoluzione, e ancora una volta tornai in me con il carattere, la statura e il volto di Henry Jekyll.

Quella notte ero arrivato al fatale crocevia. Se mi fossi accostato alla mia scoperta con spirito più nobile, se mi fossi arrischiato nell'esperimento condotto da aspirazioni generose o pie, tutto sarebbe stato diverso e sarei uscito da quei tormenti di morte e di nascita come un angelo invece che come un demonio. Il farmaco non aveva alcuna azione discriminante; non era né diabolico né divino; si limitava a scuotere le porte della galera in cui era rinchiusa la mia propensione e, al pari dei prigionieri di Filippi, chi era dentro ne fuggiva. A quel tempo la mia virtù sonnecchiava; il male in me, tenuto sveglio dall'ambizione, era all'erta e lesto a cogliere l'occasione; e la cosa che scaturì fu Edward Hyde. Di conseguenza, sebbene ora disponessi di due indoli, come pure di due sembianze, una era pienamente malvagia, e l'altra era ancora il vecchio Henry Jekyll, quell'incongruo miscuglio sulla cui correzione o riforma oramai avevo imparato a disperare. Cosicché il cambiamento era tutto rivolto al peggio.

A quel tempo, del resto, non avevo ancora dominato la mia avversione per un'arida vita di studi. Alle volte ero ancora incline al divertimento; e dato che i miei piaceri erano (a dir poco) indecenti, mentre io ero persona non solo ben nota e tenuta in alta considerazione, ma già avanti negli anni, una simile incoerenza nella mia vita diventava ogni giorno più indesiderata. Fu a questo riguardo che il mio nuovo potere mi tentò fino a ridurmi in schiavitù. Non avevo che da vuotare la coppa, per scrollarmi di dosso d'un colpo, il corpo dell'illustre professore, e assumere, come uno spesso manto, quello di Edward Hyde. L'idea mi arrideva; all'epoca mi sembrava divertente; e feci i preparativi con l'attenzione più zelante. Presi e ammobiliai quella casa a Soho, dove arrivò la polizia sulle tracce di Hyde, e assunsi come governante una persona che sapevo di poche parole e priva di scrupoli. D'altra parte, annunciai alla servitù che un tale signor Hyde (che descrissi) doveva avere piena libertà e autorità nella mia altra casa, quella in piazza; e, per evitare contrattempi, mi feci diverse visite e mi resi familiare sotto le spoglie della mia seconda persona. Scrissi quindi il testamento da voi tanto biasimato, di modo che, quand'anche fosse accaduto qualcosa alla persona del dottor Jekyll, potevo subentrare come Edward Hyde, senza perdite finanziarie. E così premunito, supponevo, rispetto ad ogni evenienza, cominciai a trarre profitto dalle insolite immunità della mia condizione.

Gli uomini un tempo assoldavano dei sicari che commettessero i delitti al posto loro, mentre la propria persona e la propria reputazione restava al riparo. Io fui il primo a fare altrettanto al fine di procurarmi i miei piaceri. Fui così il primo che poté incedere con sussiego al cospetto di tutti, carico di affabile rispettabilità, e un attimo dopo, come uno scolaretto, spogliarsi di quelle vesti e tuffarsi a capofitto nel mare delle libertà di scelta. Ma per me, sotto il mio impenetrabile mantello, la sicurezza era garantita. Pensateci – non esistevo nemmeno! Lasciate solo che io fugga dentro il mio laboratorio, datemi solo un secondo o due per mescolare e trangugiare la pozione che ho sempre tenuta pronta, e, qualunque cosa avesse fatto, Edward Hyde sarebbe svanito come sparisce l'alone lasciato da un soffio su uno specchio; e al suo posto, tranquillamente a casa, intento ad accomodarsi la lampada notturna dello studio, in grado di farsi beffe di ogni sospetto, ci sarebbe stato Henry Jekyll.

