Lettere (Machiavelli)/Lettera XIV a Francesco Vettori

Lettera a Francesco Vettori

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Lettera a Francesco Vettori
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Magnifico oratori florentino Francisco Vittorio apud Summum Pontificem benefactori suo.

Magnifico oratore. Io tornai hieri di villa et Pagolo vostro mi dette una vostra lettera de' 23 del passato, che rispondeva ad una mia di non so quando, della quale io presi gran piacere, veggendo che la Fortuna vi è suta tanto amorevole, che l'ha saputo sì ben fare, che Filippo et il Brancaccio siano diventati con voi una anima in due corpi, overo due anime in un corpo, per non errare. Et quando io penso dal principio al fine di questa loro et vostra historia, che in verità, se io non havessi perduto le mie bazzicature, io l'harei inserta in fra le memorie delle moderne cose, et mi pare che la sia così degna di recitarla ad un principe, come cosa che io habbia udita questo anno. E' mi pare vedere il Brancaccio raccolto in su una seggiola a seder basso per considerar meglio il viso della Gostanza, et con parole et con cenni, et con atti et con risi, et dimenamento di bocca et di occhi et di spurghi, tutto stillarsi, tutto consumarsi, et tutto pendere dalle parole, dallo anhelito, dallo sguardo, et dallo odore, et da' soavi modi et donnesche accoglienze della Gostanza.

Volsimi da man dextra, et viddi il Casa
che a quel garzone era più presso al segno,
in gote un poco, et con la zucca rasa.


Io lo veggo gestire, et hora recarsi in su un fianco et hora in su l'altro; veggolo qualche volta scuotere il capo in su le mozze et vergognose risposte del giovane; veggolo, parlando seco, hora fare l'uffizio del padre, hora del preceptore, hora dello innamorato; et quel povero giovinetto stare ambiguo del fine a che lui lo voglia condurre: et hora dubita dell'honore suo, hora confida nella gravità dell'huomo, hora ha in reverenzia la venusta et matura presenzia sua. Veggo voi, signor oratore, essere alle mani con quella vedova et quel suo fratello et havere uno occhio a quel garzone, il ritto però, et l'altro a quella fanciulla, et uno orecchio alle parole della vedova et l'altro al Casa et al Brancaccio; veggovi rispondere generalmente loro, et all'ultime parole, come Eccho; et infine tagliare e ragionamenti, et correre al fuoco con certi passolini presti et lunghi un dito, un poco chinato in su le reni. Veggo, alla giunta vostra, Filippo, il Brancaccio, il garzone, la fanciulla rizzarsi; et voi dite: — Sedete, state saldi, non vi movete, seguite i vostri ragionamenti — et doppo molte cerimonie, un poco domestiche et grassette, riporsi ognuno a sedere, et entrare in qualche ragionamento piacevole. Ma sopratutto mi pare vedere Filippo, quando Piero del Bene giunse; et se io sapessi dipignere, vel manderei dipinto, perché certi atti suoi familiari, certe guardature a traverso, certe posature sdegnose non si possono scrivere. Veggovi a tavola, veggo gestire il pane, i bicchieri, la tavola et i trespoli, et ognuno menare, o vero stillare letizia, et in fine traboccare tutti in un diluvio d'allegrezze. Veggo infine Giove incathenato innanzi al carro, veggo voi innamorato; et perché quando il fuoco si appicca nelle legne verdi egli è più potente, così la fiamma essere in voi maggiore, perché ha trovato maggiore resistenza. Qui mi sarebbe lecito esclamare come quel terenziano: « O coelum, o terram, o maria Neptunni ». Veggovi combattere in fra voi, et quia non bene conveniunt, nec in una sede morantur maiestas et amor, vorresti hora diventare cigno per farle in grembo uno huovo, hora diventare oro perché la vi se ne portasse seco nella tasca, hora uno animale, hora uno altro, pure che voi non vi spicasse da lei.

Et perché voi vi sbigottite in su lo exemplo mio, ricordandovi quello mi hanno fatto le freccie d'Amore, io sono forzato a dirvi come io mi sono governato seco. In effetto io l'ho lasciato fare et seguitolo per valli, boschi, balze et campagne, et ho trovato che mi ha fatto più vezzi che se io lo havessi straziato. Levate dunque i basti, cavategli il freno, chiudete gli occhi, et dite: Fa' tu, o Amore, guidami tu, conducimi tu: se io capiterò bene, fiano le laude tue; se male, fia tuo il biasimo: io sono tuo servo: non puoi guadagnare più nulla con straziarmi, anzi perdi, straziando le cose tue. Et con tali et simili parole, da fare trapanare un muro, potrete farlo pietoso. Sì che, padron mio, vivete lie to: non vi sbigottite, mostrate il viso alla fortuna, et seguite quelle cose che le volte de' cieli, le condizioni de' tempi et degli huomini vi recano innanzi, et non dubitate che voi romperete ogni laccio et supererete ogni difficultà. Et se voi gli volesse fare una serenata, io mi offero a venire costì con qualche bel trovato per farla innamorare.

Questo è quanto mi occorre per risposta della vostra. Di qua non ci è che dirvi, se non prophezie et annunzii di malanni: che Iddio, se dicono le bugie, gli facci annullare; se dicono il vero, gli converta in bene. Io quando sono in Firenze mi sto fra la bottega di Donato del Corno et la Riccia, et parmi a tutti a due essere venuto a noia, et l'uno mi chiama impacciabottega, et l'altra impacciacasa. Pure con l'uno et con l'altro mi vaglio come huomo di consiglio, et per insino a qui mi è tanto giovato questa reputazione, che Donato mi ha lasciato pigliare un caldo al suo focone, et l'altra mi si lascia qualche volta baciare pure alla sfuggiasca. Credo che questo favore mi durerà poco, perché io ho dato all'uno et all'altro certi consigli, et non mi sono mai apposto, in modo che pure hoggi la Riccia mi disse in un certo ragionamento che la faceva vista di havere con la sua fante: Questi savi, questi savi, io non so dove si stanno a casa; a me pare che ognuno pigli le cose al contrario.

Oratore magnifico, vedete dove diavolo io mi truovo. Vorreimi pure mantenere costoro; et per me non ci ho rimedio: se a voi, o a Filippo, o al Brancaccio ne occorresse alcuno, mi sarebbe grato me lo scrivessi. Valete.

Addì 4 di Febbraio 1513.

Niccolò Machiavelli in Firenze.