Lo schiavetto/Atto quarto/Scena III
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Giovan Battista Andreini - Lo schiavetto (1612)
Atto quarto - Scena III
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Nottola, Rampino, Grillo, Cicala, paggi, Fulgenzio
- Nottola.
- Tienilo, Rampino, tienilo, tienilo.
- Rampino.
- Olà? Che cosa è questo?
- Fulgenzio.
- Lasciatemi morire.
- Rampino.
- Fermatevi là, dico. Pur troppo a i danni della vita corre frettolosa la morte, senza che voi gli accelleriate il passo.
- Nottola.
- Olà gentiluomo, fermatevi, quando i prìncipi commandano.
- Fulgenzio.
- Signore, ella mi nega che con questo ferro si ferisca questa carne, e con queste parole di mantenermi in vita mi ferisce l’alma. Vuole il Cielo ch’io muoia; or noi, che figli siamo del Cielo, ubidir lo dobbiamo e sappiate che quello che negate che faccia in me il ferro, lo farà alfine il dolore.
- Nottola.
- Or sù non più, dico, ché la morte incresce in sino a i pollastri e che sia vero, que’ tanti saltarelli che fanno dopo aver loro alcuno tirato il collo, che vogliano dire? Altro non dicono se non che gli rincresce di lasciar questo giardino mondano, dove con tanto gusto andavano ruspando e beccolando. Io per me vorrei più tosto vivere servendo all’uomo mendico, al quale mancasse il vitto cotidiano, che commandare a tutti i morti.
- Fulgenzio.
- Signore, niuna cosa è migliore all’uomo che ’l nascere e niuna più fortunata che ’l presto morire.
- Nottola.
- Eh? Noi altri prìncipi abbiamo ancora sopra la morte scartabellato qualche cosetta, fin a Grillo dispiacerebbe il morire, non è così?
- Grillo.
- Egli è certissimo signore, e apunto in certo tempo io serviva un vecchio, molto carico d’anni, il quale altro non faceva che dire: «Oh Cielo nemico, perché riserbarmi a questa età, che dovrebbe esser di riposo, per far ch’io abbia tanti travagli come quelli dove io mi vivo involto? Meglio pur m’era il morir giovinetto!». Al corpo di me, che questo buon vecchio s’infermò, e gravemente io dissi allora: «Certo, che il Cielo vuole esaudire le sue preghiere co ’l mandarli la morte», ma dindi a poco, io vedo venir da lui tanti medici, tanti barbieri, serviziali, medicine, siloppi, pittime, profumi, impiastri, gargarismi, e mille altre triacche da vòtar ventri e borse, né cosa alcuna li giovava. Di più sento il prefato vecchio, che un giorno quasi piangendo dice: «Vedete, o signori della mia salute gelosi, non guardate a cosa alcuna, né a diligenza, né a spesa, purch’io guarisca, ché a ciascuno darò grato riconoscimento d’aver molto conosciuto il beneficio fattomi». Così un giorno, avicinatomi al suo letto, fatto cuore io li dissi: «O mio signore, voi l’altro giorno non facevate altro che querelarvi della vita, invocando la morte, e ora ch’ell’è in viaggio per venir da voi, altro non fate che mostrar di volerla mal gradire; e perché questo, caro signore?». Allora il vecchio a me rivolto così disse: «Figliolo mio, sappi che non v’è la più facil cosa che il chiamar la morte, e la più dificile, che ’l riceverla in casa; e io per me mi contento più tosto, vivendo, di provar tutti i travagli della vita, che gustare una mez’ora un solazzo solo della morte!». Sì che mi credo che ancor voi, o cavaliere disperato, con la stessa facilità al presente la chiamiate, ma che con la stessa dificultà (quand’ella fosse in cammino) la ricevereste poi.
- Fulgenzio.
- Credimi fanciullo, credami ciascuno di più maturo senno, ch’io certo morrei, se la morte negata non mi fosse.
- Grillo.
- Con licenza, signor principe.
- Nottola.
- Séguita, ché gustiamo del tuo spirito vivace.
- Grillo.
- O son ben nato d’un asino più grande della signorìa vostra s’io ve lo credo! Pigliate questo mio pugnalino, amazzatevi.
- Rampino.
- Non fare, ché si ucciderà.
- Grillo.
- Che si ucciderà? Questi polmoni fracidi! State a vedere: pigliate.
- Fulgenzio.
- Da’ qui.
- Grillo.
- Datevi.
- Fulgenzio.
- Ch’io mi dia?
- Grillo.
- Sì presto, presto, che fate? Non s’indugia.
- Fulgenzio.
- Io mi darei...
- Grillo.
- O qui ci entra il ma, come la cotenna ne’ cavoli.
- Fulgenzio.
- Io mi darei, dico...
- Grillo.
- Ma...
- Fulgenzio.
- Ma...
- Grillo.
- Non lo diss’io? ma, che? ma, ho paura di farmi male!
- Fulgenzio.
- Ma, considerando la forza de’ prieghi e commandi di questo generoso principe, non debbo farlo.
- Grillo.
- Sì sì, porri co ’l sale! Quanto a me non vi stimerò giamai più gentiluomo di parola. Bella cosa, uh? Dalli, dalli, dalli.
- Nottola.