I piaceri che mi affrettai a cercare dietro il mio travestimento erano, come ho detto, indecenti; sono restio ad usare un termine più forte. Sennonché nelle mani di Edward Hyde, presto cominciarono a volgere in qualcosa di mostruoso. Al ritorno da quelle scorribande, mi ritrovavo spesso pervaso da una specie di stupore di fronte alla depravazione del mio alter ego. Questo mio intimo che evocavo dalla mia stessa anima, e mandavo avanti da solo a soddisfare i suoi veri piaceri, era un essere intrinsecamente maligno e scellerato; ogni sua azione e pensiero erano egoistici; si abbeverava di piacere con bestiale avidità nell'infliggere ogni sorta di supplizio agli altri; spietato come fosse un uomo di pietra. Henry Jekyll a volte restava inorridito davanti alle azioni di Edward Hyde; ma quegli eventi erano talmente casi a sé stanti, rispetto all'ordine normale, che insidiosamente ridusse la presa della coscienza. Era Hyde, dopo tutto, e Hyde soltanto, il colpevole. Jekyll non era peggiorato; si svegliava ritrovando apparentemente inalterate le sue buone qualità, anzi, si affrettava a riparare, quando era possibile, al male fatto da Hyde. E così la sua coscienza dormiva tranquilla.

Sui dettagli delle infamie di cui fui complice (anche adesso fatico a concedere di averle commesse io) non intendo entrare. Intendo solo rilevare i segnali e i passi successivi con i quali si approssimò il mio castigo. Mi capitò un incidente di cui, visto che non sortì conseguenze, farò appena menzione. Un atto crudele verso una ragazzina suscitò contro di me la collera di un passante, che l'altro giorno riconobbi nella persona di quel vostro parente; si unirono a lui un medico e la famiglia della piccola; ci furono momenti in cui temetti per la mia vita; infine, per placare il loro più che giusto risentimento, Edward Hyde dovette portarli fin sulla porta e versare loro un assegno a firma di Henry Jekyll. Ma questo pericolo, fu facilmente eliminato per il futuro con l'apertura di un conto in altra banca, intestato a nome dello stesso Edward Hyde; e una volta data un'inclinazione opposta alla mia calligrafia, fornii al mio doppio una firma tutta sua, mi ritenni fuori dalla portata della sorte.

Due mesi prima dell'assassinio di Sir Danvers, avevo fatto una sortita per una delle mie scorribande, ed ero rientrato a ora tarda; all'indomani mi ridestai a letto con delle bizzarre sensazioni. Inutilmente mi guardavo attorno, guardavo il mobilio dignitoso e le ampie dimensioni della stanza che dava sulla piazza e riconoscevo il motivo dei tendaggi e il disegno della cornice di mogano sul letto; qualcosa mi ripeteva con insistenza che non ero dov'ero, che non mi ero risvegliato là, dove mi sembrava di essere, bensì nella stanzetta di Soho, dove solitamente dormivo sotto le spoglie di Edward Hyde. Sorrisi di me stesso e, seguendo la mia vena di psicologo, mi misi pigramente a passare in rassegna gli elementi di una tale illusione, tornando, di quando in quando, a ripiombare, perfino durante le mie riflessioni, in un piacevole sopore mattutino. Ero ancora in questa fase quando, in un momento di veglia, lo sguardo mi cadde sulla mano. Ora, la mano di Henry Jekyll (come tu hai spesso sottolineato) aveva per forma e dimensione qualcosa di professionale: grande, ferma, bianca, ben fatta. Ma la mano che ora io scorgevo, con una certa chiarezza nel giallo chiarore di un mattino nel cuore di Londra, abbandonata semichiusa sulle coltri, era magra, nodosa, con le nocche ben segnate, di un pallore cupo e fittamente ombreggiata dallo sviluppo di una scura peluria. Era la mano di Edward Hyde.

