Lo schiavetto/Atto primo/Scena VIII
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Giovan Battista Andreini - Lo schiavetto (1612)
Atto primo - Scena VIII
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Prudenza, Nottola, Alberto, Rampino, Succiola, Grillo, paggio, paggi
- Prudenza.
- E tanto, signor padre, ella sta a tornarsene a casa? Sa pure ch’io sono tanto paurosa che niente più!
- Succiola.
- Poveruccia! Come vede un uomo, ella debbe aver paura che subito le cada addosso, non è così?
- Prudenza.
- Sì, per certo, ma che fa con questi scrocchi? Entriamo in casa, ch’è vergogna. Uh? Che gentaglia!
- Alberto.
- Cheta, cheta figliola.
- Prudenza.
- Che credete (dico a voi) ch’oggi sia il dì de’ morti?
- Alberto.
- Cheta dico, in buon punto, quegli è un prencipe grandissimo.
- Prudenza.
- O poveri prìncipi, a che passo sono condotti, passo di compassione invero.
- Nottola.
- Meser Alberto?
- Alberto.
- Vengo signore, adesso, adesso. Questi è principe, e hollo tolto a star in casa nostra.
- Prudenza.
- In casa nostra? Signor padre, signor padre, si vuol far rider dietro, eh? che umore è questo suo?
- Scrocconacci, andate alla mal’ora, m’intendete? con chi parlo?
- Alberto.
- Taci, taci, taci, ohimè tu vuoi che m’amazzi al sicuro.
- Succiola.
- O poveretta voi! Scrocchi a i prìncipi, eh? O cicaloncella de’ cianciarolucci.
- Prudenza.
- Eh? Di grazia, tendete a i fatti vostri, chiacchiarone sboccato.
- Nottola.
- Giovinetta, vi scusiamo. Ma, affé da principe sconosciuto, che, se non foste così bella, vorrei che vi ricordaste di me.
- Prudenza.
- Do’ s’io mi cavo!
- Alberto.
- Che fai? Chiudi quella bocca, o miserissima te.
- Succiola.
- Uh? Scimunitaccia.
- Nottola.
- Alberto, chi è questa giovinaccia, anzi questa Marfisa bizarra?
- Alberto.
- È mia figlia, signore, e serva sua.
- Nottola.
- Vostra figlia? Oh! Mi accosterò.
- Alberto.
- Via, moviti, vallo ad incontrare, va’ a farle inchino.
- Prudenza.
- O questo non farò io giamai, levimisi più tosto la vita.
- Nottola.
- Lasciate fare a me, ché tocca sempre al cavaliere a riverir la dama. Signora, vi fo riverenza e di più vi bacio.
- Prudenza.
- Signor padre, e che dite? e che umore è questo? Affé, affé, che mi farete sdegnare da dovero.
- Alberto.
- È umor di principe, cara figliola; che vuoi tu farci ?
- Prudenza.
- Vi dico che andate a fare i fatti vostri. E tu in particolare, o gobbaccio poltrone.
- Nottola.
- Signor Alberto, io sono di razza di francese, e ho il costume nell’ossa di baciar le femmine. Or pigliate questa catenuccia di diamanti, con questo gioiello di settanta libre, gettateglielo al collo.
- Prudenza.
- Oh come traluce, caro signor padre, com’è bello, o come allegra sono!
- Signore, con le ginocchia quasi a terra le chiedo perdono d’ogni atto, d’ogni parola, che offeso l’avesse.
- Nottola.
- Sia perdonato. Maggiordomo, andate per tutto il nostro tesoro, e di quei primi argenti, ch’io vi mostrai, se ne faccia dono a questa signora.
- Rampino.
- Succiola, e voi, tutti venite meco.
- Succiola.
- Andatevene, ch’oggi mai per cotesta liberalità i’ son fatta balorda e gli occhi io straluno.
- Nottola.
- Signor Alberto, quanto ora far vogliamo è poco rispetto quello che pur far vorremo. E perché sappiate il tutto: le nemicizie, ch’io ho con Francia e con Ispagna, mi fanno andare così, godendomi di visitare i luoghi de’ nemici, per saper poi che esercito, che alteglierìa dovrò movere contro queste città per isfondamentarle. Voglio però mutarmi d’abiti; ditemi, sonovi Ebrei in questa città di Pesaro?
- Alberto.
- Molti ve ne sono, signore.
- Nottola.
- Sì? Or fate che venghino cinquanta o sessanta Ebrei, con nobilissimi e superbissimi panni per me e per la mia famiglia: in somma robba da spendere per ora due centinara di migliaia di doble.
- Prudenza.
- Signor padre, che sento?
- Rampino.
- Signore, ecco qua il tesoro, in mille fardelli vilissimi sepolto, ed ecco l’argenteria, che nel primo fardello che si sciolse noi trovammo.
- Nottola.
- Mettete colà a’ piedi suoi tutto quello argento, o così. Signora Prudenza, tutto quello argento, che raccogliendo da terra potrete portare in casa, tutto è vostro, tutto io vi dono.
- Alberto.
- Figlia, ingégnati di tôrlo tutto. Fatti larga d’avanti.
- Prudenza.
- O come pesa, o quante belle cose! Ohimè, che non posso più tenere.
- Nottola.
- Dite, signora, non vi duole in questa occasione di non aver cento braccia, per non lasciare quel rimanente d’argentaria in terra?
- Prudenza.
- Certo sì, signore.
- Alberto.
- Oh come averei caro, ch’ella fosse un Gige, un Briareo.
- Nottola.
- Orsù, voi Alberto, in vece sua, pigliate il rimanente, ch’io ve lo dono.
- Succiola.
- Corpo di sanpuccio, o cotesto è bene un caso da rescitare in iscena, per fare istuppire la brigata.
- Alberto.
- Taccia pure, signore, chi più al mondo ebbe di generoso il nome, poi che pareggiare non si può la nobiltà del vostro sangue, né la liberalità della vostra mano.
- Nottola.
- Bene bene, alfine, voi nasceste per esser solo di me lodatore e io per esser solo di voi guiderdonatore. Seguitatemi, paggi, caminate voi altri! Signori, datemi la mano in mano, ch’io come se ballassi un passo e mezo movo il passo.
- Prudenza.
- Ecco la mano, e con la mano la fede d’esserle umilissima e fida serva.
- Nottola.
- O come questo atto di umiliazione piace a noi altri prìncipi!
- Avete la grazia nostra, entriamo.
- Alberto.
- O me felice.
- Succiola.
- Or che dire? Vi si potrà oggi più parlare? In somma Fortuna e’ dormi. Sù, bricconcelli, entrate tutti meco.
- Grillo.
- Eccoci, eccoci, entrate.
- Cicala.
- Entrate pur, che vi seguitiamo, io che Cicala sono per assordarvi, e questo ch’è Grillo, per trovare il buco della cucina.