Lo schiavetto/Atto primo/Scena VIII

Atto primo - Scena VIII

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Atto primo - Scena VII Atto secondo


Prudenza, Nottola, Alberto, Rampino, Succiola, Grillo, paggio, paggi

Prudenza.
E tanto, signor padre, ella sta a tornarsene a casa? Sa pure ch’io sono tanto paurosa che niente più!
Succiola.
Poveruccia! Come vede un uomo, ella debbe aver paura che subito le cada addosso, non è così?
Prudenza.
Sì, per certo, ma che fa con questi scrocchi? Entriamo in casa, ch’è vergogna. Uh? Che gentaglia!
Alberto.
Cheta, cheta figliola.
Prudenza.
Che credete (dico a voi) ch’oggi sia il dì de’ morti?
Alberto.
Cheta dico, in buon punto, quegli è un prencipe grandissimo.
Prudenza.
O poveri prìncipi, a che passo sono condotti, passo di compassione invero.
Nottola.
Meser Alberto?
Alberto.
Vengo signore, adesso, adesso. Questi è principe, e hollo tolto a star in casa nostra.
Prudenza.
In casa nostra? Signor padre, signor padre, si vuol far rider dietro, eh? che umore è questo suo?
Scrocconacci, andate alla mal’ora, m’intendete? con chi parlo?
Alberto.
Taci, taci, taci, ohimè tu vuoi che m’amazzi al sicuro.
Succiola.
O poveretta voi! Scrocchi a i prìncipi, eh? O cicaloncella de’ cianciarolucci.
Prudenza.
Eh? Di grazia, tendete a i fatti vostri, chiacchiarone sboccato.
Nottola.
Giovinetta, vi scusiamo. Ma, affé da principe sconosciuto, che, se non foste così bella, vorrei che vi ricordaste di me.
Prudenza.
Do’ s’io mi cavo!
Alberto.
Che fai? Chiudi quella bocca, o miserissima te.
Succiola.
Uh? Scimunitaccia.
Nottola.
Alberto, chi è questa giovinaccia, anzi questa Marfisa bizarra?
Alberto.
È mia figlia, signore, e serva sua.
Nottola.
Vostra figlia? Oh! Mi accosterò.
Alberto.
Via, moviti, vallo ad incontrare, va’ a farle inchino.
Prudenza.
O questo non farò io giamai, levimisi più tosto la vita.
Nottola.
Lasciate fare a me, ché tocca sempre al cavaliere a riverir la dama. Signora, vi fo riverenza e di più vi bacio.
Prudenza.
Signor padre, e che dite? e che umore è questo? Affé, affé, che mi farete sdegnare da dovero.
Alberto.
È umor di principe, cara figliola; che vuoi tu farci ?
Prudenza.
Vi dico che andate a fare i fatti vostri. E tu in particolare, o gobbaccio poltrone.
Nottola.
Signor Alberto, io sono di razza di francese, e ho il costume nell’ossa di baciar le femmine. Or pigliate questa catenuccia di diamanti, con questo gioiello di settanta libre, gettateglielo al collo.
Prudenza.
Oh come traluce, caro signor padre, com’è bello, o come allegra sono!
Signore, con le ginocchia quasi a terra le chiedo perdono d’ogni atto, d’ogni parola, che offeso l’avesse.
Nottola.
Sia perdonato. Maggiordomo, andate per tutto il nostro tesoro, e di quei primi argenti, ch’io vi mostrai, se ne faccia dono a questa signora.
Rampino.
Succiola, e voi, tutti venite meco.
Succiola.
Andatevene, ch’oggi mai per cotesta liberalità i’ son fatta balorda e gli occhi io straluno.
Nottola.
Signor Alberto, quanto ora far vogliamo è poco rispetto quello che pur far vorremo. E perché sappiate il tutto: le nemicizie, ch’io ho con Francia e con Ispagna, mi fanno andare così, godendomi di visitare i luoghi de’ nemici, per saper poi che esercito, che alteglierìa dovrò movere contro queste città per isfondamentarle. Voglio però mutarmi d’abiti; ditemi, sonovi Ebrei in questa città di Pesaro?
Alberto.
Molti ve ne sono, signore.
Nottola.
Sì? Or fate che venghino cinquanta o sessanta Ebrei, con nobilissimi e superbissimi panni per me e per la mia famiglia: in somma robba da spendere per ora due centinara di migliaia di doble.
Prudenza.
Signor padre, che sento?
Rampino.
Signore, ecco qua il tesoro, in mille fardelli vilissimi sepolto, ed ecco l’argenteria, che nel primo fardello che si sciolse noi trovammo.
Nottola.
Mettete colà a’ piedi suoi tutto quello argento, o così. Signora Prudenza, tutto quello argento, che raccogliendo da terra potrete portare in casa, tutto è vostro, tutto io vi dono.
Alberto.
Figlia, ingégnati di tôrlo tutto. Fatti larga d’avanti.
Prudenza.
O come pesa, o quante belle cose! Ohimè, che non posso più tenere.
Nottola.
Dite, signora, non vi duole in questa occasione di non aver cento braccia, per non lasciare quel rimanente d’argentaria in terra?
Prudenza.
Certo sì, signore.
Alberto.
Oh come averei caro, ch’ella fosse un Gige, un Briareo.
Nottola.
Orsù, voi Alberto, in vece sua, pigliate il rimanente, ch’io ve lo dono.
Succiola.
Corpo di sanpuccio, o cotesto è bene un caso da rescitare in iscena, per fare istuppire la brigata.
Alberto.
Taccia pure, signore, chi più al mondo ebbe di generoso il nome, poi che pareggiare non si può la nobiltà del vostro sangue, né la liberalità della vostra mano.
Nottola.
Bene bene, alfine, voi nasceste per esser solo di me lodatore e io per esser solo di voi guiderdonatore. Seguitatemi, paggi, caminate voi altri! Signori, datemi la mano in mano, ch’io come se ballassi un passo e mezo movo il passo.
Prudenza.
Ecco la mano, e con la mano la fede d’esserle umilissima e fida serva.
Nottola.
O come questo atto di umiliazione piace a noi altri prìncipi!
Avete la grazia nostra, entriamo.
Alberto.
O me felice.
Succiola.
Or che dire? Vi si potrà oggi più parlare? In somma Fortuna e’ dormi. Sù, bricconcelli, entrate tutti meco.
Grillo.
Eccoci, eccoci, entrate.
Cicala.
Entrate pur, che vi seguitiamo, io che Cicala sono per assordarvi, e questo ch’è Grillo, per trovare il buco della cucina.