Lo schiavetto/Atto primo/Scena I
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Giovan Battista Andreini - Lo schiavetto (1612)
Atto primo - Scena I
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Nottola, Rampino, e molti scrocchi malamente vestiti
- Rampino.
- Vi dico, messer Nottola, che l’andar giravoltando tutto il mondo, senza un guadagno alcuno, non fa per me, né per questi tanti poveri uomini, che avete con voi. E per dirvela a lettera di scatole: voi sapete, che la mia casa era di pegolotto e ch’io m’andava buscando la vita, e ch’ogni sera io m’andava riducendo a i cagnardi, dove con le sfoiose spillava, ora perdendo, ora guadagnando. Vedete, io non ho più monacchie, le tiranti sono in pezzi, il pietro l’ho sbasito, il fongo è tutto mangiato da i taruoli, la lima è negra e piena di gualdi, sì che a peggio non posso venire.
- Nottola.
- Or sù, che vuoi concludere, Rampino?
- Rampino.
- Che voglio concludere? Voglio dire che almeno, quando io non era con voi, tra la calca, e tra lo spillare, io mi buscava il mio occhio di civetta il giorno, e ora c’ho trovato voi (che dite mi volete far ricco) ho lasciato ogni utile e sono divenuto il più povero scroccone del mondo.
- Nottola.
- Mo, che ’l Rabbino ti scarpisca dal cofano la perpetua, e in ogni azione ti sia contrario santalto! Abbi pacienza, partiamo da questa città di Pesaro, e poi quanto ho promesso, a te e a tutti voi, manterrò di sicuro.
- Rampino.
- Promitto promittis sta per inzavagliare, da tutti i fanciulli ho udito dire quando, dalle scuole tornando, si disciplinano con le saccoccie piene di libri senza coperte. In nome di tutti costoro io dico, adunque, che non vogliono passar Pesaro. E di più, ecco, vi danno i fardelli, che tanto addosso gli avete fatto portare, ogni sera volendoli appresso di voi, come se fossero stati groppi di gemme. Eccoli qua, gettateli per terra, o così.
- Nottola.
- Fermatevi, la canaglia! Che modo di fare è questo?
- Rampino.
- Sì, di grazia, fate piano, che qualche gualdo non si rompa il guindo. Un manigoldo se’ tu, che n’hai tutti trappolati, facendo ad ogn’uno lasciare il suo camino dicendo: «Vien meco, ch’io ti farò ricco!». L’uomo, non sapendo altro, s’è fidato ed è venuto e ancora molto teco più averebbe trascorso, ma il sentir dir: «Venite allegramente, ché come siamo a Roma mi voglio fermare», poi, a Roma giunti, dire: «Andiamo, ché vi prometto, come siamo a Viterbo, che colà riposarmi intendo», come siamo a Viterbo dire: «Andiamo, ché dadovero come siamo a Siena si rinfrancheremo del viaggio» e così menarne a Pesaro, voler ancora più oltre passare. Insomma, alcun di noi non la vuole intendere. Ed io, che so che la serpentina mi sta meglio ne i merli che a quest’altri, fecimi cura il canzonare.
- Nottola.
- Do’, furfante vituperoso, che non so come il manico non t’abbia ogimai gettata al collo una margherita. Va’ alle forche, tu e gli altri, ché più non vi voglio meco, come non mi volete ubbidire.
- Rampino.
- Carne da boia se’ tu, traditore! Addosso, compagni, con le pugna!
- Nottola.
- Ohimè, ohimè! non più! perdono! Amici, fratelli, signori, perdono!
- Rampino.
- Che perdono? ma che suono di scudi?
- Nottola.
- Che scudi? Guardate per terra! Udite il suono di questi altri, che pur dal seno levandomi, in terra i’ getto? che vi pare?
- Rampino.
- Ohimè, che vuol dir questo?
- Nottola.
- Raccoglieteli pur tutti. Tu raccogli quelli, tu quelli, tu quelli. Voi altri fate presto.
- Rampino.
- O quanti scudi! Voglia il Cielo, che non abbiamo fatto qualche errore.
- Nottola.
- Or sù vedete, furfanti, quanto avete me caricato di pugna, tanto ho voluto caricar voi altri d’oro. Ora andate alle forche, canaglia, ché bene solamente siete degni d’abitare i cagnardi, le bettole, e di morire su la paglia, cibo di piattole e di gualdi! Non meritavate di stare appresso un principe come io sono; ma giuro per la nobiltà del mio sangue, che da cinquecento re di Spagna discende, ch’io ve ne farò pentire. A me? a me? a me pugna, figli di puttane? cospettaccio, puttanaccia, rinego il diavolo, che me la pagherete!
