Lo schiavetto/Atto primo/Scena VI

Atto primo - Scena VI

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Rampino, Alberto, Succiola

Rampino.
Madonna Succiola? Affé che avete mandata una bellissima robba.
Succiola.
Fo riverenza a vostra signoria, signor maggior domo. Sono istata, vedete, per tutto, per aver del buono.
Alberto.
Ah Succiola, chi è colui al quale hai fatto così profonda inchinata?
Succiola.
E non mi state a stranare! Chi è cotesto, eh? È ’l maggior domo, il più caro, che abbia il signore.
Alberto.
Or sì che bisogna ch’io rida.
Succiola.
O vedi, che testè gli è tocco la fregola del ridere! Che domine, non vi chetate?
Alberto.
Ch’io mi cheti eh? Bisogna veder se si può, eh, eh, eh.
Succiola.
Domine, acchetisi cotesto arrovellato.
Rampino.
O madonna Succiola, e di che ride quel vecchio fratello di Caronte? Ride forse perché vede in panni vili persona nobile? Lascia un poco ch’io li parli. O grimo, che canzonamento era quello che vostr’odene faceva con la taschiera?
Alberto.
Non posso più, eh, eh, eh, ohimè, mi piscio addosso.
Rampino.
Che tanto ridere? O Succiola, è un guasco costui, sì o no? Perché mi vien voglia di darli un pugno ne i merli, vedi!
Succiola.
Gettate via questa lingua, signor maggior domo, perch’io non l’intendo punto, punto. E che forse m’uccellate voi ?
Rampino.
Dico s’è gentiluomo.
Succiola.
Così tutti, e ’l principale di cotesti terrazzani pesaresi.
Rampino.
Sì? O lascia fare a me. Signore, ben che toccar dovrebbe al gentiluomo della città sempre ad essere il primo nell’usar termini cortesi verso il gentiluomo forestiero, nondimeno, il primo voglio essere io, e con ragione, perché veramente il vedermi in questi panni non ben corrisponde all’udir ch’io sia gentiluomo.
Alberto.
Certo che all’abito io non l’aveva per tale. Ah? Succiola, non posso tenermi dalle risa! Scoppio, scoppio.
Succiola.
Possiate voi scoppiare da dovero! O che spiritato.
Alberto.
Ma in che linguaggio mi parlò prima vo’ signorìa?
Rampino.
In piccardo.
Alberto.
Stia pur nel suo paese, perché mentre favellerà in questo linguaggio non sarà intesa al sicuro in queste parti.
Rampino.
Mio signore, ho molte lingue, ond’ha che s’io sono in Francia, parlo in lingua francesca, se in Ispagna in ispagnola, e in Isvevia in tedesca. In somma se in Argo mi trovo sono argolico, se in Candia candito; se in Barberia punico sono; se in Pisaro pisaureo sembro; e se in Piccardia tutto piccardo mi si vede.
Alberto.
In fine quel parlare piccardo è ’l più goloso di tutti.
Rampino.
Ma che vorrebbe, vostra signorìa, forse qualche grazia dal nostro prencipe?
Alberto.
Succiola, sai tu che grazia vorrei da questo suo prencipe? che comandasse a questo suo maggiordomo che quando parla meco tanto non mi s’avicinasse, poich’io temo che tutto m’impidocchi.
Rampino.
Sù sù, chiedete! Non vi consigliate tanto con Succiola. Succiola ?
Succiola.
Signore.
Rampino.
Non vuol già cosa alcuna, eh?
Succiola.
Maisì. Ditegnelo. O vo’ siete il bello scotennato, non si sta così a mano spenzolate. Vo’ mi fate infantastichire se dir ve la debbo. Vedete, ancor vi pensa! O cotestui è ’l bel buaccio, non vo’ dir briccone. Lo vo’ dir io. Signore, e’ vi vorebbe dare per albergo il suo palazzo.
Alberto.
Eh? Ch’io scherzava seco illustrissimo e stracciosissimo, dico e straillustrissimo, mio signore.
Rampino.
Or sù, vedo ben io che quel gentiluomo sta in dubbio della mia nobiltà, e vi è più di quella dell’illustrissimo ed eccellentissimo mio prencipe. Dite, se siete uomo d’onore non m’avete voi per un guidone? Ditelo, che non m’addiro, ditelo, che l’ho per favore.
Alberto.
Ma non voglio giamai per bugie andare a casa del diavolo. È pur troppo il vero, e ogni losco, mirandovi, tale vi stimerebbe.
Rampino.
Ancora de gli altri sono di questo parere, ma aspettate.
Succiola.
Che dite vo’ voi, non siete ora un uccellaccio?