Lo schiavetto/Atto primo/Scena VI
Questo testo è completo. |
Giovan Battista Andreini - Lo schiavetto (1612)
Atto primo - Scena VI
◄ | Atto primo - Scena V | Atto primo - Scena VII | ► |
Rampino, Alberto, Succiola
- Rampino.
- Madonna Succiola? Affé che avete mandata una bellissima robba.
- Succiola.
- Fo riverenza a vostra signoria, signor maggior domo. Sono istata, vedete, per tutto, per aver del buono.
- Alberto.
- Ah Succiola, chi è colui al quale hai fatto così profonda inchinata?
- Succiola.
- E non mi state a stranare! Chi è cotesto, eh? È ’l maggior domo, il più caro, che abbia il signore.
- Alberto.
- Or sì che bisogna ch’io rida.
- Succiola.
- O vedi, che testè gli è tocco la fregola del ridere! Che domine, non vi chetate?
- Alberto.
- Ch’io mi cheti eh? Bisogna veder se si può, eh, eh, eh.
- Succiola.
- Domine, acchetisi cotesto arrovellato.
- Rampino.
- O madonna Succiola, e di che ride quel vecchio fratello di Caronte? Ride forse perché vede in panni vili persona nobile? Lascia un poco ch’io li parli. O grimo, che canzonamento era quello che vostr’odene faceva con la taschiera?
- Alberto.
- Non posso più, eh, eh, eh, ohimè, mi piscio addosso.
- Rampino.
- Che tanto ridere? O Succiola, è un guasco costui, sì o no? Perché mi vien voglia di darli un pugno ne i merli, vedi!
- Succiola.
- Gettate via questa lingua, signor maggior domo, perch’io non l’intendo punto, punto. E che forse m’uccellate voi ?
- Rampino.
- Dico s’è gentiluomo.
- Succiola.
- Così tutti, e ’l principale di cotesti terrazzani pesaresi.
- Rampino.
- Sì? O lascia fare a me. Signore, ben che toccar dovrebbe al gentiluomo della città sempre ad essere il primo nell’usar termini cortesi verso il gentiluomo forestiero, nondimeno, il primo voglio essere io, e con ragione, perché veramente il vedermi in questi panni non ben corrisponde all’udir ch’io sia gentiluomo.
- Alberto.
- Certo che all’abito io non l’aveva per tale. Ah? Succiola, non posso tenermi dalle risa! Scoppio, scoppio.
- Succiola.
- Possiate voi scoppiare da dovero! O che spiritato.
- Alberto.
- Ma in che linguaggio mi parlò prima vo’ signorìa?
- Rampino.
- In piccardo.
- Alberto.
- Stia pur nel suo paese, perché mentre favellerà in questo linguaggio non sarà intesa al sicuro in queste parti.
- Rampino.
- Mio signore, ho molte lingue, ond’ha che s’io sono in Francia, parlo in lingua francesca, se in Ispagna in ispagnola, e in Isvevia in tedesca. In somma se in Argo mi trovo sono argolico, se in Candia candito; se in Barberia punico sono; se in Pisaro pisaureo sembro; e se in Piccardia tutto piccardo mi si vede.
- Alberto.
- In fine quel parlare piccardo è ’l più goloso di tutti.
- Rampino.
- Ma che vorrebbe, vostra signorìa, forse qualche grazia dal nostro prencipe?
- Alberto.
- Succiola, sai tu che grazia vorrei da questo suo prencipe? che comandasse a questo suo maggiordomo che quando parla meco tanto non mi s’avicinasse, poich’io temo che tutto m’impidocchi.
- Rampino.
- Sù sù, chiedete! Non vi consigliate tanto con Succiola. Succiola ?
- Succiola.
- Signore.
- Rampino.
- Non vuol già cosa alcuna, eh?
- Succiola.
- Maisì. Ditegnelo. O vo’ siete il bello scotennato, non si sta così a mano spenzolate. Vo’ mi fate infantastichire se dir ve la debbo. Vedete, ancor vi pensa! O cotestui è ’l bel buaccio, non vo’ dir briccone. Lo vo’ dir io. Signore, e’ vi vorebbe dare per albergo il suo palazzo.
- Alberto.
- Eh? Ch’io scherzava seco illustrissimo e stracciosissimo, dico e straillustrissimo, mio signore.
- Rampino.
- Or sù, vedo ben io che quel gentiluomo sta in dubbio della mia nobiltà, e vi è più di quella dell’illustrissimo ed eccellentissimo mio prencipe. Dite, se siete uomo d’onore non m’avete voi per un guidone? Ditelo, che non m’addiro, ditelo, che l’ho per favore.
- Alberto.
- Ma non voglio giamai per bugie andare a casa del diavolo. È pur troppo il vero, e ogni losco, mirandovi, tale vi stimerebbe.
- Rampino.
- Ancora de gli altri sono di questo parere, ma aspettate.
- Succiola.
- Che dite vo’ voi, non siete ora un uccellaccio?