Devo averla fissata per almeno mezzo minuto, sprofondato com'ero nel puro istupidimento della sorpresa, prima che il terrore si risvegliasse nel mio petto repentino e allarmante come il fragore di cembali; balzato giù dal letto, mi precipitai allo specchio. Alla vista di ciò che si palesò davanti agli occhi, il mio sangue si tramutò in qualcosa di estremamente sottile e gelido. Sì, mi ero coricato Henry Jekyll e mi era risvegliato Edward Hyde. Questo come si spiegava? mi chiesi; e poi, con un altro sussulto di terrore – come porvi rimedio? Il mattino era ormai inoltrato; la servitù era in piedi; tutti i miei preparati erano nello studio, un lungo tragitto da dove mi trovavo in quel momento terrorizzato – due rampe di scale da scendere, il corridoio sul retro da percorrere, e poi via all'aperto da una parte all'altra del cortile per poi attraversare il teatro anatomico. Sarebbe stato certamente possibile coprirsi il viso, ma a che scopo farlo, quando non ero in grado di celare l'alterazione della mia statura? E poi, con un sollievo irresistibilmente dolce, mi ricordai che la servitù era già abituata all'andirivieni del mio secondo io. Mi vestii alla svelta, come meglio mi riuscì, con gli abiti della taglia di Jekyll; attraversai alla svelta l'edificio, dove Bradshaw sgranò gli occhi e indietreggiò vedendo il signor Hyde a quell'ora e abbigliato in quello strano modo; dieci minuti più tardi, il dottor Jekyll tornato al suo proprio aspetto sedeva a tavola, accigliato, fingendosi intento a far colazione.

Non avevo davvero molto appetito. Quell'inesplicabile incidente, quel capovolgimento delle mie precedenti esperienze, sembrava, come il dito babilonese sul muro, scandire le lettere della mia condanna; e io cominciai a riflettere più seriamente di quanto non avessi mai fatto in precedenza, sugli esiti e sulle possibilità della mia doppia esistenza. Quella parte di me che avevo il potere di portare alla luce, era stata ultimamente molto spesso attivata e alimentata; mi era sembrato di recente come se il corpo di Edward Hyde fosse cresciuto di statura, come se (quando ne assumevo la forma) sentissi di avere una circolazione sanguigna più vigorosa; e cominciai a scorgere il pericolo che, se la cosa si fosse protratta a lungo, l'equilibrio della mia natura potesse venirne alterato in modo permanente, la facoltà di mutare secondo la volontà poteva cessare, e la personalità di Edward Hyde diventare irrevocabilmente la mia. Il potere del preparato non si era manifestato sempre in modo uguale. Una volta, proprio agli inizi delle mie sperimentazioni, mi aveva completamente deluso; in seguito mi ero visto costretto, in più di un'occasione, a raddoppiare e una volta, con sommo rischio per la mia stessa incolumità, a triplicare la dose; e solo questi rari imprevisti fino ad a questo momento avevano gettato un'ombra sulla mia soddisfazione. Adesso, tuttavia, e alla luce dell'incidente di quel mattino, fui portato a constatare che mentre, sulle prime, la difficoltà era stata quella di disfarmi del corpo di Jekyll, di recente in modo graduale ma chiaramente, la difficoltà si era invertita. Tutto quindi sembrava indicare questo: che mi stava lentamente sfuggendo la presa sull'originario e migliore me stesso, e che stavo lentamente incorporando l'altro, quello peggiore.

Tra questi due sentivo ormai di dover fare una scelta. Le mie due nature avevano in comune la memoria, mentre tutte le altre facoltà erano ripartite in modo assai diseguale fra i due. Jekyll (che era composto) ora con la più viva apprensione, ora con gusto vorace, progettava e condivideva i piaceri e le avventure di Hyde; ma Hyde era indifferente a Jekyll, o al più lo ricordava come un bandito di montagna si ricorda della caverna dove va a nascondersi quando è braccato. Jekyll provava qualcosa di più di un interesse paterno; Hyde più di un'indifferenza filiale. Fondere la mia sorte con quella di Jekyll significava soffocare quegli appetiti che a lungo mi ero segretamente concesso e che da ultimo avevo preso ad assecondare in tutto e per tutto. Fondermi con Hyde significava soffocare mille interessi e aspirazioni, e diventare, di colpo e per sempre, disprezzato e senza amici. Lo scambio potrebbe sembrare iniquo; ma c'era ancora un'altra considerazione di cui tener conto: e cioè che mentre Jekyll avrebbe sofferto atrocemente tra fiamme dell'astinenza, Hyde non sarebbe stato neppure cosciente di tutto quello che avrebbe perduto; per quanto singolari fossero le circostanze in cui mi trovavo, i termini di questo dibattito erano vecchi e comuni come l'uomo; i medesimi allettamenti e timori giocano la sorte di ogni peccatore tentato e tremebondo; e accadde anche a me, come alla stragrande maggioranza dei miei simili, di scegliere la parte migliore e di trovarmi privo delle forze per mantenermi in questa scelta.

