Lettere (Sarpi)/Vol. I/107

CVII. — Al medesimo

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CVII. — A Francesco Priuli.1


Certo, che io non posso metter termine al dolermi della morte del signor Alessandro Malipiero, di santa memoria; poichè la Repubblica ha perduto un gentiluomo che non aveva altro fine, salvo che il pubblico servizio, e, senza aver magistrato, faceva più con le parole e con l’esempio, che molti insieme degli occupati in cariche grandissime. Egli ha patito, per pochi giorni ch’è stato nel letto, una così ardente infermità, ch’è rara in giovani nel mese di luglio; ed è passato di vita con solo pensiero dell’anima sua e della felicità pubblica. Quanto qui si sminuisce il numero dei buoni, tanto più conviene restringerci con quelli che restano.

Con questo corriero ho ricevuto gli esemplari [p. 347 modifica]della Confessione Boema, e degli Editti per la libertà di religione di Boemia e Slesia; li quali mi sono arrivati gratissimi, e resto obbligatissimo a V.E. per il favore. Ho già trovato chi me l’interpetra in italiano.

Ho letto il libro del Bellarmino da capo a piedi: cosa assai dozzinale. Mi pare che quel prelato, a misura che manca per la vecchiezza di forze corporali, manchi ancora del vigor dell’animo. Sta più sopra le cose della religione, che sopra altro; ma però non porta, se non autorità de’ Padri, ed alle volte assai generali, ed alcune ancora che fa poco per la sua intenzione: tratta con affettata modestia, la quale è più pungente d’una aperta arroganza, perchè nega apertamente molte cose dette dal re, non di opinione ma di fatto suo proprio; come che non abbia fatto morir alcuno per causa solo di religione; che S.M. abbia trattato con lui cose ch’egli afferma: dice che il processo fatto contro Garnetto gesuita2 è falso; e di tutte queste cose non porta altra confermazione, se non che persone di fede a lui han detto il contrario. Passa ben fuori della religione a mostrare che Inghilterra ed Ibernia sono feudo della Chiesa romana, e però essi felloni. Difende la dignità de’ cardinali, con dire che sono o vescovi preti o diaconi; e però lor devono esser concesse quelle prerogative che l’antichità ha concesso a questi tre ordini. E qui porta tutti gli [p. 348 modifica]eccessi o iperboli che sono in tutti gli scrittori vecchi, senza avvertire che le ragioni sue concludono troppo, e riprendono loro stessi, che non dànno quegli onori a tutti i vescovi, preti e diaconi. Certo è un discorso assai ridicolo. L’ambasciatore inglese, però, ancora non dice alcuna cosa; ma intendo che sopra modo gli pesa quella parte dove vuole Inghilterra ed Ibernia per feudi. Si pensa assai quello che si doverà fare qui di tal libro, poichè si proibì (sebben con maniera assai respettiva) quello del re. Io veggo che Dio favorisce la Repubblica, perchè le manda occasioni che la sforzano a riconoscere la sua autorità. Ecco avremo un esempio, che ci sarà proibito un libro di un cardinale: non so se si poteva desiderare meglio; e sarà per il tempo futuro cosa utilissima, perchè Roma incomincia a patir troppo prurito di scrivere, e non vede che il silenzio le sarebbe più utile, non essendo questi tempi come li passati negli altri secoli, quando le parole spaventavano.3

Alli giorni passati, credo scrivessi una nuova romana a V.E.: che si trattava matrimonio con la casa Aldobrandina e Borghese. A questo m’occorre aggiungere ora, che il cardinal Montalto ha disturbato tutto il trattato, e si sono dati scambievole parola li Ferretti e Borghesi di non parentarsi con Aldobrandini. Le scrissi ancora che i Turchi avessero preso tre galeoni e due tartane fiorentine: fu vera la presa ed il numero dei vascelli; ma erano [p. 349 modifica]maltesi, non fiorentini. Va attorno una certa fama, che venga in Italia un certo Colloredo mandato dall’imperatore per pigliar il ritratto della terzogenita di Savoia, volendo trattar matrimonio con esso lei. Se questo è vero, quella principessa avrà fatto un differente cambio di contratto, passando da un figlio di conte ad un imperatore. Però aspetteremo anco il terzo,4 poichè si può credere che questo non sii per servire ad altro che, all’imperatore, per divertire la trattazione di re de’ Romani;5 e al duca di Savoia, l’andata del principe Filiberto in Ispagna.