- Sta’ cheto; olà, non più, dico.
- Rampino.
- Certo che Grillo questa fiata l’ha intesa.
- Grillo.
- Signor principe, io sapeva certissimo che averebbe mancato di parola, poiché nel più de’ gentiluomini è questo costume di mancar volentieri e di prometter molto.
- Nottola.
- Or sù, poiché voi per me non vi siete tolto la vita, voglio farvi de’ miei gentiluomini più cari; ma diteme, perché d’uccidervi v’era caduto nel cuore disperato pensiero?
- Fulgenzio.
- A così caro signore sarà ch’io celi cosa alcuna? Certo no. Sappia l’eccellenza sua ch’io vivo amante d’una bellissima fanciulla detta Prudenza. Per ottenerla ho tentate mille stratageme, alfine fu il tutto un cercare di levar la luna alla notte, e ’l sole al giorno. Ma quello che più mi accorra è in pensando che altro amante me l’abbia rapita.
- Nottola.
- Rampino.
- Rampino.
- Signore.
- Nottola.
- Senz’altro questo amante parla di me, se pure questa Prudenza è la figliola di meser Alberto. Ditemi, gentiluomo, come ha nome l’amante che possede Prudenza?
- Fulgenzio.
- Orazio.
- Nottola.
- Or sù Rampino, non son io.
- Rampino.
- Eh? Signore, vi sono molte Prudenze.
- Nottola.
- Questa Prudenza di chi è figliola?
- Fulgenzio.
- D’un certo signor Alberto, gentiluomo di facoltà e d’anni assai carico, e d’avarizia assai più dovizioso.
- Nottola.
- Se questa Prudenza è figliola di questo Alberto, rallegratevi, ché vi do, una buona nova.
- Fulgenzio.
- E qual è, signore? Ohimè, di già tutto gioisco.
- Nottola.
- Questo Orazio non ha goduto Prudenza, né sia giamai che la goda.
- Fulgenzio.
- O lieta nuova! o fortunata quell’ora, che un tal signore mi tolse dal grembo della morte, riponendomi nel seno di somma vita felice.
- Nottola.
- Or non è questa una buona nuova?
- Fulgenzio.
- Certo sì, signore, ch’è buonissima.
- Nottola.
- Or apparecchiatevi a riceverne un’altra, ma cattivissima.
- Fulgenzio.
- E che sarà mai?
- Nottola.
- Sarà che Prudenza è mia consorte.
- Fulgenzio.
- Ohimè.
- Nottola.
- Càppari, guarda mo, Rampino, se s’è fatto smorto e quasi di pietra?
- Rampino.
- O poverino.
- Fulgenzio.
- O pessima nuova, o dolorosa nuova mortale.
- Grillo.
- Che sì, che torna su ’l chiribizzo di morire?
- Nottola.
- Credo pure che abbiate sentito il gran travaglio, eh?
- Fulgenzio.
- Tale, signore, che non ho lingua per narrarlo, né cuore per soffrirlo.
- Nottola.
- Or sù, apparecchiatevi a sentire un’altra buona nuova.
- Fulgenzio.
- Signore, per me ora sono perdute tutte le gioie, e i contenti, poi che ho perduta Prudenza mia.
- Nottola.
- Anzi, voglio che sia tutto al contrario.
- Fulgenzio.
- E come sarà mai questo?
- Nottola.
- Come? co ’l darvi Prudenza per moglie.
- Fulgenzio.
- Deh, per grazia, non cerchi più di traffigermi con questo schernirmi di più ancora.
- Nottola.
- Dico che da vero io ragiono, per la nobiltà mia incognita e non conosciuta. È vero che dovrebbe esser mia, ma perché vedo che tanto l’amate e perché v’ho fatto mio gentiluomo mi contento di cedervela.
- Fulgenzio.
- Amore, che ascolto? e Prudenza sarà mia?
- Nottola.
- Vostrissima, vostrissima. Eccovi la fede.
- Fulgenzio.
- O Cielo benigno, che dirò? Deh, se gli oblighi, che con sì caro signore tengo, avanzano di cotanto ogni umano ringraziamento, in vece mia parlino gl’istessi favori a me fatti e quelli siano che accusino quanto a così glorioso signore io mi viva obligato.
- Nottola.
- Non più parole; vi dico ch’è vostra, e di più le fo contradote di cinquanta fili di perle e di dugento rubini slegati e di trecento rubinotti legati in un gioiello. Vi fo dono di carozza, di cavalli, di lettica, e di muli; vi dono dodici molini e sessantaquattro paia d’asini.
- Rampino.
- O che ventura, gentiluomo.
- Fulgenzio.
- Or sì che tanto certo sono d’ottenerla, quanto io già viveva fuora di speranza di non la possedere, colpa solo della mia gran povertà e dell’avarizia grande del signor Alberto; ché certo, s’io fosse stato ricco, l’averei fin ora avuta dal padre suo, e Orazio ne sarebbe rimasto senza, per essere anch’egli poverissimo gentiluomo.
- Nottola.
- Basti, che vostra sia, non si cerchi altro. Rampino?
- Rampino.
- Mio principe, mio nume, che vuole, che impone.
- Nottola.
- Batti a quella porta.
- Rampino.
- Io batto. O dalla casa, o dalla casa! Olà, dich’io.