Sì, preferii l'anziano e insoddisfatto dottore, circondato da amici e dedito a delle oneste aspettative, e diedi un addio risoluto alla libertà, ad una relativa giovinezza, al passo leggero, a palpiti intensi e a piaceri segreti, di cui avevo goduto sotto le mentite spoglie di Edward Hyde. Feci questa scelta forse con qualche inconscia riserva, visto che né abbandonai la casa di Soho, né distrussi gli abiti di Edward Hyde, che rimasero sempre pronti nel mio studio. Tuttavia per due mesi restai fedele alla mia decisione; per due mesi condussi una vita rigorosa come mai in precedenza, e godetti delle ricompense di una coscienza soddisfatta. Ma il tempo alla lunga iniziò a cancellare la vivezza dei miei timori; l'approvazione della coscienza cominciò a svilupparsi in una cosa ovvia; cominciai a essere torturato da convulsioni e bramosie, come se Hyde si dibattesse per tornare libero; e alla fine, in un momento di debolezza morale, ancora una volta miscelai e ingerii la bevanda della trasformazione.

Non credo che, quando un ubriacone ragiona con se stesso circa il proprio vizio, si preoccupi neppure una volta su cinquecento dei rischi a cui va incontro per la sua bestiale insensibilità fisica; neppure io, per quanto a lungo avessi riflettuto sulla mia situazione, avevo tenuto nella dovuta considerazione la completa insensibilità morale e l'insensata disponibilità al male che erano le caratteristiche che guidavano Edward Hyde. Eppure proprio per via di queste che fui punito. Il mio demone era stato a lungo in gabbia: venne fuori ruggendo. Avvertii, già nel mentre bevevo il preparato, una più sfrenata, una più impetuosa propensione al male. Deve essere stata questa, suppongo, a scatenare nel mio animo quella tempesta di insofferenza con cui accolsi le cortesie della mia sventurata vittima; perlomeno affermo, davanti a Dio, che nessun uomo moralmente sano avrebbe potuto macchiarsi di quel crimine con un così debole pretesto, e che colpii senza maggior ragionevolezza di quella con la quale un bimbo annoiato può rompere un giocattolo. Io però, mi ero volontariamente privato di tutti quegli istinti equilibratori che permettono anche al peggiore di noi di procedere con un certo grado di saldezza tra le tentazioni; e nel mio caso, essere tentato, anche se minimamente, significava cadere.

Lo spirito infernale si risvegliò in me all'istante accanendosi. Con gioioso trasporto presi a mazzate quel corpo inerme, gustandomi ogni colpo; fintanto che non cominciò a subentrare la stanchezza, quando fui inaspettatamente colpito al cuore, al culmine esatto del delirio, da un gelido fremito di terrore. Una nebbia si disperse; capii che la mia vita era perduta; e fuggii dalla scena di quelle intemperanze, esultante e tremante nel contempo, la mia sete di male appagata ed eccitata, il mio amore per la vita innalzato sopra ogni cosa. Corsi alla casa di Soho, e (per essere doppiamente sicuro) distrussi le mie carte; dopodiché m'incamminai per le strade al lume dei lampioni, nella medesima scissa estasi mentale, gongolando per il delitto, progettandone sventatamente altri per l'avvenire, e tuttavia sempre affrettandomi, con l'orecchio ben teso a cogliere i passi del vendicatore. Hyde miscelò la bevanda canticchiando una canzone e, bevendola brindò al morto. Gli spasmi della trasformazione non avevano ancora cessato di dilaniarlo, che Henry Jekyll, versando lacrime di gratitudine e di rimorso, era caduto in ginocchio alzando a Dio le mani giunte. Il velo dell'indulgenza verso me stesso era lacerato da capo a piedi, e vidi interamente la mia esistenza: la ripercorsi dai giorni dell'infanzia, quando camminavo tenuto per mano da mio padre, e poi attraverso le privazioni a cui mi sottoponevo a causa del duro impegno professionale, sino ad arrivare ripetutamente, con lo stesso senso di irrealtà, ai maledetti orrori di quella sera. Avrei potuto gridare a pieni polmoni; cercai con lacrime e preghiere di smorzare il fluire di visioni e suoni orribili con i quali i ricordi mi prendevano d'assalto; eppure, fra una supplica e l'altra, il laido volto della mia iniquità mi fissava dal fondo dell'anima. Man mano che l'acutezza del rimorso svaniva, subentrò un senso di gioia. Il problema della mia condotta era risolto. Da quel momento sarebbe stato impossibile tornare ad essere Hyde; che lo volessi o meno, ero ora confinato nella parte migliore della mia esistenza; e oh, come mi rallegrai a questo pensiero! Con quale spontanea umiltà abbracciai nuovamente le restrizioni di una vita naturale! Con quale sincera rinuncia sprangai quella porta dalla quale ero passato e ripassato così spesso, per calpestarne la chiave sotto il tacco!