Delle cose di Cleves vengono qui avvisi non molto buoni per quei principi confessionisti; poichè li popoli cominciano a pensare a neutralità: così si tiene che si sii dichiarata la città di Duren. A’ 9 ottobre passato, arrivò a Bruselles ordine di Spagna di aiutar Leopoldo, con tal circospezione però, che la tregua non si rompa: per il che pare che, aggiunto qualche aiuto di sottomano a quello che Leopoldo potrà avere dagli ecclesiastici e cattolici di Germania, possa sostenersi compitamente; sebbene ha mandato in Ispagna Stingel (per quanto si crede), per ottenere risoluzione meno clausulata. La separazione del duca di Sassonia dagli altri principi, sarà causa infine di fargli perdere. Si farà una loro riduzione a Eidelberga, alla quale il re di Francia manda un ambasciatore. Già pareva che quel re [p. 350 modifica]volesse la guerra; ora pare che si voglia interporre. Egli ha destinato una solenne ambasceria alla maestà cesarea, per corrispondere alla mandata a lui. È stato quel re molto onorato di ambascerie in questi giorni, avendone avute, oltre la imperiale, dalli principi collegati, dal duca di Sassonia, dall’arciduca Leopoldo, dagli elettori ecclesiastici: il che gli serve a farlo stimare a sè stesso, mentre gli Spagnuoli stanno queti ed attendendo.

La venuta qui dell’ambasciatore olandese ha dato qualche gelosia a’ Spagnuoli, che non è inutile per le cose della Repubblica. Si ritrova qui il duca di Mantova, che spesso pratica coll’ambasciatore spagnuolo, e pare che inclini al presente a quella parte; ed esorta altri a far bene con loro, per mantenere la quiete d’Italia; e biasima un altro inquieto,6 che per speranza vuole arrischiare quello che possiede. Ha mandato il duca suddetto il suo primogenito a risiedere in Monferrato, per qualche sospetto: manderà il cardinale a Roma, con entrata di 50,000 ducati, per star un anno neutrale, e poi giungersi a chi gli farà partito; lasciandosi però intendere che si contenterà da’ Spagnuoli di qualche cosa manco. Si vede bene per esperienza, che non li parentadi, ma gl’interessi congiungono le persone.

Nella città non ci è cosa nuova, se non li fallimenti frequentissimi,7 poichè in questi quindici giorni arrivano quasi alla somma di un milione; e le frequenti prigionie di preti e frati. E’ pare che [p. 351 modifica]non occorra eccesso, dove alcun tale non sii in complicità. Li guadagni della corte romana sono questi: dove, innanzi li mali eccitati da loro, ne era imprigionato uno ogni dieci anni, ora ne sono imprigionati venti all’anno. Ma da Roma le cose passano tanto quiete, che non si può desiderar più. È necessario che l’illustrissimo Mocenigo8 abbia la grazia di san Paolo: non so che altro dire.

Ringrazio affettuosamente V.E. della relazione che mi dà delle cose della religione costì; e per non abusar più lungamente la grazia che mi fa leggendo le mie dicerie, farò fine baciandole la mano.

Venezia, 27 novembre 1609.




Note

  1. Pubblicata come sopra, pag. 134.
  2. Implicato nella tanto famosa cospirazione che si disse delle polveri, e perciò condannato alla forca. Era inglese, di nome Enrico, ed aveva in Italia avuto per maestri il Bellarmino ed il Clavio. I gesuiti ne fecero un martire, dopo aver forse sperimentato che non potevano farne un innocente.
  3. E oggidì, le parole di tal sorta non solo non ispaventano più, ma non sono più lette fuorchè dai partigiani di quelli che scrivono: il che vuol dire che il tempo ha lor tolta ogni virtù di convertire e di fare proseliti.
  4. Il terzo avviso, o il terzo corriere.
  5. Ed anche per divertire un’altra non meno ambiziosa trattazione che Carlo Emmanuele aveva intavolata col re Enrico IV, cioè di maritare una delle sue figlie col re di Francia. Vedi Muratori, alla fine dell’anno 1609.
  6. Per questo inquieto è da intendersi il duca di Savoia.
  7. Si noti per la tanto decantata prosperità dei popoli sotto il governo veneto. I fallimenti sono nel corpo sociale come le malattie nel corpo umano, cioè inevitabili.
  8. Cioè, l’ambasciatore veneto alla Corte di Roma. Vedasi la Lettera CIII.