Lo schiavetto/Atto quarto/Scena I
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Giovan Battista Andreini - Lo schiavetto (1612)
Atto quarto - Scena I
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Orazio, e Prudenza
- Orazio.
- Orazio, infelice Tantalo amoroso. Tu sitibondo, tu famelico se’ tra le poma e l’acque dell’esca, e della bevanda amorosa, che ti porge in cara mensa Amore. E quando di quelle, e di questi, gustar vuoi, ecco che fiero tenore d’ingiuriosa stella fa che dalle tue labra fuggono l’acque, e dalla tua mano s’involano i frutti. Pur io era da ebreo vestito, pur io era vicino alla casa di Prudenza, pur io premeva la soglia di quella, pure quasi io era in casa. Ed ecco come fortuna, parca nel mio bene e prodiga ne’ miei danni, fe’ sì, ch’io non potessi tanto avanzarmi, ch’io giungessi alla bella cagione dell’ardor mio. Ma perché Prudenza non s’attristi, perché non mi tenga amante di fede indegno, ne gli abiti miei da lei fo ritorno, per farla a parte del fiero accidente, che sturbatore, che involatore, che rapitore fu d’ogni nostra gioia. Ma s’io non erro, ecco de’ raggi suoi tutta luminosa quella finestra, certo questi sono i raggi messaggieri dell’arrivo del mio bel sole. Ecco ch’io non mento. Sù, sù, fatto aquila amorosa, vagheggia del tuo sole que’ raggi che a faccia a faccia abbaglierebbono lo stesso sole.
- Prudenza.
- O caro Orazio, o cara vita mia, se la mia morte ella forse non mi procura, mi levi da tante miserie.
- Orazio.
- E pur piange, e che vuol dire? Deh, manchino le lagrime a gli occhi suoi, se brama che non abbondino i tormenti al mio cuore. Tutte sono lagrime mie quelle che da duo begli occhi, anzi quelle che da due luminose pleiadi ora scendere i’ veggio in così acerba pioggia. Questi, questi miei lumi sono i duo lagrimosi fonti che formano que’ duo rivi, ch’ora le innondano il seno. Rasciughinsi, rasciughinsi le lagrime, pria che in mar di pianto seco i’ mi sommerga.
- Prudenza.
- Ben che, amato mio signore, ne’ miei tormenti avanzino l’angoscie al cuore, e manchino le parole alla lingua per far nota la cagione de’ miei affanni, pur legge facendo a me medesma, lo dirò. Sappia che ’l mio crudelissimo padre, il Mida novello, per la sete, per la fame, che ha dell’oro, non solo ricevette in casa quel principe, ma di più violentemente ha fatto ch’io le abbia data la fede di consorte.
- Orazio.
- O che ascolto! O maledetta avarizia d’ogni mio danno fieri cagionatrice. Ed è possibile, o avarissimo padre, che per arricchire te stesso, tu abbia ne’ satanici tuoi fatti destinato d’impoverire la tua figlia di libertà? di quella libertà onde benigno Cielo halla arricchita? A che procuri d’accumular tesori, se all’avaro tanto manca quello che ha, quanto quello che non possede? O avarizia, fonte d’ogni crudeltà e d’ogni miseria, perché non sono io Giove, che stillandomi indorata pioggia potessi al presente saziar le tue voglie instabili e acquistar con quello voi, mio lucidissimo tesoro? Perché non sono io il famosissimo Gange, o la celebrata fonte d’Africa, acciò che rivolgendo fra le onde mie vastissime cumuli d’arene d’oro, io potessi con simile prezzo acquistar quello che alla sola fede sarebbe dovuto?
- Prudenza.
- Pur troppo è vero, mio bene, pur troppo è possibile che quest’oro maledetto con la sua pallidezza abbia accicato gli occhi di mio padre, che non sapendo che tener si dee più caro i tesori della virtù, che tutti i tesori del mondo, per apprezzar l’oro disprezza lei, ch’è vero erario d’ogni virtù maggiore.
- Orazio.
- Il nostro vicino bisogno, amorosa mia signora, ricerca che più si pensi modo di far noi contenti, che con parole dilacerare la cieca avarizia del suo padre crudele. Qui, mia signora, con una fuga generosa bisogna sottrarsi dalla tirannide del padre e del principe.
- Prudenza.
- Sì sì , che ciò far si debbe, sì ch’è dovuto fuggir dal padre per seguire il consorte. Ma se (oh non lo volesse il Cielo) venisse questo principe a casa, né volendo il tempo della notte aspettare mi violentasse alle sue voglie? Creda pure che prima che un torto a lei, che con un ferro finir la vita io vorrei.
- Orazio.
- O qui premere bisogna, poiché fa di mestieri pensare e ripensare ben bene quelle cose, che fondate sono in evidente pericolo. O Amore, soccorso, aìta cortesissimo inamorato nume.
- Prudenza.
- O Cielo aìta.
- Orazio.
- Deh, s’egli è vero che tu, o potente nume, assotigli l’ingegno a’ tuoi seguaci, pregoti che tu a questi amanti concedi modo di fargli felici, e che tu, benigna madre di lui, o Venere potente, per quelle dolci faci che del bellicoso Marte t’accesero, ti prego che da questo inestricabile laberinto felici usciamo. Porgi tu, novella Arianna, il filo a questo nuovo Teseo, acciò, co ’l favor tuo, nulla tema de gl’intricati sentieri, e possa atterrare insieme il crudo Minotauro del padre di Prudenza mia. Ma ahimè, che le angustie del tempo e la grandezza del pericolo non mi lasciano sovenire rimedio opportuno.
- Prudenza.
- Deh, imponga omai, ché in così fatto indugio mi struggo.
- Orazio.
- Come viene costui (dato che fosse di tal rabbia ripieno), vadalo co ’l maturo giudizio suo affrenando con piacevoli vezzi, con parole cortesi, pregandolo che sino alla sera non voglia molestare il castissimo animo suo; ché, ciò facendo credo che non potrà tanto aver munito il cuore di discortesia, che a gli assalti cortesissimi suoi non rimanga abbattuto. E s’egli pur nell’esser più pregato, più ingrato si dimostrasse, finga qualche faccenda; e, per la via del giardino suo, a qualche scampo sicuro volga il passo, ch’io avisato poi verrò a trar lei di guai e a far me contento.
- Prudenza.
- Viva pur certo, amatissimo mio bene, che più mi lascia consolata per vedermi (mercè de’ suoi maturi pensieri) lontano dalla rabbia amorosa di costui, che lieta allora non si rimira tortorella che partirsi vega dal fianco grifagno animale, che bramoso fosse di darle la morte. Addio, mio bene.
- Orazio.
- Vada felice, mia vita. Sferza, sferza pur tu, Apollo, i tuoi destrieri, acciò che venga quest’ora tanto bramata, che ben io pronto qui d’intorno al suo tempo troverommi, per non mi mostrare a così lucido sole talpa troppo cieca.