Il giorno appresso recò la notizia che l'assassinio aveva avuto testimoni, che la colpevolezza di Hyde era palese per tutti, e che la vittima era persona altamente stimata. Non era stato soltanto un crimine, era stata anche una tragica follia. Credo di essere stato contento nel saperlo; credo di essere stato contento che i miei migliori impulsi fossero sostenuti e protetti dal terrore del patibolo. Jekyll era adesso la mia città d'asilo; se solo Hyde fosse spuntato fuori anche per un solo istante, tutte le braccia si sarebbero alzate per afferrarlo e ucciderlo.

Decisi con la mia condotta futura di redimere il passato; e posso affermare con onestà che il mio proposito fruttò del bene. Voi stesso sapete con quanto fervore negli ultimi mesi dello scorso anno, io mi sia adoperato per alleviare delle pene; sapete che ho fatto molto per gli altri, e che i giorni siano trascorsi per me quieti, quasi felici. Né potrei sinceramente affermare che mi stancasse quella vita caritatevole e innocente; penso invece di averla apprezzata ogni giorno di più; ma ero ancora tormentato dalla mia duplicità di intenti, e la prima volta che la trepidazione data dal pentimento scemò, la mia parte inferiore, così a lungo assecondata, incatenata da così poco tempo, cominciò a ruggire per ottenere una licenza. Non che mi sognassi di resuscitare Hyde; il solo pensiero mi turbava alla follia: no, era con le mie stesse fattezze che ancora una volta ero tentato di giochicchiare con la mia coscienza; e fu da comune peccatore clandestino che cedetti alla fine agli assalti della tentazione.

Tutte le cose hanno un termine; anche la misura più capace alla fine si colma; e quella breve condiscendenza alla mia turpitudine distrusse alla fine l'equilibrio della mia anima. Eppure non ne fui allarmato; la caduta sembrava naturale, quasi un ritorno ai vecchi tempi prima che io avessi fatto la mia scoperta. Era una bella, limpida giornata di gennaio, i piedi percepivano l'umidità laddove la brina si era sciolta, ma senza nubi in cielo, e Regent Park era pieno di cinguettii invernali e addolcito da sentori primaverili. Sedevo al sole su una panchina; l'animale dentro di me si gustava ritagli di ricordi; la parte spirituale un po' sonnacchiosa si riprometteva un successivo pentimento, ma ancora non si decideva ad iniziare. Dopo tutto, pensai, ero anch'io come il mio prossimo; e poi sorrisi, confrontandomi con gli altri uomini, confrontando la mia attiva buona volontà alla pigra crudeltà della loro indifferenza. E nel preciso istante di quel pensiero vanaglorioso, fui preso dall'ansia, da un'orrenda nausea e un brivido di morte. Questo passò, lasciandomi stremato; e quando poi la debolezza a sua volta s'attenuò, cominciai ad avvertire un mutamento nel carattere delle mie intenzioni, un maggior ardire, uno sprezzo del pericolo, un sentirsi slegato dai vincoli del dovere. Abbassai lo sguardo; i miei abiti pendevano senza forma sulle membra rattrappite; la mano posata sul ginocchio era nodosa e villosa. Ero ancora una volta Edward Hyde. Un momento prima ero al sicuro nel rispetto di tutti, ricco, amato – una tavola apparecchiata mi attendeva a casa nella sala da pranzo; e ora ero una comune preda per tutti, braccato, senza tetto, un noto assassino, destinato alla forca.