- Rampino.
- O come passeggia sbattendo il capo e sbuffando! Figlioli, inginocchiamoci.
- Nottola.
- Che saprete dire?
- Rampino.
- Signore, dirò solo, a mio nome e a nome di tutti questi sbigottiti e impalliditi servi suoi, che non lo conoscendo errammo, ma che tante lagrime spargeremo, quante pugna abbiamo a vostra signorìa date.
- Nottola.
- O bella ricompensa, una lagrima per un pugno. Siete voi pentiti?
- Rampino.
- Dico per tutti di sì, mio signore.
- Nottola.
- Sì? Piangete tutti, e tutti forte! più forte! più ancora! Or sù, fermatevi! Avete voi caro di rallegrarmi?
- Rampino.
- Come, signore, altro non bramano questi sconsolati!
- Nottola.
- Sù, dunque, ridete tutti! ancòra! ancòra! sù, presto, insieme tutti rizzatevi! cantate e ballate! sù, presto.
- Rampino.
- Adesso signore.
- Chi t’ha fatto quelle scarpette
- che ti stan sì ben
- che ti stan sì ben
- Gerometta che ti stan sì ben.
- Nottola.
- Fermatevi, non più! Vien qua, Rampino, voglio tutti or ora mutar di camisia. Taglia questo fardello.
- Rampino.
- Ecco appunto il cortello, co ’l quale vado a ciavatte. Ecco ch’io taglio.
- Nottola.
- Guarda che v’è dentro.
- Rampino.
- Oh che belle camisie! oh come sono sottili, oh che belle cose, oh come candide!
- Nottola.
- Portamele qua. To’ tu! tu, ancor tu! vien qua tu! tu fatti innanzi! tu prendi questa! tu questa, tu questa, tu pure questa, questa e così ancor tu! Tu, benché picciolo, to’ questa, ci farai duo fazzoletti ancòra! e così ancor tu di quest’altra.
- Rampino.
- O che caro signore.
- Nottola.
- Figlioli, io vi perdono, poiché noi altri principi dobbiamo più perdonare e donare, che vendicare e pelare. E benché ch’io sia guercio, e gobbo, sappiate che, quanto la Natura ne fa più brutti nel corpo, tanto più il Cielo ne fa belli nel cuore. Sì che vi perdono, e sappiate che questi fardelli, che voi stimavate nulla, sono pieni di tesoro; e che sia vero, guardatene uno e guardateli tutti. Mirate, che dite? il folgorar dell’oro e delle gemme non v’abbagliano? non vi par di mirare (disceso in terra) il sole?
- Rampino.
- O quant’oro, o quante gemme, o quanto splendore.
- Nottola.
- Nascondete, nascondete! Sù, sù, inviluppate e legate alla peggio. Or sapete voi perché v’ho detto di città in città fermarmi e giamai non mi son fermato? Perché sono tutte città di miei nemici e per passar sicuro, accioché i postiglioni né per le osterie, né per le poste mi potessero riconoscere, sono andato in questa maniera, né ancora voleva fermarmi qui in Pesaro, ma mi contento per amor vostro e di quattro pugna datemi.
- Rampino.
- Se non gli agrada il partire, mio signore, non parta, poi che noi tutti pendiamo dalle voglie sue, dal solo suo imporre con lo sguardo.
- Nottola.
- Or sù, per segno di pace ogn’uno venga a baciar questa mano, e m’inchini per suo principe.
- Rampino.
- Io sarò il primo, o generosissimo signore.
- Scrocco.
- E io il secondo.
- Scrocco.
- E io il terzo.
- Scrocco.
- E io il quarto.
- Scrocco.
- E io il quinto.
- Scrocco.
- E io il sesto.
- Scrocco.
- E io il settimo.
- Scrocco.
- E io l’ottavo.
- Scrocco.
- E io il nono.
- Scrocco.
- E io il decimo.
- Nottola.
- Or poi, che avete onorato il vostro principe Nottola, battete a questa osteria, ché colà dentro dispenserò i gradi conforme il valore, e sapere, di voi altri, e della nostra generositade. Ma chi canta nell’osteria? Buon augurio.