La mia ragione vacillò, ma non mi abbandonò del tutto. Avevo osservato in più di una occasione che, con la mia seconda personalità, le mie facoltà sembravano più acute e lo spirito più scattante: capitò così che là dove Jekyll avrebbe potuto soccombere, Hyde riuscì ad essere all'altezza della situazione. I miei farmaci erano in uno degli armadietti dello studio: come potevo arrivarci? Questo il problema che (stringendomi le tempie fra le mani) mi accinsi a risolvere. La porta del laboratorio l'avevo chiusa. Se avessi cercato di entrarci passando dalla casa i miei stessi domestici mi avrebbero portato alla forca. Capii che dovevo farmi dare una mano e pensai a Lanyon. Come fare a raggiungerlo? Come persuaderlo? Supponendo di riuscire a sfuggire alla cattura in strada, come fare per farmi ricevere da lui? E come avrei potuto io, un visitatore sconosciuto e sgradito, convincere il medico famoso a forzare lo studio del suo collega, il dottor Jekyll? Allora mi ritornò in mente che restava in me pur sempre una parte della mia persona originaria: potevo scrivere con la mia propria grafia; e non appena ebbi generato quella scintilla ci fu l'innesco e la via da seguire mi si chiarì da cima a fondo.

Pertanto mi sistemai i vestiti come meglio potei, e fermata una carrozza di passaggio, mi feci condurre in un alberghetto in Portland Street, di cui per caso ricordavo il nome. Di fronte al mio aspetto (che a dire il vero era abbastanza comico, per quanto tragico fosse il destino che quegli indumenti coprivano) il cocchiere non riuscì a mascherare la sua ilarità. Digrignai i denti contro di lui in un turbine di diabolico furore, e il sorriso gli si smorzò sul viso – fortunatamente per lui – ma ancor di più per me, perché ancora un secondo, e l'avrei scaraventato giù da cassetta. Alla locanda, non appena vi misi piede, mi guardai attorno con un'aria così truce da far tremare il personale; non si scambiarono neppure uno sguardo in mia presenza, ma presero ossequiosamente i miei ordini, mi condussero in una saletta riservata e mi portarono l'occorrente per scrivere. Hyde in pericolo di vita era una creatura nuova per me: agitato da una collera irrefrenabile, sul punto di commettere un delitto, smanioso di infliggere della sofferenza. Eppure la creatura era astuta; dominò la sua furia con grande sforzo di volontà; scrisse due importanti lettere, una a Lanyon, l'altra a Poole e, per ottenere certezza materiale che fossero state imbucate, le inviò con l'indicazione di spedirle raccomandate.

Da quel momento in avanti, egli sedette tutto il giorno a rosicchiarsi le unghie davanti al fuoco in una saletta riservata; lì pranzò, sedendo solo, in compagnia delle sue paure, mentre il cameriere diventava visibilmente sgomento quando incrociava il suo sguardo; e da lì, quando si fece notte compiutamente, egli si mise ad andare in giro, nell'angolo di una carrozza chiusa, facendosi condurre su e giù per le vie della città. Dico "egli" – non riesco a dire "io". Quel figlio degli inferi non aveva nulla di umano; nient'altro che paura e odio dimoravano in lui. E quando infine, pensando che il cocchiere cominciasse a nutrire dei sospetti, smontò dalla vettura e si avventurò a piedi, abbigliato com'era con indumenti che non erano giusti per la sua taglia, si ritrovò in mezzo ai passanti notturni, ad essere additato e oggetto di commenti, quelle due vili passioni infuriarono dentro di lui come una tempesta. Camminava svelto, incalzato dalle sue paure, parlando fra sé e sé, appostato tra le strade meno frequentate, contando i minuti che ancora lo separavano dalla mezzanotte. Una donna gli rivolse la parola, per offrirgli, credo, una scatola di fiammiferi. Lui la colpì al volto e quella scappò via.

Quando a casa di Lanyon ritornai me stesso, l'orrore del mio vecchio amico, forse ebbe un qualche effetto su di me: non saprei dire; in ogni caso era poco più che una goccia nel mare, in confronto all'orrore con cui riandavo con il pensiero alle ore appena trascorse. Un cambiamento era intervenuto in me. Non era più la paura della forca a tormentarmi, bensì l'orrore di essere Hyde. Accolsi il biasimo di Lanyon come in sogno; e sempre come in sogno tornai a casa e mi misi a letto. Dormii dopo una giornata tanto spossante, di un sonno continuo e profondo che neppure gli incubi che mi attanagliavano servirono a interrompere. Mi svegliai al mattino scosso, indebolito ma rigenerato. Odiavo e temevo ancora il pensiero del bruto dormiente dentro me e ovviamente non avevo scordato gli agghiaccianti pericoli del giorno precedente; ma ero ancora una volta a casa, nel mio appartamento e con i miei farmaci a portata di mano, e la gratitudine per averla scampata splendeva così radiosa nella mia anima da rivaleggiare quasi con la luce della speranza.

Stavo attraversando senza fretta il cortile dopo colazione, assaporando con piacere il gelo nell'aria, quando fui nuovamente assalito dalle indescrivibili sensazioni che annunciavano il mutamento; ebbi appena il tempo di trovar rifugio nel mio studio, prima di ritrovarmi ancora rabbioso e glaciale con l'emotività di Hyde. Presi in quell'occasione una doppia dose per restituirmi a me stesso; e ahimè, sei ore dopo, mentre sedevo mestamente a guardare nel fuoco, ripresero gli spasmi e il farmaco dovette essere risomministrato. In breve, da quel giorno in avanti, sembrò che solo con grande sforzo, come in un esercizio ginnico, e solo sotto l'immediata stimolazione del farmaco, io fossi in grado di vestire le sembianze di Jekyll. A tutte le ore del giorno e della notte venivo colto dal brivido premonitore; sopratutto se dormivo, o anche sonnecchiavo appena un momento sulla sedia, ero sempre Hyde al risveglio. Sotto la tensione di questa minaccia costantemente incombente e per l'insonnia alla quale adesso io mi condannavo, ahimè ben oltre quello che avevo ritenuto essere nelle possibilità umane, divenni, nella mia propria persona, un essere divorato e svuotato dalla febbre, fiaccato, tanto nel corpo quanto nella mente, preso esclusivamente da unico pensiero: l'orrore dell'altro me stesso. Ma quando dormivo, o cessava il potere del farmaco, balzavo quasi senza transizione (gli spasimi della trasformazione si facevano di giorno in giorno sentire di meno) in preda a una fantasia traboccante d'immagini di terrore, in un'anima che ribolliva odi immotivati, e in un corpo che non sembrava abbastanza robusto per contenere le rabbiose energie della vita. I poteri di Hyde sembravano essere accresciuti con l'indebolirsi di Jekyll. E certamente l'odio che ora li separava era pari da entrambe le parti. Per Jekyll era una questione d'istinto vitale. Ormai aveva veduto la piena deformità di quella creatura che spartiva con lui alcuni eventi della coscienza e che con il quale era destinato a ereditare la morte; e al di là di tali vincoli in comune, che già di per sé costituivano la parte principale della sua sventura, egli pensava a Hyde, a dispetto di tutta la sua energia vitale, come a qualcosa non solo d'infernale ma altresì d'inorganico. Era questa la cosa sconcertante: che la melma dal fondo della fossa sembrasse proferire urla e voci; che dell'amorfa polvere gesticolasse e peccasse; che quello che era morto e non aveva alcuna forma usurpasse le funzioni della vita. E questo ancora: che quell'orrore in rivolta fosse congiunto a lui più intimamente di una moglie, più intimamente di un occhio; ingabbiato nella sua carne, da dove lo udiva borbottare e lo sentiva lottare per venire alla luce; e che a ogni attimo di debolezza, e all'approssimarsi del sonno, prevalesse su di lui e lo mettesse fuori gioco. L'odio di Hyde per Jekyll era di un ordine differente. Il terrore della forca lo portava continuamente a commettere un suicidio temporaneo, e a ritornare al suo stato subordinato di parte anziché di persona; ma egli detestava tale necessità, detestava la prostrazione nella quale Jekyll era adesso caduto, e si risentiva della repulsione con cui lui lo considerava. Di qui gli scherzetti da scimmia che mi giocava, scarabocchiare con la mia grafia delle bestemmie sulle pagine dei miei libri, bruciarmi le lettere o fare a pezzi il ritratto di mio padre; e in verità, non fosse stato per la paura che aveva della morte, già da tempo si sarebbe condotto alla rovina pur di trascinarmi con sé. Ma il suo amore per la vita è stupefacente; vado oltre: io, che mi sento male e raggelo se solo lo penso, quando richiamo alla mente l'abiezione e la passione di quel suo attaccamento, e sapendo quanta paura abbia per la mia facoltà di sopprimerlo con il suicidio, trovo in fondo al cuore della pena per lui.

È inutile, protrarre questa descrizione e me ne manca assolutamente il tempo; nessuno ha mai patito tali tormenti; e questo è quanto basta; e tuttavia anche a essi la consuetudine arrecava – no, non un alleggerimento – ma un certo incallimento nell'anima, una certa acquiescenza alla disperazione; e il mio castigo avrebbe potuto proseguire per anni, se non fosse per quest'ultima calamità che mi è appena caduta addosso, che mi ha definitivamente separato da quello che è il mio vero volto e la mia vera natura. La provvista di sali, che non fu mai più rinnovata dalla data del primo esperimento, cominciò a esaurirsi. Mandai qualcuno a procurarmi una nuova fornitura, e mescolai il composto; ne seguì l'ebollizione e il primo mutamento di colore, non il secondo; la bevvi, e fu priva di effetto. Poole vi metterà al corrente di come abbia fatto passare Londra al setaccio: tutto invano; e ora mi sono convinto che la prima fornitura fosse impura, e che fosse quella ignota impurità a conferire efficacia alla pozione.

Quasi una settimana è trascorsa, e io sto ora ultimando questo resoconto sotto l'effetto dell'ultima di quelle vecchie polveri. Questa, perciò, è l'ultima volta, a meno di un miracolo, che Henry Jekyll può pensare i suoi pensieri o guardare il proprio volto (quanto tristemente alterato, ormai!) nello specchio. Né debbo indugiare troppo a lungo a portare a termine il mio scritto; in quanto che, se il mio racconto è fino a questo momento scampato alla distruzione, è dovuto alla combinazione di una grande cautela con una grande fortuna. Se gli spasmi del cambiamento mi cogliessero nel momento in cui sto scrivendo, Hyde lo ridurrebbe a pezzi; se invece sarà trascorso un certo lasso di tempo da quando l'avrò messo da parte, il suo straordinario egocentrismo e il suo orientamento a occuparsi esclusivamente del presente, lo salveranno probabilmente ancora una volta dal subire i suoi dispetti da scimmia. E in verità il destino che ci accomuna lo ha già mutato e schiacciato. Tra mezz'ora, quando avrò di nuovo e definitivamente ripreso quell'odiata personalità, so già che mi troverò in preda ai brividi e in lacrime nella mia poltrona o continuerò, rapito in un ascolto teso e impaurito come mai, a camminare avanti e indietro lungo questa stanza (il mio ultimo rifugio sulla terra) prestando orecchio a ogni rumore minaccioso. Morirà sulla forca Hyde? O troverà il coraggio di liberare se stesso all'ultimo momento? Lo sa solo Iddio; a me non importa; questa è la vera ora della mia morte e quello che ne seguirà riguarda un altro da me. A questo punto, dunque, nel posare la penna e sigillando la mia confessione, metto fine all'esistenza dell'infelice Henry Jekyll.